martedì 31 maggio 2016

La sfida al terrorismo

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

La sfida al terrorismo



A pochi giorni dal fischio d’inizio degli Europei di calcio in Francia, non solo il Paese transalpino, ma l’intero Vecchio Continente si sta ponendo domande in merito alle misure di sicurezza necessarie per garantire un sereno svolgimento dell’evento. Sono passati soltanto pochi mesi dalla strage del Bataclan e ancor meno dal massacro compiuto da guerriglieri jihadisti nella vicina Bruxelles, e la Francia si ritrova a dover gestire un mese di eventi sportivi che metteranno a durissima prova non solo l’apparato logistico del Paese, già provato dalle recenti contestazioni dei lavoratori, ma soprattutto il lavoro delle intelligence e dei corpi di polizia di tutta Europa. Al momento risulta evidente che i Campionati Europei rappresentano più una minaccia che una risorsa per i cugini francesi, come confermato nelle dichiarazioni del Presidente Hollande, che li ha definiti “un evento, anzi una festa, che però impegnerà la sicurezza francese come mai nessun evento ha fatto finora”. Sicuramente le minacce più ingenti provengono da fattori interni. In primis i tanti, anzi potremmo dire i troppi, radicali islamici che affollano le banlieu parigine e i tanti ghetti, sempre più simili a delle kasbah, delle città francesi. Recentemente si è stimato che quasi il 23% dei foreign fighters che hanno imbracciato un Ak47 in supporto dell’Isis, proviene dalla Francia. Questo dato che possiamo definire decisamente allarmante, diviene drammatico nel momento in cui traduciamo questa percentuale in numeri: 7.000 (settemila) combattenti dello Stato Islamico provengono dal Paese che fu di Napoleone Bonaparte. Circa la metà di questi settemila jihadisti ha passaporto francese, è nato e cresciuto in Francia, ha girato liberamente l’Europa facendo proseliti, mentre gli altri spesso sono immigrati di prima generazione che hanno sposato l’estremismo islamico ben prima di partire alla volta del nostro continente. Ed ecco che la Francia si ritrova un’altra volta, per l’ennesima volta, a dover fare i conti con un fondamentalismo islamico che non si è sviluppato nelle grotte del Kandahar o in villaggi della provincia di Raqqa, ma nelle verdi campagne francesi, o molto più spesso, in alcuni degradati quartieri parigini e marsigliesi, che ormai rimandano alle periferie abbandonate di Casablanca o Algeri, dove si respira l’odio per l’Occidente e i ragazzini crescono a pane e jihad.

Gli interrogativi, se fosse o meno il caso di svolgere una manifestazione di così ampia portata, in un Paese che soltanto pochi mesi fa è stato sconvolto dall’ennesima strage jihadista dopo il massacro di Charlie Hebdo, non dovrebbero nemmeno essere posti. Fermarsi, rinunciare, abdicare in favore della paura, è lo scopo che il terrore si prefigge, è l’obiettivo che spinge e fomenta la jihad ai quattro angoli della Terra. Quindi gli Europei si devono svolgere, senza se e senza ma, con buona pace di alcuni buontemponi che trovano tali manifestazioni un affronto al terrorismo. Come se il terrorismo avesse bisogno di un pretesto per attaccarci. La domanda piuttosto è un’altra. Anzi dobbiamo farne più di una. Dopo anni in cui ci si è convinti, ingenuamente direi, che il modello d’integrazione alla francese piuttosto che quello belga o inglese, fossero la soluzione alla radicalizzazione di milioni di persone ammassate nelle periferie delle nostre città, pensieri prontamente smentiti dai drammatici fatti dei mesi addietro, siamo pronti ora ad elaborare delle nuove politiche migratorie e di difesa del territorio?

Dopo anni in cui molti, anzi la stragrande maggioranza degli intellettuali occidentali ed europei in particolare, hanno spiegato, forse giustificato, il terrorismo come un fenomeno che si forma in seno a quelle comunità abbandonate dal welfare e dallo Stato, tesi disintegrata sempre dai recenti fatti compiuti da soggetti perfettamente integrati nelle nostre società (con un buon lavoro, elevata istruzione, moglie e figli...), siamo pronti ad affrontare e riconoscere un nemico che ha il nostro stesso passaporto, parla la nostra stessa lingua, gode dei nostri stessi diritti, ma sopratutto conduce una vita apparentemente identica alla nostra?

Infine l’ultima domanda, che ha il sapore di una provocazione. Con gli ultimi attentati di cui l’Europa è stata vittima, abbiamo acquisito un dato importante e agghiacciante al contempo: ovvero che il nemico gode, al pari di ogni altro cittadino, di una libertà di movimento fondamentale per poter compiere atti criminali e poi poter fuggire senza alcun disturbo. Tale libertà deriva da Schegen, dalla visione di un’Europa unita e senza barriere, un’Europa che oggi rischia di scomparire, sotto le raffiche di Kalashnikov del terrore e l’avanzata dei vari partiti anti UE. Ed ecco quindi il quesito: siamo pronti ad implementare nuove politiche di intelligence, di controspionaggio, di monitoraggio del territorio e di cooperazione tra Paesi, in un’Europa così frammentata e divisa su tutti i principali problemi dei nostri tempi? Forse no. E forse è questo il vero problema.

Se fossimo uniti, anzi direi innamorati, di quei valori non negoziabili che hanno fatto grande la nostra civiltà, come la Democrazia, l’Uguaglianza e la Libertà, e se fossimo realmente convinti che il nemico ormai è dentro casa e va combattuto con ogni mezzo, senza se e senza ma, molti dei nostri problemi sarebbero già risolti. Purtroppo spaccature e divisioni, incomprensioni e semplici giochini di partito, sciocche gelosie e meri calcoli economici tra Paesi, rendono la vita oltre modo facile al terrore, ed ecco che perfino un’occasione di festa, come sono i Campionati Europei, diventa un’emergenza da affrontare, una guerra non dichiarata ma vissuta ormai con rassegnazione, come se fosse una guerra persa in partenza, causa incapacità di reagire concretamente. In questo mese la partita più importante non si giocherà sui campi di calcio, ma nelle nostre città, tra noi e un nemico talvolta invisibile, ma pronto a spargere piombo, sangue e morte sulle nostre strade. Una partita tra la libertà e l’ideologia divenuta terrore. Una partita tra noi e loro. Una partita che non finirà con la conclusione degli Europei di calcio, ma con la vittoria, anzi la scomparsa di una delle due parti. Che il gioco abbia inizio.
Stefano De Angelis


Stefano De Angelis (Chieti, 1986) ha conseguito la laurea con lode in Sociologia presso l'Università degli Studi "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara, discutendo una tesi sul fenomeno terroristico, frutto di un lungo lavoro di ricerca condotto tra Italia e Stato Uniti. Autore del libro inchiesta "Il terrorismo nell'era postmoderna" (Tabula Fati, 2014), del tascabile sociologico "Pillole Liquide" (Tabula Fati, 2015), e di articoli in materia di difesa per alcuni dei più importanti blog del settore, il suo ultimo libro "Isis vs Occidente" (Solfanelli 2015) è considerato best seller di categoria negli USA. Attualmente è corrispondente per la rubrica "Esteri e Lotta al terrore" per il quotidiano statunitense "America Oggi", collabora alla cattedra di Sociologia Generale del Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali nell'Ateneo teatino, ed è docente di Sociologia dei Fenomeni Terroristici, Tecniche di Prevenzione e Contrasto presso la Questura di Chieti.

lunedì 30 maggio 2016

L'incidente diplomatico: Italia e India nella vicenda dell'Enrica Lexie

L'incidente diplomatico: Italia e India nella vicenda dell'Enrica Lexie


Il 15 febbraio 2012, la nave commerciale battente bandiera italiana Enrica Lexie si trova nelle acque del mare arabico, a largo della costa dello stato indiano di Kerala. A bordo di  questa, si trovano i due protagonisti della vicenda, i fucilieri di marina del 2° Reggimento  San Marco, Marco Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Il loro compito è quello di  proteggere la nave da eventuali atti di pirateria, verificatisi con frequenza crescente nel tratto  di mare compreso tra Corno d'Africa e Malesia. I fatti, ancora non del tutto acclarati, riguardano la sparatoria verificatasi a danno del peschereccio indiano St. Antony che naviga poco distante dalla nave italiana: i due Marò a bordo, di fatto convinti di trovarsi sotto attacco pirata, sparano in direzione dell'altra nave, causando la morte di due pescatori indiani. Quando l'Enrica Lexie attracca al porto di Kochi, su intimazione delle autorità indiane, i Marò vengono arrestati e poche settimane dopo vengono trasferiti al carcere ordinario di Trivandrum . Dal momento dell'arresto, inizia per il governo italiano la 1 trattativa diplomatica con l'India al fine di ottenere la scarcerazione e il rimpatrio dei fucilieri italiani, ma sopratutto la giurisdizione penale del caso. Solo ad inizio 2013 si assiste ad una svolta nella vicenda: con sentenza del 18 gennaio, la Corte Suprema Indiana sancisce che lo Stato del Kerala non ha facoltà di giurisdizione per procedere contro i due Marò, in quanto i fatti non sono avvenuti nelle sue acque territoriali ed ordina la costituzione di un tribunale speciale ad hoc a cui verrà trasferito il caso. Inoltre, a favore della difesa italiana, la Corte riconosce che il peschereccio St. Antony non risulta registrato nell'apposito registro indiano delle navi mercantili e sopratutto che al momento del fatto non batteva bandiera indiana . Di contro, la Corte rigetta le obiezioni italiane circa il difetto di giurisdizione indiana, confutando inoltre la pretesa italiana di immunità sovrana a favore dei Marò. La sentenza della Corte Suprema del 18 gennaio 2013 risulta essere tutt'oggi il provvedimento giurisdizionale più importante per la vicenda di Latorre e Girone, in quanto costituisce un utile punto di riferimento, sia essendo una prima valutazione del supremo organo di giurisdizione indiano, sia offrendo una completa panoramica delle questioni di diritto rilevanti e delle norme eventualmente applicabili.
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Gabriella Cinque e Giulia Guastella

giovedì 26 maggio 2016

La mafia con gli occhi del Maghreb

La mafia con gli occhi del Maghreb



Avevo solo tre anni quando una bomba sventrò l'autostrada che collegava Palermo con l'aeroporto di Punta Raisi, uccidendo il giudice Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Mentre mia sorella ne aveva solo due quando una autobomba sventrò Via d'Amelio. Prima di me mio padre, allora giovane operaio tunisino appena emigrato a Palermo, conobbe la ferocia di Cosa Nostra con i cadaveri lasciati a terra dalla seconda guerra di mafia di inizio anni ottanta e l'agguato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa avvenuta in Via Carini, a pochi passi dal residence in cui abitava con altri operai magrebini .

Dopo mio padre e poco prima di me e mia sorella, mia madre, nel 1987 allora sposina fresca di Maghreb, conobbe quella ferocia narrata qualche anno prima da mio padre quando Cosa Nostra tornò a sparare nelle strade palermitane. Molto spesso durante le commemorazioni, come quelle avvenute in questi giorni  in occasione dell'anniversario della morte del Giudice Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, chi parla della lotta alla mafia sono ''degli italianissimi'' (e non sicilianissimi) cittadini. E chi vede da fuori l'allestimento di questo teatro spesso si chiede : ma solo gli italiani hanno subito, e subiscono ancora, la prepotenza mafiosa laggiù? Ovvio che no, mi verrebbe da rispondere. Ma dopo aver risposto alla domanda di questo pinco pallino che ci osserva da fuori, a mia volta mi chiedo: perché durante queste ''italianissime'' commemorazioni non abbiamo mai sentito la voce delle vecchie comunità che da secoli arricchisce l'identità siciliana. 

Perché durante le commemorazioni non abbiamo mai sentito le voci dei figli di quelle comunità immigrate, nati e cresciuti nell'Isola di Giuseppe Impastato ? 

Eppure anche loro (come nel caso di mio padre) sono stati testimoni di questo pezzo di storia siciliana. Anche loro, a differenza degli ''italianissimi'' (e ripeto, non sicilianissimi) hanno subito sulla loro pelle questo fenomeno storicamente foraggiato da quei stessi ''italianissimi'' e i loro seguaci siciliani in salsa tricolore. Ed è proprio durante queste commemorazioni che personaggi come me, nonostante il codice genetico arabo, berbero e punico condiviso da mezza Sicilia, vengono ancora oggi considerati figure fuori luogo da questo strano concetto di memoria collettiva che esclude invece di includere. Ma ecco che proprio alla vigilia della ventiquattresima e italianissima commemorazione della strage di Capaci, a Palermo, nella sicilianissima Palermo, la sicilianissima comunità bengalese dell'antico quartiere del Ballarò si era ribellata coraggiosamente contro la prepotenza mafiosa locale. E proprio ieri io, figlio di quell'anonimo operaio tunisino che assitette da lontano all'omicidio Dalla Chiesa, avevo presentato la lotta alla mafia giù in Sicilia ad un pubblico internazionale, in Lituania, riscuotendo un grande successo e cancellando cosi dalle menti di spagnoli, francesi e lituani, l'equazione Sicilia uguale Mafia. Ne parlai come di una mia lotta e nessuno ha fatto caso ai miei tratti somatici nordafricani. Forse perché tutti sanno che la Sicilia non è solo italiana. Forse perché sanno che essere siciliani vuol dire anche essere arabi, normanni, fenici, e chissà quant'altro. Vuol dire essere figli di un identità, quella siciliana, che ha incluso e mai escluso.  A chi appartiene quindi la lotta ? La lotta appartiene a chi abita e vive la dura realtà dei vecchi quartieri palermitani, senza distinzioni di colore, religione o etnia. La lotta invece non appartiene a quegli ''italianissimi'' che ogni 23 Maggio o 19 Luglio escono dalle loro torri d'avorio per poi rientrarvi poco prima delle mezzanotte.

Rabih Bouallegue

martedì 24 maggio 2016

Libia: il difficile cammino verso l'unità

Libia: il difficile cammino verso l'unità


La settimana appena trascorsa vede importanti sviluppi della situazione politica interna ed esterna della Libia alla luce del summit avvenuto a Vienna, giorno 18 Maggio 2016, organizzato da Stati Uniti e Italia, a cui hanno partecipato insieme al nuovo presidente libico di unità nazionale, Fayez  al Sarraj, i primi ministri di 20 paesi tra cui i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’Egitto. I delegati hanno sottoscritto una dichiarazione che riconosce l’operatività del governo di unità nazionale del premier designato Fayez al Sarraj e apre la strada all'alleggerimento dell’embargo sulle armi, all'addestramento ed equipaggiamento della Guardia presidenziale soprattutto in chiave anti-Isis, a una strategia concreta per il contrasto al traffico di esseri umani.[1] La proposta di “eccezione all'embargo” ( che quindi rimarrà per altre milizie ) è stata accolta dai delegati dei 20 paesi più l’ONU, l’UE e l’Unione africana, che hanno aperto alla richiesta di armare la “Guardia presidenziale” appena creata a Tripoli.[2] La Guardia nei piani di Sarraj non dovrebbe essere l’embrione di un nuovo esercito nazionale libico. Ma comunque potrebbe diventare la struttura attorno a cui ricomporre prima o poi le forze armate nazionali. Fayez Sarraj ha un Consiglio presidenziale, riconosciuto come “governo di unità nazionale” da parte dell’ONU, ma i suoi ministri non sono stati ancora votati dal Parlamento, quindi non sarebbero “legali”. Tuttavia, quello di Sarraj viene considerato l’unico governo riconosciuto dall’ONU, e quindi la sua richiesta di ricevere armi in deroga all'embargo Onu è stata accolta positivamente dagli Usa e dagli altri paesi riuniti a Vienna. Sarraj quindi non richiede un intervento straniero in Libia, bensì “assistenza con addestramento della Guardia presidenziale, per combattere lo stato islamico. Il premier libico ha inoltre chiesto ai suoi 18 ministri di entrare nei ministeri ed iniziare a lavorare anche senza il voto del parlamento di Tobruk e la mossa è stata approvata dai 20 ministri degli Esteri, riuniti a Vienna. Nonostante l’importante riconoscimento da parte delle Nazioni Unite del governo Sarraj, la solidità e il consenso politico interno alla Libia è tutt'altro che raggiunto. Al fine di comprendere la frammentarietà della nazione libica e del suo ruolo all'interno della comunità internazionale, è utile analizzare tre variabili che definiscono e contraddistinguono la situazione politico-economica della Libia contemporanea: 1) politica interna e formazione del governo Sarraj; 2) nascita e sviluppo dello Stato Islamico; 3) Interessi petroliferi.

Politica interna e formazione del governo Sarraj 
La Libia, a partire dalla caduta di Gheddafi, ha visto un complicato percorso di transizione, che ha portato ad una complessa frammentarietà politica e militare.
Ad oggi, l’accordo politico che vede Sarraj al comando è abbastanza fragile. I principali centri di potere presenti in Libia sono essenzialmente quattro:
  1. Il governo risultante dal processo politico e conosciuto come Governo di concordia nazionale  ( Gna, dall’acronimo inglese “Government of National Accord” );
  2. Il “governo di salvezza nazionale dei filoislamisti di Tripoli”,con la sua forza militare che fa capo alle milizie della città stato di Misurata.
  3. Il governo di Tobruk vicino al generale Haftar e all’Egitto, appoggiato dalle milizie della città di Zintan.
  4. Lo Stato Islamico centrato su Sirte, appoggiato dalle milizie qaidiste di Ansar al-Sharia.
L’accordo politico libico negoziato dall’Onu e firmato in Marocco a dicembre è basato sui due “parlamenti” di Tobruk e Tripol, facenti capo rispettivamente al generale antislamista Halifa Haftar e a un coacervo di milizie antigeddafiane e islamiste. Quest’ultimo punto è molto importate da comprendere al fine di inquadrare le due principali divisioni in Libia, che superano la conformazione e l’ostilità di natura tribale che contraddistingue il popolo libico dagli albori della sua nascita. Le divisioni di oggi, nascono durante la rivoluzione contro Gheddafi: Gli ex ufficiali e dipendenti del raìs contro le forze islamiste. Tuttavia, i due parlamenti praticamente non funzionano più, non è chiara neanche la loro composizione e politicamente rappresentano solo un terzo circa dell’arco politico libico.[3] Nonostante ciò, l’accordo Onu è costruito per funzionare solo con il consenso di questi due parlamenti. Principalmente quello di Tobruk, che dovrebbe garantire la fiducia del governo di unità nazionale  e svolgere il ruolo di suprema autorità legislativa del paese. Quello di Tobruk, tuttavia non è mai stato il vero parlamento unitario della Libia, essendo stato eletto il 25 giugno 2014 senza accordo tra le parti per riconoscerne i risultati. A partire da quella data, una serie di vicissitudini e dissidi interni, portarono a una serie di forzature condotte dalle Nazioni Unite, col proprio inviato Bernardìno Lèon, che agiva anche negli interessi degli Emirati Arabi Uniti, alleati insieme all’Egitto con il generale Haftar. Tuttavia la Camera di Tobruk non ha mai approvato veramente l’accordo dell’Onu, a parte un voto in cui astutamente rigettava solo le clausole ostili ad Haftar. Il nodo rimaneva di dare la fiducia ai ministri del neo-nato governo di unità nazionale. Così, tra la fine di febbraio e la prima metà di marzo è maturata un’altra soluzione: accogliere una lettera firmata da 101 parlamentari come surrogato di un voto di fiducia[4]. Nonostante le delegazioni libiche si siano rifiutate di riconoscere questo meccanismo, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, attraverso una dichiarazione, insieme a statunitensi ed europei riconoscevano il governo di unità nazionale come governo legittimo della Libia, invitando a rompere ogni legame con i governi di Tobruk e Tripoli e, anzi, spingendo il primo ministro del governo unitario Fayz al Sarrag a insediarsi quanto prima nella capitale. Nonostante le forzature, la Camera dei rappresentanti rimane l’organo centrale dell’accordo che dovrà concordare molte nomine con il Consiglio di Stato, una rivisitazione del parlamento di Tripoli. Arrivati a questo punto cruciale, i paesi occidentali, che probabilmente eviteranno di rinegoziare una nuova intesa sotto la guida Onu, dovranno andare avanti con una serie di forzature per far funzionare il nuovo governo libico.
Nascita e sviluppo dello Stato islamico in Libia
Ad oggi, i rami del califfato nero in Libia si trovano in tre regioni libiche: uno in Tripolitania, uno in Cirenaica e uno nel Fezzan. In un anno circa, lo Stato islamico in Libia (Isl) si è consolidato nella sua capitale de facto nel Nordafrica, Sirte, plasmandola sul modello di Raqqa e istituendo i suoi tribunali, i suoi uffici amministrativi, le sue prigioni e la sua polizia.[5] Oggi, lo Stato Islamico in Libia si trova a dover fronteggiare altre realtà salafite-jihadiste sul terreno, in quella che è una proiezione dello scenario siro-iracheno, mentre nel paese sono in corso diverse battaglie su più fronti, in particolare contro le forze islamiste di “Alba libica” e quelle laiche di Haftar con “l’Operazione Dignità”, che, da vecchi nemici, sono oggi alleati di fronte al nemico comune: Isl. La prima rilevante comparsa mediatica dell'Is in Libia risale al febbraio 2015, quando l’organizzazione diffonde il video della decapitazione di 21 egiziani copti a Sirte. Tra maggio e giugno 2015, l’Isl conquista Sirte e ne fa la sua roccaforte libica. Contemporaneamente viene sconfitto nella storica roccaforte jihadista della Libia: Derna. È stato il fronte libico del jihad che ha alimentando la propaganda dell’Is contro la nuova “campagna crociata”. L’esistenza di una strategia elaborata dalla leadership dell’Is per consolidare la propria presenza in Libia come base per la conquista del Nordafrica è emersa dopo gli attentati in Tunisia e Libia. Una forte spinta a questa delocalizzazione è stata data dall'inizio della campagna militare anti-Is avviata dalla coalizione internazionale arabo-occidentale nell'estate del 2014. Per una serie di fattori il contesto libico al momento si differenzia dallo scenario siro-iracheno. Ad esempio, in Iraq, l’ideologia dell’Is ha ricevuto molto sostegno locale grazie al lavoro svolto dagli ex-ufficiali del partito Ba’t di Saddam Hussein, che fecero leva sul sentimento antiamericano e sulla frustrazione sunnita nel post-Saddam. Questo aspetto fondamentale in Libia oggi è meno marcato, anche se l’Is potrebbe sfruttarvi il risentimento dei falchi del vecchio regime di Gheddafi.[6] Tuttavia, un nuovo scenario siro-iracheno potrebbe presentarsi qualora venga condotto un’improbabile intervento militare di terra occidentale , che verrebbe immediatamente presentato dalla propaganda dell'Is come una nuova crociata contro l’Islam, attirando così jihadisti da varie parti dell’Africa.

Interessi petroliferi 
La soluzione che i paesi occidentali, stanno adottando per cercare di individuare una via d’uscita nel labirinto libico è quella di seguire i soldi: il denaro che viene dalle vendite di petrolio, la risorsa che tiene insieme quel che resta delle istituzioni nazionali. È proprio su questo fronte che americani ed europei sono riusciti a incassare il solo successo netto e strategico nel giorno dell’insediamento del presidente Fayez al Sarraj a Tripoli. Il blocco occidentale ha impedito che il governo rivale di Tobruk piazzasse sui mercati internazionali il greggio estratto nella sua zona; la prima nave cisterna che ha preso il mare si è fermata a largo di Malta ed è stata costretta a invertire la rotta.[7] Il segretario di Stato John Kerry ha dichiarato a Vienna, che soltanto un governo unitario può permettere alla produzione petrolifera di funzionare e che tutta la comunità internazionale deve sostenere questa posizione. Così in Cirenaica ,rendendosi conto che non esistevano alternative all'accordo, nei terminal di Marsa el-Hariga- incastonato nel golfo di Tobruk sono ripresi i carichi delle navi, affidati però all'organismo internazionale Noc ( National Oil Corporation ). Il controllo del rubinetto petrolifero è oggi l’arma più importante nelle mani del presidente Sarraj. Con il monitoraggio totale del Golfo della Sirte ( oggi in parte in mano all’Is ) da parte delle flotte occidentali, il contrabbando di greggio  è praticamente impossibile. E senza l’oro nero la Libia rischia di fermarsi definitivamente: finora infatti l’ente centrale di Tripoli ha continuato a garantire i fondi per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, ossia della maggioranza dei lavoratori delle zone urbane, ma dalla caduta di Gheddafi la produzione è crollata vertiginosamente. Adesso con l’apertura del porto di Hariga, la produzione aumenterà, favorendo gli scambi con i paesi occidentali che con la Noc, hanno contratti di lunga durata.

Conclusioni
Avendo delineato le tre variabili, è opportuno fare delle ipotesi sul futuro libico, mettendo anche in chiaro come Europa e Stati Uniti stanno operando nel contesto libico. L’occidente si sta concentrando sul contenimento di alcuni mali del paese nordafricano e in cima alla lista ci sono Stato Islamico e immigrazione. Per la lotta all’Is, la strategia adottata da Stati Uniti e Francia ( con la Gran Bretagna nell’usuale ruolo di comprimario ) è la classica “guerra al terrorismo 2.0: droni, raid aerei per uccidere i leader, forze speciali che stabiliscono rapporti bilaterali con singoli gruppi armati locali. Tuttavia le dichiarazioni ufficiali occidentali tendono a tenere separato il piano alla lotta allo Stato Islamico da quello del lavoro a un processo politico unitario. Il risultato è stato che, sostenendo militarmente Haftar, le varie milizie si misero in competizione per dimostrare di essere il partner ideale contro l’Is, al fine di ottenere finanziamenti e armi da parte dell’Occidente. È chiaro che un processo politico unitario non possa realizzarsi in un contesto di competizione militare tra le milizie. Nel caso dell’immigrazione, è possibile che assisteremo ad accordi simili all'ultimo accordo tra l’UE e la Turchia. L’obiettivo politico rimane quello di “spostare” altrove la presunta minaccia rappresentata dai migranti, usando fondi e non badando alle infrazioni umanitarie del partner. La strategia prevede opzioni diverse: o il presidente Sarraj approva operazioni militari sulle coste, con l’estensione della fase 3 del mandato dell’operazione europea “Sophia” contro i trafficanti, oppure gli europei troveranno in alcune municipalità o città stato, quali sono adesso, tanti leader pronti a cooperare in fatto di lotta al traffico di esseri umani. Intanto il nostro paese sta conducendo un lavoro lodevole, riunendo i leader dei principali paesi a Vienna, e lavorando in prima linea per un processo politico unitario. Nella speranza che la città di Musurata, il suo unico vero sponsor, si riveli un partner allo stesso tempo affidabile e in grado di farsi valere sugli altri contendenti. Inoltre il ministro degli esteri Gentiloni ha dichiarato che adesso è necessario negoziare col generale Haftar, il quale ha recentemente dichiarato di non riconoscere il governo Sarraj e quindi di non rispettare la decisione delle Nazioni Unite. Il generale, infatti, sponsorizzato dall'Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti, vorrebbe un ruolo chiave nel nuovo esercito che Sarraj sta formando, grazie all'embargo sulle armi concesso a Vienna. In questo sforzo, l’Italia non troverà molte sponde, visto che gli altri europei sono interessati solo a trovare dei rimedi immediati ai due mali che restano: Stato Islamico e migrazioni.


Danilo Lo Coco


[2] Nigro, V., “Alla Libia le armi dell’Occidente”, in “la Repubblica”, 17-05-2016.
[3] Toaldo, M., “Il paziente libico è morto (per l’Occidente)”, in “Limes” n°3/2016, “Bruxelles, il fantasma dell’Europa”, 2016
[4] Toaldo, M., “Il paziente libico è morto (per l’Occidente)”, in “Limes” n°3/2016, “Bruxelles, il fantasma dell’Europa”, 2016, p.112
[5] El Khoury, S., E., B., “Come lo Stato Islamico è penetrato in Libia”, in “Limes”, 3-2016.
[6] Cilliers, J., “What Happens in Libya Won’t Stay in Libya”, Institute for Security Studies, 4/3/2016.
[7] Di Feo, G., “Un’intesa sul petrolio la carta di Europa e Usa per unire le fazioni”, in “la Repubblica”, 17-05-2016.

lunedì 23 maggio 2016

A ventiquattro anni dalla strage di Capaci: cosa ci ha lasciato Giovanni Falcone

A ventiquattro anni dalla strage di Capaci: cosa ci ha lasciato Giovanni Falcone


“Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che, quando si tratta di rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare.

Queste parole non ci suonano poi tanto nuove. Sono le parole di un uomo che, col suo coraggio, ha fatto della lotta alla mafia la ragione della sua vita. Una vita stroncata brutalmente nel pieno della sua carriera e della sua vita amorosa esattamente ventiquattro anni fa, quel 23 maggio del 1992 alle diciotto del pomeriggio, quando all'altezza del piccolo comune siciliano di Capaci, cinquecento chili di tritolo hanno fatto saltare in aria l'auto su cui il giudice viaggiava con la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.

Giovanni Falcone credeva fermamente nel fatto che le cose potessero cambiare, a dispetto di un fenomeno così radicato quale si presentava la mafia dei primi anni ’90 in Sicilia, seppur ostacolato da una vita notevolmente blindata, caratterizzata da svariati tentativi di delegittimazione (nel qual caso non tardavano a subentrare forti amarezze professionali) e dalla lentezza della politica nel dare ai magistrati tutti gli strumenti necessari per combattere al meglio la mafia. Nonostante tutto questo e chissà quanti altri disagi che Falcone ha tenuto per sé, avvezzo com’era a risolversi le beghe da solo, non si è mai tirato indietro nel portare avanti una passione che lui stesso assicurava essere a sua volta mossa da un fedele “spirito di servizio”.

La perdita del giudice Falcone - distanziatasi peraltro di pochi mesi da quella del collega ed amico Paolo Borsellino, anche lui di origini palermitane, ha lasciato un vuoto non indifferente nelle generazioni a venire.

Ma nella direzione di una soluzione che sembra decisamente più positiva, tale vuoto si è deciso di colmarlo facendo dell’atteggiamento di Falcone il bignami di una vita improntata al rispetto e alla promozione della legalità. Sempre a testimonianza di ciò, il vuoto in questione è riuscito a smuovere le coscienze non solo dei cittadini italiani ma anche di quelli internazionali che nell'arco di questi ultimi vent'anni hanno studiato e poi dato voce alla solenne storia del Maxiprocesso. Il dato interessante è che ciò è potuto avvenire grazie ad una diffusione che ha operato attraverso canali istituzionali e non. Non solo la scuola dunque, ma anche il resoconto dei fatti nella forma seminariale, la pubblicazione e poi diffusione di libri biografici, la proiezione di alcuni estratti delle stragi all'interno di docufilm appositamente realizzati e lanciati nei giorni di commemorazione; questi elementi, uniti al sentimento comune, hanno contribuito a dar eco alla storia dei due grandi magistrati nell'auspicio che se ne possa ricavare una grande lezione da trasmettere alle generazioni successive. Se non altro ha collaborato tantissimo in materia di lotta alla mafia e di promozione della legalità.


Si muove a piedi la civil society
Oggi sono già cinquantamila gli studenti di tutto il Paese che partecipano alle manifestazioni per il ventiquattresimo anniversario della strage di Capaci. «Sarà una giornata importantissima, pensiamo che il ricordo sia il primo passo nella lotta contro la mafia», dice il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. Le piazze della legalità - così si è voluto chiamarle quelle siciliane e non solo, toccate dalla sfilata - sono in diretto collegamento con l’aula Bunker del carcere Ucciardone già a partire dalle 9.45 di stamattina con una diretta su Rai Uno. Presenti, oltre al ministro Giannini, il presidente del Senato Pietro Grasso, i ministri della Giustizia, Andrea Orlando, dell’Interno, Angelino Alfano, il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, il presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, il procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti e il presidente della Fondazione Giovanni e Francesca Falcone”, Maria Falcone. 

“Palermo chiama Italia” sui social 
Ma anche sulle piattaforme social sarà possibile seguire la manifestazione «Palermo chiama Italia», sui profili @MiurSocial e @23maggioItalia. Gli hashtag della manifestazione sono #23maggio e #PalermoChiamaItalia. Foto e momenti salienti degli eventi saranno raccontati su Facebook attraverso gli account Miur Social e Palermo Chiama Italia. Tra Twitter, YouTube e Facebook sono previsti circa 60mila contatti e sul profilo del Miur sarà trasmessa, dalle 16, la diretta del corteo che partirà dall'aula bunker per arrivare sotto casa del giudice Falcone.

Una commemorazione che continua sul grande schermo
Mentre a ricordare il periodo delle stragi ci pensa già da qualche giorno la serie tv Romanzo Criminale che staserà aprirà col suo terzo episodio su canale 5, nelle grandi sale dei cinema italiani un’esclusiva cinematografica tutta oggi e domani: Era d’estate è la pellicola di Fiorella Infascelli, una prospettiva inedita che mostra i due giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, interpretati rispettivamente da Beppe Fiorello e da Massimo Popolizio, durante il periodo trascorso nell'aula Bunker dell'Asinara.
Giulia Guastella

mercoledì 18 maggio 2016

Nato - Russia: il ritorno dell'Intermarium

Nato - Russia: il ritorno dell'Intermarium


In Romania, a Deveselu, viene schierato e reso operativo un componente dello scudo antimissile Aegis Ashore (BMD)[i]. Si tratta di un sistema più ampio che comprende un radar in Turchia (a Kürecik), navi dotate della strumentazione Aegis (anti-missili balistici) e per il 2018 sarà reso operativo un ulteriore componente dello scudo antimissile a Redzikowo in Polonia. Formalmente si tratta di un sistema antimissile per difendersi dal “pericolo iraniano” e dall’instabilità mediorientale ma ovviamente tali affermazioni hanno sempre suscitato l’ilarità della diplomazia russa, che lo percepisce come una diretta minaccia alla sicurezza nazionale. D’altra parte l’accordo raggiunto sul nucleare iraniano non ha minimamente modificato lo schieramento del sistema antimissile in territorio europeo. Il sistema antimissile BMD ha rafforzato la “cavalcata” verso Est della Nato iniziata alla fine degli anni novanta (tuttora in espansione). Dopo avere perso la propria ragion d’essere antisovietica, la Nato si è rimodellata in piena dottrina Wolfowitz e hybris unipolare, sancendo la propria aggressività imperialistica in occasione della guerra contro la Jugoslavia (come ha ben fatto notare Sergio Romano – dal passato non certamente filosovietico –  nei suoi recenti lavori[ii]).

La Russia considera il dispiegamento del sistema antimissile una minaccia alla sicurezza nazionale e alla stabilità europea. Maria Zakharova, portavoce del ministero degli affari esteri della Federazione Russa, in un’intervista rilasciata all’agenzia ITAR TASS ha affermato che “la situazione strategica in Europa sta diventando molto più complicata a causa di questo”[iii].  Tale posizione è stata ribadita anche dall’ammiraglio Vladimir Komoyedov, capo della commissione difesa della Duma, il quale ha affermato che “questo non riguarda l’Iran ma la Russia con le sue capacità nucleari”[iv] (secondo la Nato si tratterebbe di “paranoie” russe da sindrome d’accerchiamento). Basta però dare un’occhiata ad una qualsiasi rappresentazione cartografica che evidenzi la contesa Nato-Russia per rendersi conto della realtà dei fatti: dall’Estonia alla Turchia, passando per Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Bulgaria è presente una vera e propria linea di contenimento antirusso che abbraccia gran parte dei paesi dell’ex patto di Varsavia o dell’ex Jugoslavia (la National Security Strategy russa del 2015 riprende la dottrina militare del dicembre 2014 in cui la Nato viene considerata la minaccia principale alla sicurezza nazionale). L’Ucraina dopo il golpe di Maidan è entrata a far parte del campo occidentale antirusso ed è in cantiere l’ integrazione del Montenegro all’interno della Nato. Si rispolvera il “prometeismo”, piano antisovietico elaborato da Józef Piłsudski agli inizi del Novecento mirante a ricostituire l’Intermarium tra il Mar Baltico e il Mar Caspio in memoria della Confederazione Polacco-Lituana. Nell’ambito della dottrina Intermarium spettava un ruolo importante all’Ucraina in quanto un’Ucraina antirussa avrebbe limitato l’accesso della Russia al Mar Nero[v]. La dottrina Intermarium è stata ripresa in forme diverse negli anni successivi e molti analisti hanno fatto notare come oggi la Nato rispolveri il “prometeismo”, puntando proprio sui paesi baltici, sulla Romania, sulla Polonia e sull’Ucraina per la formazione di una vera e propria linea di contenimento contro la Russia.

La Russia ha peraltro rischiato di perdere non soltanto la base di Tartus in Siria (ormai al sicuro) ma addirittura la storica base di Sebastopoli sul Mar Nero. Oltre ad evidenti motivazioni di importanza strategica (sbocco russo nel Maro Nero e quindi nel Mediterraneo), sono presenti importanti motivazioni di natura storica. Sebastopoli è stata sottoposta a un duro assedio di nove mesi durante la seconda guerra mondiale e la resistenza dell’Armata Rossa venne infine piegata dalle truppe dell’Asse (fu poi liberata dall’Armata Rossa nel 1944). Sarebbe stato difficile immaginare Sebastopoli, onorata come “città eroina” per la resistenza antinazista, in mano alle milizie banderiste rispondenti a Kiev che hanno fatto piazza pulita di ogni monumento che ricordasse il passato sovietico, riscrivendo la storia del proprio paese. Dal prossimo anno centinaia di carri armati e veicoli militari saranno schierati lungo i confini orientali della Nato come deterrente contro “l’aggressività russa” e alcuni tra i paesi più oltranzisti all’interno della Nato – Polonia in primis – vorrebbero “precauzioni” militari ancora più forti e stabili contro la Russia[vi]. Sergej Lavrov, ministro degli affari esteri della Federazione Russa, in una recente intervista rilasciata al quotidiano svedese Dagens Nyheter ha ribadito che le infrastrutture militari della Nato si stanno sempre più avvicinando ai confini della Russia, affermando che “quando la Russia si adopera per garantire la propria sicurezza, ci viene detto che la Russia è impegnata in pericolose manovre vicino ai confini della Nato” e che “in realtà i confini della Nato si stanno avvicinando alla Russia, non il contrario”. Lavrov ha anche fatto notare che l’ultimo incidente nel Baltico era legato a un “cacciatorpediniere statunitense armato di decine di missili da crociera che navigava a poche dozzine di chilometri dalla base russa a Baltiysk, che è territorio russo”[vii].

Ci troviamo oggi di fronte a un potenziale arco di crisi Nato-Russia che va dal Baltico alla Siria, dove un eventuale coinvolgimento militare turco rischierebbe di portare a un’escalation (fino ad ora saggiamente evitata da entrambe le parti). Si pone quindi il grande problema del rischio di nuove guerre che coinvolgano direttamente potenze più che regionali o addirittura globali. L’attuale contesa Nato-Russia non va letta come una riproposizione della “guerra fredda” e, per certi versi, è anche più insidiosa dato che tra Stati Uniti e Russia oggi c’è un’evidente incomprensione mentre “allora i decisori delle due potenze si capivano, suonavano spartiti diversi sulla stessa tastiera”[viii]. L’equilibrio di quegli anni si basava sul riconoscimento reciproco di uno status paritario tra le due superpotenze mentre dopo il crollo del campo socialista gli Stati Uniti hanno rilanciato la loro egemonia globale con pretese unipolari. La Russia è stata trattata quasi da paese sconfitto militarmente e oggi assistiamo ai primi smottamenti di un mondo in via di cambiamento. Alla Russia sta stretta la definizione obamiana di “potenza regionale” mentre la Cina – vera competitrice su scala globale anche se in una posizione più attendista – si trova a fronteggiare il pivot to Asia contornato dal TPP che fa il paio dal TTIP euro-atlantico. Russia e Cina si trovano d’accordo anche nell’opposizione allo schieramento del THAAD (sistema di difesa missilistico nell’area Asia-Pacifico) come hanno ribadito i due ministri degli esteri Wang Yi e Sergej Lavrov a fine aprile[ix]. Si pone un problema similare a quello appena affrontato in Europa: gli Stati Uniti affermano che si tratta di un sistema antimissile rivolto contro potenziali minacce nordcoreane mentre la Repubblica Popolare Cinese ritiene che possa neutralizzare anche i propri missili. Wang Yi ha ribadito che “una volta schierato, il sistema rappresenterebbe una minaccia diretta alla sicurezza strategica di Cina e Russia”, non contribuendo a risolvere la questione nordcoreana e alterando gli equilibri regionali. Il sistema di difesa antimissile, pur essendo rivolto alla “difesa”, ha in realtà una potenzialità pericolosamente offensiva se riuscisse a neutralizzare i missili provenienti da Russia e Cina (attualmente non è comunque in grado di farlo). Permetterebbe agli Stati Uniti di lanciare un primo colpo nucleare impunito, nullificando la capacità dissuasiva delle altre potenze.
Federico La Mattina

Note




[i] http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_49635.htm
[ii] Si veda ad esempio S. Romano, In lode della guerra fredda, Milano, Longanesi, 2015.
[iii] http://tass.ru/en/politics/875282
[iv] russia-calls-new-u-s-missile-shield-romania-direct-threat-n572651
[v] Vedi V. Gulevich, La dottrina Intermarium e l’integrazione dell’Ucraina con l’Europa, trad. it.: http://www.geopolitica-rivista.or. Vedi anche F. La Mattina, Tra Medio Oriente e Ucraina, cronache di un’egemonia in declino,  http://www.marx21.it/index.php/internazionale/pace-e-guerra/25948-tra-medio-oriente-e-ucraina-cronache-di-unegemonia-in-declino.
[vi] Si veda G. Lubold, J. E. Barnes, Pentagon Readies More Robust U.S. Military Presence in Eastern Europe, “The Wall Street Journal”, 30/3/2016. Vedi anche J. R. Deni, Poland Wants More Than NATO Can Give, “The National Interests”, 10/02/2016.
[vii] http://www.mid.ru/en/foreign_policy/news/-/asset_publisher/cKNonkJE02Bw/content/id/2258885
[viii] Due per due fa cinque?, in “Limes, rivista italiana di geopolitica”, 1/2016, p. 19. Si rimanda anche a Virgilio Ilari, La ‘terza guerra mondiale a pezzi’, in “Limes, rivista italiana di geopolitica”, 2/2016, pp. 69-74.
[ix] http://edition.cnn.com/2016/04/29/asia/north-korea-missiles-china-russia-us/

lunedì 16 maggio 2016

Il concetto di proporzionalità della Nato nei confini orientali dell'Alleanza: la politica di Stoltenberg

Il concetto di proporzionalità della Nato nei confini orientali dell'Alleanza: la politica di Stoltenberg


Il 20 aprile del 2016 ha avuto luogo a Bruxelles il  “NATO-Russia Council”. Questo incontro è stato necessario in seguito alle  continue politiche offensive della Russia (principalmente in Ucraina), ma anche alla crescente tensione lungo i confini orientali dell'Alleanza Atlantica. Il crescente impegno navale russo nella regione baltica e nel Mar Nero ha provocato la reazione della NATO, che ha notevolmente aumentato la sua presenza nei confini orientali nel corso dell'ultimo anno. Per questo motivo, la NATO e la Russia hanno chiesto una riunione  il 20 aprile. Lo scopo di questo incontro è stato sia discutere la questione ucraina riguardante l'annessione illegale da parte della Russia della Crimea, che la trasparenza tra le due parti al fine di ridurre il rischio di un conflitto. Dal 2010, la NATO ha messo in atto una nuova strategia basata sulla sicurezza collettiva, la prevenzione dei conflitti e la cooperazione con i paesi vicini per neutralizzare qualsiasi tipo di minaccia per i suoi stati membri. In primo luogo, questo articolo esaminerà le strategie chiave della NATO in un contesto post-guerra fredda, sottolineando i suoi "nuovi" principi per affrontare le minacce di un mondo multipolare. Poi, verranno esaminate le reazioni della NATO contro la politica offensiva della Russia e le conclusioni della riunione del 20 aprile. Infine, si prenderanno in considerazione le politiche della NATO fondate sulla crescente presenza militare lungo il confine orientale dell'Alleanza, mettendo in evidenza la situazione politico-militare attuale basata sul concetto di «azione-reazione».

Le nuove strategie chiave della NATO: il “Strategic Concept”del 2010
Il 19 novembre 2010 al vertice di Lisbona, i leader della NATO hanno adottato un nuovo “Strategic Concept”. Il “Strategic Concept” è un documento ufficiale nel quale si pianificano le politiche dell’Alleanza per i dieci anni successivi. Il documento presentava la visione della NATO per un'Alleanza in evoluzione che voleva difendere i suoi stati membri contro le minacce moderne. La NATO infatti si impegnava a diventare più agile, più capace e più efficace. Sottolineando che era giunto il momento per la NATO di sviluppare nuove capacità e nuove partnership, il Strategic Concept ha aperto la strada per la modernizzazione della NATO,  sviluppando le sue capacità di svolgere la sua missione fondamentale di difesa collettiva, pur continuando a promuovere la stabilità internazionale. I punti chiave della strategia NATO sono stati tre:
  •       La difesa collettiva: gli stati membri della NATO volevano reciproca assistenza contro ogni forma di attacco, a norma dell'articolo 5 del Trattato di Washington;
  •          Gestione delle crisi: la NATO voleva sviluppare strumenti politici e militari al fine di prevenire e gestire le crisi (per la prima volta dalla sua esistenza iniziava a valutare strumenti più simili a quelli mobilizzati dalle Nazioni Unite).
  •      Sicurezza cooperativa: l'Alleanza si impegna a migliorare la sicurezza internazionale, lo sviluppo di partnership con altri paesi e organizzazioni internazionali.

Tuttavia, la deterrenza è rimasta un elemento centrale della strategia della NATO. Gli Stati membri assicuravano la loro volontà di aumentare le loro capacità per scoraggiare e difendere la propria popolazione contro ogni minaccia, mantenendo la loro forza nucleare e convenzionale, e soprattutto per rafforzare la NATO Reponse force (istituita nel 2003 e composta da unità di terra, marittime, aeree e speciali multinazionali impiegabili in qualsiasi parte del mondo ed in una vasta gamma di operazioni), per realizzare iniziative di formazione, piani di esercitazione e di emergenza e per lo scambio di informazioni per garantire la difesa. Già nel 2010, la NATO aveva identificato nuove minacce, come la proliferazione dei missili balistici, armi nucleari, le armi di distruzione di massa, il terrorismo, ma soprattutto l'instabilità al di là dei suoi confini. Infatti, come spiegato nel report «Group of policy experts’ report to the NATO Secretary General» del 2012, il Strategic Concept poteva essere interpretato come una risposta alle  politiche adottate da Vladimir Putin, il quale aveva messo in atto un significativo programma di modernizzazione militare. Secondo il «Strategic Concept», la NATO doveva sviluppare la sua politica di prevenzione, basata sul concetto di «azione-reazione»: le misure della NATO sarebbero dipese dalle azioni messe in atto dagli avversari. Al vertice della NATO in Galles, nel settembre del 2014, i leader alleati hanno incontrato Petro Poroshenko, presidente ucraino nella Commissione NATO-Ucraina. In una dichiarazione congiunta, hanno condannato l'annessione della Crimea e la sua destabilizzazione continua e deliberata del diritto internazionale. Essi hanno inoltre concordato un pacchetto globale di misure per aiutare l'Ucraina per incrementare la sua sicurezza. Dei Fondi fiduciari - un meccanismo che permette di fornire sostegno finanziario su base volontaria - sono stati istituiti per sostenere il lancio di importanti nuove iniziative in cinque aree critiche, tra cui:
  • comando, controllo, comunicazioni e computer (C4): per sostenere l'ammodernamento delle strutture e delle capacità dell'Ucraina;
  • Logistica e standardizzazione: per aiutare la riforma del sistema logistico dell'Ucraina e aumentare la sua interoperabilità con la NATO,
  •  Cyber ​​difesa: per aiutare l'Ucraina nello sviluppo di capacità tecniche per contrastare le minacce informatiche, fornire formazione e consulenza sullo sviluppo delle politiche;
  • Transazione della carriera militare: per aiutare il ministero della difesa ucraino allo sviluppo di un programma di reinsediamento sostenibile;
  •  La riabilitazione medica: per garantire servizi di riabilitazione adeguati.

I leader della NATO hanno inoltre concordato di istituire «Very High Readiness Joint Task Force» (VJTF). Il VJTF è stato pensato come una forza in grado di aumentare i tempi di risposta alle minacce contro la NATO.  Questo si compone di una brigata terra di circa 5.000 soldati, sostenuti da forze aeree e marittime. Complessivamente, a partire dal 2014 la NATO Response Force era pari a circa 30.000 truppe. Poco tempo dopo la NATO ha iniziato a pattugliare il Mar Nero e ha preso in considerazione una più persistente presenza militare marittima nella regione. Questa corsa agli armamenti continua è stata la base del dibattito che ha avuto luogo a Bruxelles durante la riunione del Consiglio NATO-Russia. In effetti, la politica di deterrenza perseverata dall'ex segretario generale Anders Rasmussen, è stata continuata  dal suo successore, Jens Stoltenberg, che ha ereditato il fardello di una politica che ha avuto inizio prima della sua nomina alla NATO. Infatti, dal 2015, il nuovo Segretario Generale ha dovuto continuare una politica caratterizzata da una reazione a catena già avviata e incrementata. L'incontro del 20 aprile 2016, chiesto fortemente da entrambe le parti era una speranza per una tregua, ma i risultati non sono stati quelli sperati.

«No business as usual»: la risposta di Stoltenberg
«Non dobbiamo avere grandi aspettative del Consiglio NATO-Russia, perché la Russia ora percepisce l'Alleanza come un nemico» ha detto Bruno Lete, esperto di questioni NATO del German Marshall Fund degli Stati Uniti (GMF) durante un'intervista. A suo parere, uno dei motivi per cui è importante per la NATO tenere riunioni con la Russia è dovuta alla volontà dell'Alleanza di capire le intenzioni di Mosca prima del Summit NATO che si terrà in Polonia a luglio 2016, nel quale le relazioni con la Russia e l'ampliamento delle forze NATO negli Stati baltici sarà uno dei temi chiave all'ordine del giorno. Negli ultimi due anni la NATO ha continuato a mantenere un dialogo politico e militare con la Russia al fine di monitorare l'evoluzione della crisi in Crimea. Il 5 febbraio 2016, nel corso della riunione informale dei Ministri della Difesa ad Amsterdam, il dibattito si è fondato su due questioni: la guerra civile in Siria e l'impegno turco nella crisi migratoria. Inoltre, la riunione informale è stata anche l'occasione per annunciare i piani degli Stati Uniti in Europa. In realtà, nel corso di questo incontro, il Segretario generale della NATO ha confermato che gli Stati Uniti hanno aumentato quattro volte la spesa militare in Europa per il finanziamento delle truppe nella parte orientale dell'Alleanza, e il finanziamento di attrezzature pesanti, carri armati e veicoli blindati. Ad Amsterdam, la collaborazione della NATO con gli Stati Uniti e l'Unione europea è stata rafforzata al fine di lottare contro le minacce ibride, come ad esempio gli effetti della guerra civile siriana e la migrazione. La guerra civile siriana è stata un altro punto sottolineato dall’Alleanza: gli intensi attacchi aerei russi, miranti principalmente le truppe di opposizione, stava minando gli sforzi per trovare una soluzione politica in Siria e nello stesso tempo stava causando un aumento delle tensioni e violazioni dello spazio aereo turco. Secondo l'Alleanza, questo ha creato rischi e accresciuto le tensioni all'interno dello spazio della NATO. Nella sua dichiarazione, il Segretario Generale, Jens Stoltenberg, più volte ha fatto capire che la NATO reagiva al fine di evitare un conflitto: ogni misura politica e militare attuata era la reazione naturale e misurata alle azioni già compiute dal Cremlino. Infatti, il 17 marzo 2016, nel corso della riunione della NATO con il Primo Ministro della Repubblica della Lettonia, Stoltenberg ha presentato il processo di adattamento in corso per affrontare le sfide che possono mettere in pericolo la sicurezza dei membri dell'Alleanza. Da un lato, la NATO vuole adattarsi alle nuove minacce, e dall'altro diventare più flessibile: questa è la combinazione per renderla più forte. In realtà, la NATO non vede alcuna minaccia imminente contro i membri alleati della regione baltica, ma vede una Russia più assertiva con un significativo impegno militare nella regione. Questo è il motivo per cui la NATO stava rispondendo aumentando la sua presenza nella regione del Baltico con mezzi aerei, con la presenza navale e anche con più esercitazioni di truppe sul terreno seguendo il metodo della rotazione. Nell’ultimo mese, la NATO ha deciso di aumentare ulteriormente la propria presenza nella parte orientale dell'Alleanza compresa la regione del Baltico: oggi l'Alleanza ha triplicato la dimensione della NATO Response Force in modo che possa dispiegare le forze rapidamente, se necessario. Lo scopo è la prevenzione. Secondo la dichiarazione di Stoltenberg «tutto cio che la NATO sta facendo è a scopo difensivo, è proporzionato ed è assolutamente in linea con gli impegni nazionali. E noi non cerchiamo lo scontro con la Russia». Il 20 aprile, in questo scenario segnato dal principio di azione-reazione, il Consiglio NATO-Russia si è aperto. Al termine della sessione, la posizione NATO è rimasta invariata: il concetto di azione preventiva basata sul principio di azione-reazione è stata riaffermata. In primo luogo, la conferenza stampa è iniziata con la frase «..siamo d'accordo sul fatto che è in tutto il nostro interesse mantenere canali politici per il dialogo politico aperti. Tuttavia, questo non significa che siamo tornati al business as usual» (forma idiomatica che sta ad indicare che non si è tornati a stabilire dei rapporti come in passato). In altre parole, l'incontro è stato l'occasione per incontrarsi e discutere la questione dell’Ucraina, le attività militari e la trasparenza al fine di ridurre il rischio di un conflitto. Tuttavia, la NATO ha riaffermato il suo sostegno per l'Ucraina e per il rispetto della sua sovranità e integrità territoriale. In secondo luogo, le attività della NATO nel Mar Baltico e nel Mar Nero sono stati definiti trasparenti e nel rispetto del diritto internazionale. Infatti, nuovamente, il messaggio NATO si è fondato su due questioni principali: Tutto ciò che la NATO fa, anche nella regione del Baltico, è proporzionato, è difensivo, ed è pienamente in linea con i suoi impegni internazionali.Tutto ciò che la NATO sta facendo è una risposta ad un sostanziale rafforzamento militare della Russia.

Le conseguenze e le considerazioni
Sarebbe importante ricordare che ciò che la NATO ha fatto nella regione del Baltico è in risposta all'annessione illegale della Crimea e del comportamento destabilizzante della Russia.  Inoltre, l’incremento della presenza militare NATO è avvenuta sei mesi dopo l'annessione illegale. Le azioni intraprese e la loro tempistica confermano quindi che ciò che la NATO ha fatto è una risposta alle azioni della Russia in Ucraina.
Il 2 maggio, secondo una intervista concessa dal Segretario Generale al Deutsche Welle, emittente televisiva internazionale della Germania, il futuro vertice della NATO a Varsavia fornirà ulteriori risposte. Ad oggi, i tre punti più importanti per il futuro delle relazioni NATO-Russia sono la questione polacca, la creazione di una nuova base in Romania, e, infine, il vertice di Varsavia. Attualmente, la NATO sta discutendo la possibilità di schierare quattro battaglioni nei tre paesi baltici e in Polonia. Secondo la NATO, questa presenza multinazionale, con soldati provenienti da diversi paesi, potrebbe inviare un segnale molto chiaro: un attacco contro uno dei paesi baltici sarebbe un attacco contro l'intera Alleanza. Anche se non esiste una minaccia imminente contro un membro della NATO, tale misura è giustificata dal comportamento della Russia che ha triplicato la sua spesa militare dal 2000, e ha usato la forza per cambiare i confini europei. Nel maggio di quest'anno una stazione missilistica di difesa verrà installata in Romania. Tuttavia, le dichiarazioni suggeriscono che a livello pratico, questa base è a scopo difensivo: l'obiettivo è di intercettare i missili ballistici, e la Romania in questo caso è un paese molto strategico. Nessun riferimento chiaro è contro il Cremlino, la base ha uno scopo difensivo e gli esperti in sicurezza e difesa hanno confermato che una base di questo tipo non rappresenta alcuna minaccia in senso pratico, poiché la struttura è progettata per intercettare, non attaccare. Per questa ragione si potrebbe cautamente concludere che la NATO non sta cercando lo scontro diretto contro la Russia, anzi sta esplicando in maniera trasparente i suoi punti di forza, come per avvertimento. È sempre il concetto di prevenzione: l'Alleanza sta conducendo un duplice approccio nei confronti della Russia, essendo allo stesso tempo forte e prevedibile, al fine di evitare una crisi internazionale. Il 12 maggio 2016, durante la conferenza stampa in Romania, il Segretario Generale ha sottolineato l'importanza di difendere l'Alleanza dalla minaccia dei missili balistici. Infatti, a Deveselu, è avvenuta la cerimonia per l'attivazione della base difensiva missilistica Aegis Ashore che fornirà una copertura difensiva del territorio della NATO contro gli attacchi di missili a medio e corto raggio. La Polonia ospiterà un secondo sito Aegis a Redzikowo. La Spagna sta fornendo una base per le navi Aegis. La Germania sta fornendo appoggio missilistico. La Turchia ospita una stazione radar di preallarme. Il Regno Unito sta investendo in più radar di terra. La Danimarca e Paesi Bassi stanno aggiornando i loro sisitemi informatici inserendo un nuovo radar nelle loro fregate. Gli Stati Uniti stanno facendo un investimento importante in Europa (the European phased adaptive approach). Secondo le relazioni degli esperti il sistema che la NATO sta costruendo da circa due anni è fondato sulla politica difensiva. I proiettili che la NATO userà per neutralizzare i missili in arrivo non contengano esplosivi; semplicemente deviano i loro obiettivi. In altre parole, la NATO non può usarli per attacare. Inoltre, ulteriori garanzie sono state fornite: la NATO continuerà a impegnarsi in un dialogo con la Russia quando e dove si può. Nonostante le considerazioni della comunità internazionale, che vede la questione NATO-Russia come un ritorno al passato in cui l'Alleanza è controllato dagli Stati Uniti, e la Russia è offensiva, dobbiamo mantenere una certa distanza dai luoghi comuni, perché le attuali cause politiche dell’antagonismo NATO-Russia sono molto più profonde.
Oggi la NATO non è la stessa NATO della Guerra Fredda. La nuova politica, gli obiettivi strategici e militari non sono solo conseguenza di minacce esterne, ma anche di pressioni interne, e queste deve essere considerate. Il processo di allargamento della NATO ha compreso paesi che per molti anni sono stati sotto il controllo sovietico. Questo è il motivo per cui questi nuovi paesi hanno una visione dell'Alleanza simile a quella degli anni della guerra fredda. Dobbiamo considerare che dopo il 1989, la NATO ha dovuto reinventare il suo lavoro, al fine di rimanere in vita. Tuttavia, il famoso articolo 5 del Trattato di Washington, che stabilisce i termini di difesa collettiva, è stato il magnete per l'adesione di nuovi paesi tra il 1999 e il 2004 (Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia). Inoltre tra i paesi inclusi nella lista delle future adesioni ci sono Georgia e Ucraina, senza sorpresa. Lasciando da parte le debolezze della NATO come istituzione, bisogna considerare che solamente dopo il 2004 si è venuta a creare una nuova cortina nei  confini orientali dell’Alleanza.  La NATO ora funziona a due velocità. Da un lato, c'è il gruppo degli «anziani» fondatori (Italia, Norvegia, BelgioCanadaDanimarca, FranciaIslanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Stati Uniti) che vedono la Russia come una minaccia (ma che può essere neutralizzare con strumenti economici e politici), che percepiscono la NATO come una forte istituzione regionale da interpellare in caso di estrema necessità. Poi, dall'altra, c'è il gruppo dei «nuovi arrivati», in cui la metà dei paesi vedono la NATO come l'ancora della salvezza in funzione «antisovietica». Se si aggiunge il deterioramento dello scenario internazionale e la politica offensiva russa possiamo comprendere il fondamento delle misure NATO. Così, oggi troviamo la NATO colpita da pressioni esterne e differenze interne. Questa è anche la ragione della nomina di Jens Stoltenberg come Segretario generale della NATO (fortemente voluta da Germania, Stati Uniti d'America, Regno Unito e paesi del nord Europa) nel 2014: un socialista, e un non-europeo, che per anni, quando era primo ministro della Norvegia, è stato in grado di parlare con la Russia sulle questioni relative all'economia, la politica e la diplomazia. Il risultato della politica della NATO potrebbe brevemente riassumersi nelle somma delle problematiche sopra elencate. C'è una politica di difesa (ma mai offensiva), un adattamento alle nuove minacce, un aumento della spesa militare (ma al fine di rispondere alle offensive russe), nuove basi militare (ma create per prevenire). In breve, una NATO che si adatta ancora a causa di forze esogene ed endogene, e che vuole soddisfare tutti i suoi paesi membri, ed essere in grado di accontentare tutti, diventando paradosslamente una istituzione che dal 2014 si fonda su una politica basata sulla prevenzione dei conflitti.
Maria Elena Argano

Per saperne di più:

NATO website, Doorstep statement by NATO Secretary General Jens Stoltenberg following the NATO-Russia Council meeting: http://www.nato.int/cps/fr/natohq/opinions_129999.htm?selectedLocale=en

NATO website, Doorstep statement by NATO Secretary General Jens Stoltenberg at the Informal meeting of the European Ministers of Defence in Amsterdam: http://www.nato.int/cps/fr/natohq/opinions_127626.htm

NATO website, NATO adopts new Strategic Concept: http://www.nato.int/cps/en/natolive/news_68172.htm

NATO website, Active Engagement, modern defencehttp://www.nato.int/cps/fr/natohq/official_texts_68580.htm?selectedLocale=en


The German Marshall Fund of United States Site, We should not expect too much from the NATO-Russia Councilhttp://www.gmfus.org/commentary/%E2%80%9Cwe-should-not-expect-too-much-nato-russia-council%E2%80%9D

NATO website, Joint press point – by NATO Secretary General Jens Stoltenberg and the Prime Minister of the Republic of Latvia:  http://www.nato.int/cps/en/natohq/opinions_129339.htm

24 Heures Site, OTAN nous ne voulons pas d’une guerre froide : http://www.24heures.ch/monde/OTAN-Nous-ne-voulons-pas-d-une-nouvelle-guerre-froide/story/25515640

NATO website, Defending our nations from ballistic missile threat: http://www.nato.int/cps/en/natohq/opinions_130662.htm

NRK Site, Stoltenberg letter på sløret: Merkel ringte meg om NATO-jobben i oktober: http://www.nrk.no/norge/merkel-ringte-stoltenberg-i-host-1.11637880