venerdì 29 gennaio 2016

Corea del Nord minaccia l'Occidente: possibili soluzioni al disarmo

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Corea del Nord minaccia l'Occidente: possibili soluzioni al disarmo


 “Cominciamo l’anno 2016 – un glorioso e vittorioso anno per la ricorrenza della settima conferenza del Partito dei Lavoratori di Corea – con l’emozionante fragore della prima esplosione della bomba a Idrogeno, cosicchè l’intero pianeta possa guardare alla potenza della nostra repubblica socialista dotata dell’arma atomica e alla grandezza del grande Partito dei Lavoratori di Corea!”. – “15 Dicembre, 2015, Kim Jong Un.”
É con queste parole che il leader nordcoreano augura un felice 2016, contenute nel documento che lo stesso Kim Jong Un rivolge alla sua nazione e in sostanza a tutta l’umanità. Nonostante i poteri mondiali abbiano raggiunto un accordo sul nucleare con l’Iran, la presunta detonazione di una nuova bomba da parte della Corea del Nord rappresenta un clamoroso passo indietro per l’impegno globale volto alla non-proliferazione. Il Consiglio di Sicurezza Onu ha convocato una riunione d’urgenza per condannare Pyongyang e si prepara a rafforzare le già pesanti sanzioni che ad oggi isolano il regime nordcoreano. La Corea del Nord ha già testato per ben tre volte ordigni nucleari dal 2006, subendo risoluzioni ONU e causando indignazione e condanne da parte della Comunità Internazionale. Ma stavolta, nonostante non si abbia ancora la certezza che si trattasse di un ordigno all’idrogeno (comunque di esplosione nucleare si è trattata, e ci vorranno mesi per accertare la presenza d’idrogeno), “la Corea del Nord pone una crescente e diretta minaccia agli Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone” dichiara Bruce Klinger, ex analista della CIA.[1] Gli esperti stimano che Pyongyang al momento possieda dalle 10 alle 16 armi nucleari con una crescita proiettata alle 50 e le 100 unità per il 2020. Combinate con i recenti progressi in ambito balistico-missilistico del paese, la tecnologia farebbe sì che in futuro le principali città dei vicini alleati degli Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone verranno raggiunte. Questo quadro ha la stessa tipologia di destabilizzazione regionale che il mondo ha cercato di evitare ridimensionando il programma iraniano. Nonostante i risultati positivi finora ottenuti con l’accordo iraniano, l’amministrazione Obama viene criticata per avere, nel frattempo, trascurato la minaccia nordcoreana.
Inoltre nel 1994, Stati Uniti e Corea del Nord, tramite la mediazione del ex-presidente Jimmy Carter durante l’amministrazione Clinton, erano vicini ad un accordo di disarmo nucleare del regime nordcoreano in cambio di aiuti economici e riconoscimento diplomatico. Ma successivamente i neoconservatori dell’amministrazione Bush contribuirono a smantellare quest’accordo accusando Pyongyang di possedere materiale nucleare a scopo militare, e collocandolo tra i paesi dell’asse del male insieme a Iran e Iraq. Le convizioni erano che presto la Corea del Nord sarebbe presto crollata da sola a causa delle sanzioni. Cosa che non è avvenuta. Hanno pagato milioni di nordcoreani condannati a morire letteralmente di fame mentre il regime centrale è rimasto stabile fino ad oggi. Ma il fallimento del regime di sanzioni non è soltanto una colpa statunitense. Anche la Cina viene presa in causa, la nazione più vicina e alleata a Pyongyang.
I vertici cinesi hanno dichiarato che si allineeranno all’ulteriore regime di sanzioni Onu e potrebbero anche imporre le proprie sanzioni commerciali. Il test infatti è stato condotto vicino al confine cinese, provocando rilevanti scosse sismiche in varie parti del nordest cinese, facendo evacuare anche scuole. Il ministro degli esteri cinese ha infatti convocato l’ambasciatore nordcoreano a Pechino proprio per palesare la propria opposizione al test, convocando peraltro una squadra di esperti per esaminare l’atmosfera vicino al confine. Tuttavia, la Cina ha una particolare avversione a qualsiasi azione che possa contribuire al crollo del regime di Pyongyang, al cui fianco la Cina ha combattuto durante la guerra di Corea del 1950-53.
Pechino, infatti, teme che un crollo della Corea del Nord possa portare ad un’ondata di profughi seguita da episodi violenti, nella zona di confine. Ed in questa situazione la Cina sarebbe costretta ad agire militarmente per ristabilizzare il Nord. Peraltro, qualora Pyongyang cadesse, la Cina si ritroverebbe l’esercito statunitense ai propri confini, cosa che non accetterebbe mai. La Cina ha sottoscritto le precedenti tornate di sanzioni inflitte dal Consiglio di Sicurezza, e probabilmente le sottoscriverà anche oggi, ma verosimilmente non infliggerà pesanti sanzioni econimiche e commerciali da parte sua tali da indebolire cospicuamente il regime di Pyongyang. Il principale investitore in Corea del Nord è infatti la Repubblica Popolare Cinese, la quale fornisce energia e generi alimentari. Perché Pechino dovrebbe quindi infliggere pesanti sanzioni al regime di Kim Jong Un?
Le esperienze passate peraltro, come durante le sanzioni  degli anni 90, hanno visto mezzo milione di nordcoreani morire di fame a causa delle restrizioni commerciali, ma il regime rimanere stabilmente in piedi, con un programma nucleare in avviamento. La Cina sicuramente ha giocato un ruolo fondamentale anche in passato per tenere in vita il regime di Pyongyang. Complessa sembra anche la situazione della Russia, la quale ha recentemente condannato il test ma ha da poco riallacciato rapporti commerciali con la Corea del Nord. Di diverso avviso sarebbero invece Giappone e Corea del Sud. Il premier giapponese Shinzo Abe ha dichiarato che il test reppresenta “una grave minaccia alla sicurezza nazionale”. Il ministro degli esteri Fumio Kishida chiederà al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di convenire ad un meeting urgente per adottare una nuova risoluzione sulla Corea del Nord. Il Giappone infatti, a partire dal 1° Gennaio 2016 occupa il posto di “membro non permanente” all’interno del Consiglio di Sicurezza ed è, ad oggi, Presidente di turno del Gruppo delle 7 economie mondiali (G7). Per la pozizione che oggi occupa, il Giappone avrà un ruolo preminente nella risoluzione contro il regime di Pyongyang.
La Corea del Sud, tecnicamente in stato di guerra con la Corea de Nord, è in aperta collaborazione militare con gli Stati Uniti, i quali hanno inviato nei giorni scorsi a Seoul due bombardieri stealth B-2 armabili con testate nucleari come dimostrazione di forza. La Corea del Nord ha risposto minacciando un attacco nucleare agli Stati Uniti.
Tuttavia i vertici sudcoreani hanno dichiarato che non considerano al momento il deterrente nucleare nel suo complesso. Gli esperti dicono che diffcilmente gli Stati Uniti reinstalleranno il missile nucleare tattico che hanno rimosso dalla Corea del Sud nel 1991. Ciononostante i vertici militari sudcoreani dichiarano che l’esercito è pronto a rispondere e a punire ulteriori provocazioni del regime nordcoreano. Gli Stati Uniti sono al momento cauti nell’intraprendere azioni militari, poiché la situazione potrebbe precipitare in un inevitabile conflitto tra le due Coree, in cui verrebbero anche coinvolte Cina, Giappone e Stati Uniti.[2] Ma cosa rende così forte e stabile il regime di Kim Jong Un? La Corea del Nord al giorno d’oggi possiede 53 ambasciate a consolati all’estero. Viene riconosciuta da 72 nazioni di cui 34, inclusa la Gran Bretagna, hanno proprie ambasciate a Pyongyang. Le altre mantengono liaison offices nelle nazioni vicine. I rapporti commerciali con Russia e Cina sono tuttora stabili, e attraverso un sistema di purghe il giovane leader nordcoreano è riuscito ad accentrare quasi tutti i poteri nelle sue mani e nel Partito dei Lavoratori. Attraverso il test la Corea del Nord sta percorrendo un sentiero pericoloso ma ben ideato.
Come ogni nazione che ha scelto il nucleare a scopo militare, La Corea del Nord vede questa opzione strategicamente necessaria. Ecco perché decenni di sanzioni e condanne non hanno funzionato. Lo sviluppo di una credibile forza nucleare rappresenta nel lungo periodo, una scelta più economica e vincente per Pyongyang rispetto alla creazione e al mantenimento di numerose e altamente sofisticate forze militari convenzionali che dovrebbero agire da deterrente a un presunto attacco statunitense. La corsa all’arma nucleare nordcoreana è stata condannata da paesi come Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e India, i quali ,si stima, posseggano tutti insieme un totale di 15.000 armi nucleari.[3] L’unico paese senza arma nucleare ad avere condannato il test è il Giappone, il quale è l’unico nella storia ad aver subito lo sgancio della bomba atomica nel ’45 ad Hiroshima e Nagasaki. Ma mentre molte nazioni da Oriente a Occidente, convengono a non accettare una Corea del Nord come potenza nucleare, una domanda sorge spontanea: quanto diritto hanno le nazioni nel dire ad altre nazioni cosa fare? Ma più nello specifico, quanta legittimità hanno le potenze nucleari, che non hanno intenzione di ridurre i loro arsenali, nel domandare ad altre nazioni di ridurre i propri? La Corea del Nord naturalmente risponde : nessuna.
E quindi cosa fare? Sicuramente, in primo luogo gli sforzi alla non proliferazione e alla riduzione di armamenti dovrebbero essere comuni a tutti i paesi del mondo. In secondo luogo riguardo la situazione nordcoreana i tre paesi alleati, Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti, dovrebbero offrire alla Corea del Nord in cambio di un processo di de-nuclearizzazione, un trattato di pace che preveda: il riconoscimento diplomatico, l’adesione alle principali organizzazioni internazionali, la fine delle sanzioni economiche, aiuti umanitari, la sospensione di esercitazioni militari unificate e una possibile apertura di una discussione volta al ritiro delle truppe statunitensi. Allo stesso tempo i tre paesi alleti dovrebbero promettere di condividere i costi per la salvaguardia dei nordcoreani, e di ripristino dell’ordine in caso di crollo del regime. Gli Stati Uniti dovrebbero accettare un possibile e temporaneo intervento militare cinese volto a stabilizzare la situazione nel nord del paese, in caso di violenze e squilibri al confine. Seoul dovrebbe accettare e rispettare gli interessi economici cinesi in una possibile futura Corea unificata. Infine Washington dovrebbe accettare di ritirare le proprie truppe in caso di unificazione.Solamente intraprendendo un fitto legame di cooperazione con la Cina si potrà nel lungo periodo arginare il problema di una possibile e reale minaccia di guerra nucleare nel Nord est asiatico.

Danilo Lo Coco


[1] AFP-JIJI, Wahington, “Bomb test is a setback for global arms control”, in “The Japan Times” – 08/01/2016
[2] Cordesman A, Washington-based Center for Strategic and International Studies think tank, in “The Japan Times” – 08/01/2016
[3] Talmadge E., Chol Jin J., “North challenges the nuclear club”, Pyongyang AP, in “The Japan Times” 11/01/2016

domenica 24 gennaio 2016

"Vi dichiaro marito e...": breve riflessione sulla disciplina delle c.d. unioni civili

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

"Vi dichiaro marito e...": breve riflessione sulla disciplina delle c.d. unioni civili


 a cura di Rosario Fiore Cultore di diritto pubblico comparato Unipa e 
Segretario generale I.Me.Si



Il tema dei matrimoni omosessuali è ritornato, prepotentemente, alla ribalta della cronaca politica attuale, considerato che a giorni approderà al Senato il disegno di legge Cirinnà, presentato per la maggioranza dalla senatrice dem Monica Cirinnà, un passato ventennale da consigliera comunale di Roma, da sempre impegnata sui temi dei diritti civili e della tutela degli animali. Occorre chiarire, immediatamente, che le "unioni civili", previste nel testo Cirinnà, tra persone appartenenti allo stesso sesso, non sono equiparabili al matrimonio: un uomo e un uomo, ovvero una donna ed una donna non possono contrarre matrimonio, ma possono "unirsi civilmente" e ricevere una tutela ed avere diritti sostanzialmente analoghi al matrimonio. 

In altri termini, con un sofisma giuridico che cela non poca ipocrisia, viene negato il matrimonio a gay e lesbiche, ma allo stesso tempo gli si garantiscono i medesimi diritti nascenti dal matrimonio, che rimane un istituto "cristianamente" eterosessuale. Per capire tale sofisma giuridico, bisogna tornare indietro e partire dalla tanto discussa sentenza n. 138 della Corte Costituzionale nell'anno del Signore 2010. In questa sentenza, la Corte Costituzionale, che venne investita dal Tribunale di Venezia e dalla Corte d' Appello di Trento di verificare la legittimità costituzionale degli articoli del codice civile relativi al matrimonio in relazione agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, stabili sostanzialmente che:

1. Non vi è violazione dell'articolo 3, poiché situazioni differenti vanno disciplinate in maniera differente;
2. Non vi è violazione dell' art. 29, poiché il matrimonio è un istituto eterosessuale, cioè tra un uomo ed una donna: in particolare, la Corte, nel dovere affermare l'eterosessualità del matrimonio, procede ad una interpretazione dell' articolo 29 richiamando lavori preparatori del costituente, che non prese in considerazione gli omosessuali, ma che invece fece riferimento al codice civile del 42, che fa espresso richiamo al matrimonio uomo/donna;
3. Al più, le coppie omosessuali possono trovare copertura e tutela nell'articolo 2, che disciplina le formazioni sociali, secondo modalità che competono alla discrezionalità del legislatore, anche alla luce degli articoli 12 CEDU e 9 Carta di Nizza.

In buona sostanza, la Corte Costituzionale non ebbe il coraggio di interpretare in senso evolutivo l'articolo 29 della Costituzione, considerato che la società contemporanea non è più quella del 46 ma che vi è stata una evoluzione dei costumi, delle relazioni sociali e affettive; in altri termini, come dice il mio amico Matteo Winkler, docente di diritto internazionale all' Hec di Parigi, l'articolo 29 è stato interpretato come se fossimo rimasti ai tempi del Codice di Hammurabi, risalente al II millennio a.c.

In tal modo, la Corte Costituzionale, utilizzando il criterio ermeneutico dell'intenzione dei costituenti, e quindi senza ricorrere ad una giustificazione metafisica o di diritto naturale al postulato della famiglia basato su due soggetti di sesso opposto, impedisce ai giudici comuni di procedere ad una successiva interpretazione che superi il concetto eterosessuale del matrimonio, essendo questa una non permessa interpretazione creativa.

Ribadito, dunque, il carattere eterosessuale del matrimonio (la Corte Costituzionale lo farà nuovamente nel 2014 con la sentenza n. 170), tuttavia la Corte ha ritenuto che il legislatore potesse tutelare le coppie omosessuali, con una disciplina rimessa alla sua discrezionalità, fissandone il fondamento giuridico nell'articolo 2 della Costituzione, atteso che per formazione sociale deve intendersi ogni comunità, semplice o composta, idonea a consentire e favorire il pieno sviluppo della persona nella vita di relazione. La Corte Costituzionale, quindi, individuò nell'articolo 2 un tenue quanto debole contrappeso all'articolo 29: la famiglia costituzionalmente tutelata è formata da un uomo e da una donna e l'articolo 29 non si presta a differenti interpretazioni; tuttavia, nulla vieta al legislatore di individuare forme di disciplina che, collocandosi nel solco dell'articolo 2 della Costituzione, diano tutela alle copie omosessuali.

In questo solco costituzionale, oggi si colloca appunto la disciplina prevista nel famoso disegno di legge Cirinnà all'esame del Parlamento, con cui si darà una disciplina giuridica alle coppie omosessuali ed anche a quelle more uxorio, riconoscendo diritti reali simili a quelli di cui godono le coppie eterosessuali sposate attraverso l'istituto del matrimonio. Resta da capire nella sostanza cosa cambia tra le unioni civili ed il matrimonio: nulla, se non quello di avere salvato l'ipocrita apparenza di riservare il matrimonio agli eterosessuali.

Per una analisi più approfondita e scientifica dell'argomento consiglio la lettura di: 

A. Pugiotto, Una lettura non reticente della sent. n. 138/2010: il monopolio eterosessuale del matrimonio, in Scritti in onore di Franco Modugno, III, Napoli, 2011, 2697 ss; A. Ruggeri, Famiglie di omosessuali e famiglie di transessuali: quali prospettive dopo Corte cost. n. 138 del 2010? in Riv. Telem. Giur. Associazione Italiana Costituzionalisti,n. 4/2011; L. D’Angelo, La Consulta al legislatore: questo matrimonio «nun s’ha da fare», in www.forumcostituzionale. it, 2010; P.A. Capotosti, Matrimonio tra persone dello stesso sesso: infondatezza versus l’inammissibilità nella sentenza n. 138 del 2010, in Quad. cost., 2010, 361 ss, R. Romboli, La sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale sul matrimonio tra omosessuali e le sue interpretazioni, in www.rivistaaic.it .

sabato 23 gennaio 2016

Proteste in Tunisia: "Spring is coming (?)"

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Proteste in Tunisia: "Spring is coming (?)"


Sabato 16 Gennaio non sembrava essere un giorno particolarmente fuori dalla quotidianità per la Tunisia, nel governatorato del Kasserine, territorio piuttosto periferico sia geograficamente che economicamente (situato ai confini con l'Algeria), alcuni giovani organizzavano un sit-in contro la cancellazione di molti nomi dalle liste di assunzione per un posto di lavoro presso il dipartimento regionale dell’istruzione. Durante la protesta però un giovane disoccupato ventottenne, Ridha Yahyaoui, decideva di salire su un pilone della corrente per far sentire più forte la sua voce, che è la voce di migliaia di giovani e meno giovani di una città che ha un tasso di disoccupazione al 70%. Quello stesso ragazzo rimarrà poi fulminato da uno sbalzo di corrente e diverrà il simbolo di una protesta che in quella serena giornata di Gennaio sembrava far riecheggiare il soffio di quei “venti di primavera” che 5 anni prima proprio da lì avevano iniziato a soffiare, per diffondersi poi in tutta l'area circostante.

La notizia fa velocemente il giro della Tunisia ed è forte l'empatia che il popolo tunisino sembra sentire nei confronti di un figlio della propria terra che condivide un dramma che non può essere certamente relegato ad una piccola parte della popolazione. Il dato più rilevante è infatti che le stesse proteste si diffondono velocemente in tutto il paese, e sopratutto si riascoltano nelle piazze di gran parte delle città, in ben 16 dei 24 governatorati tunisini, gli stessi slogan che riecheggiavano durante la Rivoluzione dei gelsomini.

“Lavoro, libertà e dignità”. Eppure era solo nell'Ottobre 2015 che alcuni membri dell'attuale governo tunisino, successivo ai quei venti di libertà, e capitanati dal presidente Essebsi, avevano ricevuto il “Nobel per la pace” per aver indirizzato quegli stessi venti verso quella transizione democratica che sembrava essere stata un'esperienza riuscita, e non è detto che non possa esserlo in futuro. Ma oggi, esattamente come 5 anni fa, i tunisini chiedono a gran voce uguaglianza sociale, chiedono di appianare non solo le disuguaglianze sociali ma anche quelle territoriali, chiedono di porre fine al fenomeno della corruzione (e non può essere una casualità il fatto che di queste problematiche siamo abituati a sentir parlare anche nelle nostre metropoli).

Quel popolo afferma con forza di non poter accettare che un governo “in teoria” figlio delle loro voci e rivendicazioni, possa continuare “nella pratica” a fare orecchie da mercante di fronte a problemi così largamente diffusi nel paese. Ed è poi lo stesso Essebsi ad ammettere: “La storia moderna della Tunisia ci ha insegnato che abbiamo commesso molti errori che hanno a che vedere con il come sono stati trattati i giovani”. La risposta però che le stesse istituzioni tunisine sembrano dare a questa complessa situazione è la prosecuzione dello “stato di emergenza” e l'istituzione di un coprifuoco a livello nazionale dalle 20,00 (in alcune zone dalle 18,00) alle 5,00 del mattino. Il governo però pare si stia riunendo per cercare di venire a capo di una situazione che potrebbe minare la stabilità statale, 2011 docet, e che, d'altra parte rischia di poter essere momento d'infiltrazione di quelle frangie estremiste che non sembrano però essere troppo presenti al centro delle proteste, che hanno coinvolto perlopiù giovani e meno giovani disoccupati dalle diverse città.

E' senz'altro un momento importarte per lo stato tunisino che, messo alla prova dal suo stesso popolo, dovrà dimostrare di avere a cuore le problematiche della sua gente più degli imperat economici (e ideologici) con cui deve confrontarsi nel “mondo globalizzato”. Non sembra poi, almeno a primo impatto, che questi venti contemporanei possano diffondersi come in passato in altre aree ma, si sa che la politica non è una scienza esatta. "Quel che però pare emergere da questa situazione è che in Tunisia non siano gli stessi venti di primavera a star tornando, ma che sia quella stessa Primavera non essersi mai conclusa."

Giovanni Tranchina

Fonti:





martedì 19 gennaio 2016

Reagire nella misericordia

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Reagire nella misericordia


Domenica, 17 gennaio 2016, in più di 27 mila parrocchie italiane si è svolta la “102ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato”. Differente dalla “Giornata Internazionale del Migrante”, proclamata dall'ONU nel 2000 e con ricorrenza il 18 dicembre, la giornata di ieri, indetta dalla Chiesa Cattolica, rivendica i valori cristiani e di umanità nella gestione dell'attuale crisi migratoria. Il tema della giornata: Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia”, invita a riflettere sul Vangelo che promuove la solidarietà, nonché sull'interpellazione, intesa come la richiesta di adempimento di un'obbligazione, nel caso specifico, da parte delle istituzioni politiche europee. La scelta del tema non è dunque miope, al contrario, espressamente pensata per sottolineare il fallimento del “Sistema europeo di asilo comune”. Le diverse politiche migratorie producono disuguaglianza e discriminazione nell'accesso allo spazio di libera circolazione, nel trattamento e nelle condizioni di accoglienza dei migranti, nonché nella concessione della protezione internazionale. Tali politiche indeboliscono le relazioni tra gli Stati, che rifiutano di applicare il principio di “solidarietà” nella ripartizione dei rifugiati e nella gestione congiunta della crisi migratoria/umanitaria, minacciando di sciogliere i trattati e adottare politiche unilaterali. I principi fondatori dell’UE: dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, sembrerebbero dunque vacillare di fronte a politiche migratorie, nazionali ed europee, sempre più restrittive e criminalizzanti. L'Europa “fortezza” opta per una risposta securitaria alla crisi migratoria, imponendo frontiere giuridiche e violando spesso i diritti fondamentali. Ciò nonostante, assistiamo a un processo di disintegrazione interna di tale Europa fortezza, nella misura in cui, alcuni Stati ricorrono al sovranismo al fine di arginare le inefficienze nel trasferimento della protezione, e più in generale nella gestione congiunta del fenomeno migratorio.

In occasione della Giornata Mondiale del Migrante, Papa Francesco invita a sostenere i principi fondatori dell'UE, nonché a rispondere alla richiesta di ascolto e di interpellazione politica da parte dei migranti. Nel messaggio della Chiesa, appare dunque prioritario l'obbligo di risposta e di reazione da parte della classe politica. In tal caso, occorre interrogarsi su come e se l'interpellazione politica, a livello europeo, funzioni. Da un lato, le violenze di Colonia e i recenti eventi di cronaca implicanti i migranti rafforzano i pregiudizi e le resistenze da parte dei governi nazionali, rendendo dunque difficile una risposta giuridica e umanitaria comune. Dall'altro, i mutamenti nelle migrazioni contemporanee rendono spinosa la questione relativa l'individuazione dei migranti aventi diritto alla protezione internazionale. Il Papa invita dunque la classe politica europea ad essere promotrice della misericordia, ad “accogliere, integrare e usufruire del contributo sociale che i migranti possono offrire” e nello stesso tempo a superare la fase di emergenza, dando spazio a politiche che tengano conto delle cause delle migrazioni. Quali sono dunque le novità giuridiche in tal senso? Il progetto europeo “NO TRATTA” co-finanziato dalla Commissione Europea dal 2013 e reso operativo ad ottobre 2015, offrirebbe nuove garanzie a quei migranti che, non avendo diritto alla protezione internazionale, potrebbero rientrare nei programmi di protezione delle vittime di tratta. In effetti, dai racconti dei migranti e dalle anomalie rilevate nei loro percorsi migratori, emerge una certa connessione tra tratta e asilo. La natura persecutoria e la violenza legata allo“smuggling”, nonché le umiliazioni fisiche subite dai migranti, prima e durante i viaggi, confermano dunque l'esistenza di tale connubio. Nel momento in cui il limite tra volontarietà e coercizione risulta poco chiaro, i richiedenti asilo potrebbero così rientrare nei programmi di assistenza ed integrazione sociale previsti per le vittime di violenza dal “Testo Unico sull’Immigrazione" (Dlgs 286/1998)


Ribadire l'inviolabilità della dignità umana, principio base per la costruzione europea, aprirsi all'ascolto e assumere gli obblighi che discendono dall'interpellazione. Tale è il messaggio di incontro rivolto alla classe diplomatica e alla società civile europea chiamate entrambe all'azione.
Laura La Scala

Bibliografia 
 -   Rapporto di ricerca "Vittime di tratta e richiedenti/titolari protezione internazionale", progetto "No Tratta", direzione Paolo Testa e Daniela Di Capua, Roma 30 giugno 2014-     Messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2016: "Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia", 17 gennaio 2016
-      Testo unico sull'immigrazione, www.altalex.com

lunedì 18 gennaio 2016

La vittoria gloriosa dell'Iran e la fine dell'isolamento economico

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

La vittoria gloriosa dell'Iran e la fine dell'isolamento economico



A Vienna, l’AIEA (l’Agenzia Internazionale per l’Energia atomica) ha reso pubblico il rapporto che certifica l’adempimento da parte di Teheran delle condizioni previste dall’accordo sul nucleare così da permettere la fine progressiva delle sanzioni internazionali e dare una boccata d’ossigeno ad un’economia ormai sull’orlo della bancarotta. Un isolamento nato a seguito della Rivoluzione khomeinista e peggiorato con l’inizio del programma nucleare che paventava minaccia per gli equilibri in Medio Oriente, a causa dell’ombra della progettazione di una Bomba Atomica iraniana. Con tale accordo l’Iran si impegna a congelare per oltre 10 anni tutte le sue attività nucleari, in cambio dell’allentamento dell’embargo economico. Nelle ultime ore il Ministro degli Esteri iraniano, Mohamad Javad Zarif ha incontrato il segretario di Stato americano John Kerry, il capo dell’AIEA, Yukiya Amano e l’Alto Rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini, dichiarando che «oggi è un buon giorno per il popolo iraniano. […]Tutte le sanzioni discriminatorie contro l’Iran verranno tolte oggi».

Molte sono le implicazioni in politica internazionale da parte di quei paesi che, proprio con l’appoggio degli Stati Uniti rivendicavano un ruolo egemone nel Medio Oriente. In primis, gli Stati sunniti, ovvero Turchia ed Arabia Saudita, i quali temono che la loro posizione di interlocutori privilegiati con l’Occidente possa essere messa in discussione a causa del miglioramento delle relazioni Iran-USA[1]. Da non sottovalutare è, inoltre, il modo in cui lo Stato sciita sta combattenti a viso aperto le armate dell’ISIS, a differenza di Turchia e Arabia Saudita, che sembrano avere una politica alquanto equivoca nei confronti dello Stato Islamico e spesso in sintonia con i jihadisti e poco inclini a perseguire l’obbiettivo della pace in Medio Oriente. Ricordiamo, infatti, che ci sono voluti mesi di continue trattative per far si che la Turchia, Stato membro della Nato, concedesse la propria base aerea di Incirlik per i raid contro l’Isis, all’alleato americano.

Alle preoccupazioni di questi due Paesi vanno aggiunte quelle dello Stato di Israele, memore delle minacce da parte dell’ayatollah Khamenei che, in un libro pubblicato meno di un anno fa affermava la volontà di distruggere Israele e rendere Gerusalemme una città islamica. In tale libro, il cui titolo è “Palestina”, viene descritta una vera e propria strategia a lungo termine, progettata nei minimi particolari, per «annientare», «dissolvere» e «cancellare» il regime Sionista, storico alleato del «Grande Satana americano», anche servendosi ti attentati terroristici tramite i propri alleati in Libano e Gaza[2]. Il premier israeliano Benyamin Netanyahu, portavoce delle preoccupazioni del suo popolo, ha affermato di diffidare del fatto che l’Iran abbia messo da parte le proprie ambizioni nucleari aggiungendo che Israele continuerà a seguire da vicino la vicenda e a denunciare eventuali infrazioni[3].

Tuttavia, negli ultimi tempi, il Segretario di Stato statunitense John Kerry ha intessuto una fittissima trama di relazioni con gli emissari iraniani con risultati ben più proficui di quelli ottenuti con gli uomini di Erdogan e Netanyahu, anche per via degli errori commessi in politica estera da questi due Capi di Stato[4]. 

Certo, la strada è ancora lunga, tuttavia gli scambi di prigionieri tra americani e iraniani sono segno che qualcosa sta cambiando davvero e la “vittoria gloriosa” di questi giorni, così come ha scritto in un tweet il presidente iraniano Hassan Rohani, potrebbe essere un evento epocale, soprattutto per quegli Iraniani nella cui mente è ancora vivo il ricordo della sanguinosa Guerra del Golfo contro l’Iraq e che nel 2016 affronteranno la decisiva sfida delle elezioni politiche.

Francesco Sasso




[1] http://www.corriere.it/esteri/16_gennaio_16/iran-oggi-via-sanzioni-vigore-l-accordo-nucleare-4a8b9be0-bc4b-11e5-b206-2a6e9b3d9bfb.shtml
[2]http://www.focusonisrael.org/2015/08/05/iran-libro-khamenei-distruggeremo-israele-e-i-diabolici-ebrei-gerusalemme-sara-solo-islamica/
[3]http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2016/01/16/iran-incontro-kerry-zarif-mogherini_70f68302-8d92-4499-8c4a-4fb5921fffcd.html
[4]http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-01-17/cade-muro-e-nemici-diventano-quasi-amici-103537.shtml?uuid=ACw4JtBC

martedì 12 gennaio 2016

Ancora sangue e terrore ad Istanbul, attentato in Piazza Sultanahmet

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Ancora sangue e terrore ad Istanbul, attentato in Piazza Sultanahmet

Diverse esplosioni sono state udite stamane, intorno alle 10 ora locale, ad Istanbul. La Cnn turca ha subito chiarito che si è trattato di un’unica esplosione, avvenuta ai piedi dell’obelisco di Theodosius, situato nel cuore della città, a due passi dalla Chiesa di Santa Sofia e dalla Moschea Blu, mete turistiche per eccellenza. Secondo fonti governative l’esplosione avrebbe causato almeno 10 morti e una quindicina circa di feriti, due dei quali versano ora in condizioni particolarmente gravi. Secondo il quotidiano tedesco Bild nove delle vittime sarebbero turisti tedeschi, mentre il governo Norvegese fa sapere che uno dei feriti è proprio un turista norvegese; le vittime sarebbero dunque per lo più turisti provenienti da diversi paesi.

Il presidente Erdogan ha subito fatto sapere che l’esplosione sarebbe stata causata da un attacco suicida, di cui però non sembrano ancora chiare le dinamiche. Anche il coplevole non è ancora stato identificato, ma secondo fonti vicine al governo turco si tratterebbe di un attentatore di origine siriana.

La piazza è stata subito invasa dai mezzi di polizia, vigili del fuoco e personale medico, nonché da innumerevoli giornalisti. Questi ultimi sono tuttavia stati costretti ad abbandonare immediatamente la zona e ai media turchi è stato imposto il silenzio stampa sui dettagli legati all’attentato. Il governo sembra infatti ritenere che qualsiasi dettaglio divulgato possa in qualche modo “fornire informazioni ai terroristi”.

Intanto ad Ankara è previsto un vertice straordinario sulla sicurezza, presieduto dal primo ministro, che vedrà confrontarsi il ministro dell’interno, il vice ministro degli esteri e il direttore generale della Pubblica sicurezza e durante il quale si discuteranno le misure da adottare per far fronte a questa situazione di emergenza e pericolo. Erdogan ha comunque affermato che “la Turchia continuerà a lottare fino a quando le organizzazioni terroristiche non saranno totalmente annientate”. La Turchia in effetti non è nuova ad attentati terroristici: già nello scorso Dicembre una bomba aveva infatti provocato un’esplosione nei pressi di una stazione della metropolitana e nel Gennaio 2015, sempre nei pressi della Moschea Blu, una donna si era fatta esplodere uccidendo un poliziotto. Sarebbe poi stato rivendicato dall’ISIS l’attentato che, lo scorso 20 Luglio, ha ucciso più di 30 attivisti curdi a Suruc, al confine con la Siria. Proprio quest’ultimo attentato tuttavia ha fatto nascere una vistosa polemica: molti ritengono infatti che, in virtù del conflitto interno che attraversa la Turchia, questo atto di violenza nasconda in realtà il coinvolgimento del governo turco. Subito dopo l’attentato infatti alcuni miliziani legati al PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan che rivendica maggiore autonomia per la minoranza curda in Turchia, avevano ucciso tre poliziotti turchi in segno di dissenso. Da quel momento gli scontri sono andati via via inasprendosi, alimentando una serie di sospetti e accuse reciproche tra le parti in conflitto. Anche quando, ad Ottobre, due ordigni hanno ucciso un centinaio di persone durante una manifestazione contro la guerra civile ad Ankara, i sospetti sono immediatamente venuti a cadere sul governo turco, benchè proprio quest’ultimo abbia attribuito la responsabilità dell’attentato a terroristi di matrice islamista. 

Che dunque i fatti di oggi si inseriscano in un contesto già poco stabile, lo dimostrano gli avvenimenti dell’ultimo anno; sarà solo il tempo a chiarire se il paese può essere in grado di affrontare a viso aperto la minaccia dello Stato Islamico, pur dovendo fare i conti con gravi problemi di politica interna. Intanto attorno alla Turchia si sono stretti i premier di diversi altri paesi, e il segretario generale della Nato ha condannato l’attacco terroristico, aggiungendo che “Non può esserci giustificazione per tali attacchi. Tutti gli alleati della Nato sono uniti nella lotta contro tutte le forme di terrorismo”. La stessa Turchia infatti aveva negli ultimi tempi cambiato il proprio atteggiamento nei confronti dello Stato Islamico: dal sostegno finanziario ai gruppi fondamentalisti coinvolti nella guerra in Siria e, indirettamente, anche allo Stato Islamico, era passata a una più ferma opposizione, sia arrestando i simpatizzanti dello Stato Islamico in territorio turco, sia concedendo alcune basi site in territorio turco a bombardieri americani. 

Quel che è certo è che l’ondata di panico esplosa nel corso degli ultimi mesi in tutto il mondo non sembra voler scomparire, alimentata da nuovi atti di violenza sempre più crudi ed efferati. La vera sfida, dunque, si gioca sul campo della sicurezza e ci costringe a riflettere sulla costante presenza di un “nemico invisibile”.
Alessia Girgenti

lunedì 11 gennaio 2016

Diritti civili e movimenti sociali: breve analisi del contesto statunitense

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Diritti civili e movimenti sociali: breve analisi del contesto statunitense

“Proteggere e servire”. In molti tra gli americani hanno perso del tutto la fiducia nei confronti di questo motto e dell’istituzione che rappresenta. Al termine del 2015 uno dei dati che più sconvolge l’opinione pubblica è il numero delle vittime provocate direttamente dalla polizia americana durante gli inseguimenti e gli arresti: secondo il database del Washington Post1 sono state uccise 977 persone, di cui 91 erano disarmate e 32 munite di armi giocattolo.  In questa sede l’interesse non è indagare il fondamento giuridico che determina i casi in cui gli agenti americani abbiano o ritengano di avere il diritto di ricorrere alle armi da fuoco (tra l’altro la legislazione in merito è piuttosto superficiale e lasciata più all’interpretazione soggettiva). Tutt’al più si è preferito analizzare, seppur brevemente, come mai in America, anzi, negli Stati Uniti sia possibile che un poliziotto si trasformi in giudice, giuria e boia tutti insieme (decisamente con scarsa capacità discriminatoria) evitando le lungaggini di un processo equo e giusto. Come mai, cioè, nella “patria delle libertà moderna” sia così semplice calpestare i diritti civili. 

Tutto ciò è innanzitutto sicuramente possibile perché negli ultimi 50 anni è mancata una forte presa di posizione affinché ciò non accadesse, il riferimento non è al ruolo della politica statunitense, ma alla mobilitazione civile e alla militanza sociale quasi assente e sempre discontinua nelle sue forme e manifestazioni negli U.S.A. Il cittadino medio si è assopito e addormentato, soddisfatto di far parte della nazione più importante e potente del mondo, distratto dalla pubblicità e dai beni di consumo, con il sogno americano ancora nel cassetto. Le ultime grandi mobilitazioni sociali si ravvedono negli Stati Uniti, ma anche in Europa, nella prima metà del XX secolo, dove grossi traguardi nel campo dei diritti civili sono stati effettivamente raggiunti. Da quel momento per mantenere la stabilità ed evitare altre crisi sociali interne, una delle strategie adottate da chi ha esercitato il potere (e ancora una volta il riferimento non è solo alla politica tradizionale) è stata quella di creare, attraverso tecniche propagandistiche, una società di consumatori che ritrovasse la propria identità nei beni materiali. «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata» questa è la frase con cui Marcuse apre il suo “Uomo a una dimensione”, ed è anche la frase con cui viene sintetizzata la sua critica alla società americana degli anni ’60, in cui l’uomo si accontenta di una felicità “minore” (quella materiale) perché comoda e sicura, regalata dall’alto da qualcuno che lo vuole controllare, nascondendo dietro l’agio quelle che sono le “vere” necessità dell’uomo2. La critica di Marcuse è molto forte, in quanto alla fine del suo ragionamento afferma che «la democrazia apparirebbe come il più efficiente sistema di dominazione», ma sicuramente oggi non si può negare che molti degli obiettivi nella vita di un cittadino medio “occidentale” si realizzino con l’acquisto di beni di consumo. Con quanto appena affermato non si vuole certo presumere che tutto taccia negli Stai Uniti e che l’intera popolazione resti a guardare poco interessata a ciò che le succede. Proprio a seguito dei frequentissimi abusi della polizia negli scorsi mesi abbiamo assistito a diverse manifestazioni sostenute in ogni città da una grandissima folla chiedendo giustizia. L’abuso di potere delle forze dell’ordine non è neanche l’unico tema che muove le coscienze negli States: un altro movimento che ha dimostrato grande impegno negli ultimi anni è quello di Occupy Wall Street che contesta in maniera pacifica i soprusi del capitalismo finanziario. Partito da New York nel 2011, il movimento si è diffuso in tantissime città americane e di tutto il mondo.

Il reale problema però risiede nel mancato appoggio e coinvolgimento della fetta più grossa della popolazione statunitense, quella dei lavoratori. Da indagare in questo caso il ruolo dei sindacati che dagli anni ’30 a oggi hanno perso tantissima influenza nell’indirizzare le politiche e l’opinione pubblica dato anche che nell’arco di questi settant’anni la percentuale dei lavoratori iscritti a un sindacato è scesa dal 35% a solo il 7%3. Queste derive sono dovute ad alcune caratteristiche della politica e della società americana.

Primo fra tutti il potere detenuto da grossissimi centri d’interessi privati, che dominano l’economia non solo nazionale e influenzano in maniera decisiva le scelte politiche, questi hanno sempre avuto nei sindacati un “ostacolo” da limitare e minimizzare per poter ottenere la massimizzazione del proprio profitto. Di fatti, grazie anche alle pressioni dei grossi industriali e dei privati, lo Stato ha imposto nel tempo una serie di restrizioni che rendono molto difficile iscriversi a un sindacato (la legge Taft-Harley nel dopoguerra, ad esempio). In più va tenuto conto anche del comportamento degli stessi sindacati, che quando hanno combattuto delle battaglie lo hanno fatto spesso per loro stessi, denotando un atteggiamento votato sempre più al consociativismo4 (le assicurazioni sanitarie negli Stati Uniti sono un lampante esempio di questo atteggiamento, essendo queste garantite per determinati compartimenti professionali). A tutto ciò va in fine aggiunto un particolare che ha caratterizzato la politica americana da più di mezzo secolo, che è riuscito a infiltrarsi pure nella cultura maggioritaria del paese: la lotta al pensiero socialista.

Fin da prima degli anni ’50 in America è iniziata quella che da molti è stata definita come una caccia alle streghe contro coloro i quali venivano considerati “dissidenti”, giustificata dalla paura di una possibile rivoluzione interna in stile cinese, dal consolidarsi dell’egemonia dell’Unione Sovietica e dalla presunta presenza nel paese di spie comuniste. Questo periodo conosciuto da tutti come maccartismo ufficialmente ebbe breve durata, infatti si considera concluso quando una commissione del congresso approvò nel 1954 una mozione di censura contro Joseph McCarthy. In realtà il sospetto rimase vivo per molti decenni durante la Guerra Fredda e quella che prima era diffidenza è diventata indifferenza per quelli che sostenevano opinioni controcorrente, spesso screditati e quasi inascoltati, a volte addirittura tacciati di essere anti-americani. Questo processo ha reso inevitabilmente molto difficile il consolidarsi di forti centri d’opinione “alternativi” in grado di porsi come opposizione a quelli maggioritari generando in molti tra i cittadini U.S.A. una certa passività rispetto allo stato delle cose.
Simone Cacioppo

Note:
1. https://www.washingtonpost.com/graphics/national/police-shootings/
2. Michael Walzer, L’intellettuale Militante
3. S.Greenhouse, Union Membership in U.S.Fell to 70-Year Low Last Year
4. Noam Chomsky, Sistemi di potere

sabato 9 gennaio 2016

Nord Corea: un test che rompe gli equilibri internazionali. E l'Unione Europea?

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Nord Corea: un test che rompe gli equilibri internazionali. E l'Unione Europea?


Un secondo dopo le 2 (ora italiana) di mercoledì i sismografi in Corea del sud, Giappone e Stati Uniti hanno registrato un terremoto di 5,1 gradi della scala Richter in Corea del nord, a circa 50 km a nord di Kilju, non lontano dal confine con la Cina. Onde sismiche causate da un test nucleare voluto dal dittatore nord coreano. Il test non ha fatto soltanto tremare la terra, ma ha anche creato tensione nello scenario dei vari equilibri internazionali. I più preoccupati sono i Paesi vicini, dalla Corea del Sud al Giappone, ma anche gli Stati Uniti, l'Unione europea, la Russia hanno parlato di "minaccia per la sicurezza globale”. Della situazione il presidente degli Stati Uniti Barack Obama intende parlarne con i leader di Corea del Sud e Giappone, e Susan Rice ha già stabilito contatti con la Cina a riguardo. Sul fronte internazionale è significativa la reazione di Cina e Russia. La prima, principale alleato di Pyongyang, ha pubblicamente manifestato la propria "ferma contrarietà" al test nucleare, condotto "in disprezzo dell'opposizione della comunità internazionale", invitando la Corea a tener fede all'impegno della denuclearizzazione enunciato da accordi e vertici, e ad astenersi da ogni azione che aggraverebbe la situazione. La Russia si trova “paradossalmente” sulla stessa scia della NATO: violazione della legge internazionale e delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Il governo infatti ha fatto sapere che il Presidente Vladimir Putin vuole approfondire la questione, avere un quadro completo, e allo stesso tempo esorta a non prendere posizioni o misure affrettante che possano complicare la già complicata situazione di tensione[1]. Dura condanna anche dalla Gran Bretagna e dalla Francia. La Germania aveva annunciato che avrebbe convocato l'ambasciatore della Corea del Nord. Poche ore dopo l’Alto Rappresentante Federica Mogherini si è pronunciata sull’accaduto riassumendo la posizione dell’Unione Europea. L’azione rappresenterebbe una grave violazione degli obblighi internazionali di non produrre o testare armi nucleari sui quali la Corea del Nord aveva deciso di aderire. Inoltre il test rappresenta una minaccia per la pace e la sicurezza di tutto il nord-est asiatico Regione. L’Alto rappresentante inoltre ha voluto agire su due fronti. Da un lato, ha voluto stabilire dei contatti con il Ministro degli esteri della Corea del Sud Yun Byung, e con il Ministro degli Esteri del Giappone Fumio Kishida per pianificare la via da seguire al livello regionale. Dall’altro, ha collaborato con il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, riunitosi in una sessione urgente per risolvere questo problema. Se i risultati del colloquio con i Ministri degli esteri non sono ancora ufficiali, sono invece ben note le posizioni del Consiglio di Sicurezza. Come annunciato dal New York Time[2] il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato la Corea del Nord per il suo test nucleare, tuttavia la Cina non è sembrata disposta ad impiegare una linea dura contro lo storico alleato. Le dichiarazioni della Cina infatti sono emerse al livello nazionale, senza assumere una posizione di ferma condanna. La sessione a porte chiuse di due ore del Consiglio di sicurezza si è conclusa con l'impegno di "cominciare a lavorare immediatamente" su una risoluzione contenente ulteriori misure per frenare Kim Jong-un. Queste ultime non sono ancora chiare anche se degli esperti ipotizzano che le più ovvie sarebbero un divieto di carico e scarico delle navi nordcoreane in tutto il mondo, o sulle transazioni finanziarie con la nazione[3].
L’Unione europea, ancora una volta grazie alle dichiarazioni di Federica Mogherini, ha manifestato l’importanza del ruolo giocato per giungere ad una conclusione all’interno del Consiglio di Sicurezza: Un inizio di anno difficile, con la tensione che continua a crescere tra Arabia Saudita e Iran, a seguito dell’esecuzione, tra molti altri, di Nimr al-Nimr. Una spirale pericolosissima in una regione già attraversata da troppi conflitti e crisi, che possono trovare una soluzione solo con uno sforzo di cooperazione tra attori regionali divisi da tutto, ma chiamati a far prevalere la sicurezza e la stabilità collettiva (quindi anche propria) sulle singole prospettive nazionali. Difficile, lo so bene. Ma le cose facili non sono di questi tempi, e spesso offrono solo scorciatoie illusorie. Lo abbiamo visto troppe volte. Oggi troppi e troppo importanti sono gli scenari per i quali un ulteriore acuirsi delle tensioni tra Arabia Saudita e Iran sarebbe estremamente negativo: dal Libano all’Iraq, dallo Yemen alla Siria. E, ben oltre la regione, lo scontro potrebbe estendersi alle comunità musulmane ovunque nel mondo. Un invito alla calma e alla razionalità è quello che insieme ad altri abbiamo cercato di far arrivare in questi giorni, e ancora in queste ore, ai principali attori della regione[4].
In effetti, mentre in queste ore gli Stati Uniti hanno fatto partire un aereo di ricognizione per valutare l’importanza delle conseguenze del test, e John Kerry (Segretario di Stato degli Stati Uniti) condanna la Cina per la poca coerenza, si si chiede quali giochi di potere si celino dietro gli attuali schemi geopolitici, e perché se Washington ha sin da subito avuto dubbi sulle proprietà del test definendolo come un “avvertimento”, ha poi mobilitato mezzi militari per “accertarsi” delle conseguenza[5]. Ci si chiede il perché del doppio gioco della Cina, e come mai se da un lato vi è un invito al mantenimento degli impegni antinucleari, dall’altro all’interno del Consiglio di Sicurezza nessuna posizione favorevole alle sanzioni è stata enunciata. Ci si chiede perché c’è una coincidenza di intenti tra NATO e Putin per la questione dei test. In effetti tutto questo è da chiarire, o forse più che chiarimenti vedremo “fatti” dai quali potremo tardivamente comprendere quali intrighi si nascondono dietro ogni posizione. E l’Europa vista come unione? Telefona!
Maria Elena Argano


[4] http://eeas.europa.eu/statements-eeas/2016/160106_01_en.htm
[5]http://www.repubblica.it/esteri/2016/01/07/foto/nord_corea_ecco_l_aereo_spia_americano_che_verifichera_test_nucleare-130754833/1/#1

giovedì 7 gennaio 2016

Riyad - Teheran: tra confronto settario e contesa geopolitica

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Riyad - Teheran: tra confronto settario e contesa geopolitica



In Medio Oriente si infiamma lo scontro settario: musulmani sciiti di tutto il mondo islamico scendono in piazza per protestare contro l’esecuzione dell’imam sciita Nimr al-Nimr in Arabia Saudita. Il regno saudita ha lanciato un chiaro segnale agli alleati occidentali (Usa in primis): la partita iraniano-saudita nel Golfo è la priorità geopolitica per Riyad e non c’è accordo sul nucleare iraniano che tenga. La strada per la rimozione delle sanzioni contro l’Iran è ancora aperta così come aperti sono i conflitti che vedono coinvolte le due potenze regionali: i conflitti siriano e yemenita. In Siria da una parte sono coinvolti i pasdaran iraniani e gli Hezbollah libanesi in difesa del governo siriano e dall’altra i ribelli sunniti proxies dell’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita negli ultimi anni – insieme alle altre monarchie del Golfo –  ha infatti scagliato miliziani jihadisti contro la Siria di Assad (alleata di Teheran), sbocco nel Mediterraneo per gli iraniani. Casa Saud mal tollera l’asse che unisce Siria, Iran, Hezbollah e il governo sciita irakeno: in Siria è stata però costretta a fare un passo indietro a causa dell’intervento russo.

L’Arabia Saudita non è tuttavia disposta a cedere di un millimetro quando gioca ‘in casa’, dove rischia di essere scalfita la legittimità stessa del regno familiare-dinastico. In Bahrein (paese a maggioranza sciita) ha silenziato la ‘primavera’ del 2011 e non ha tollerato la presa del potere dei ribelli Houthi in Yemen nel 2015, conducendo una pesante operazione militare che ha provocato fino ad ora migliaia di morti (si parla di un Vietnam saudita); già imbronciata per l’accordo sul nucleare iraniano, in Yemen ha preteso il silenzio di Washington. L’imam sciita Nimr al-Nimr (popolare tra la minoranza sciita del paese) rappresentava una voce dissonante, considerato potenzialmente destabilizzante per l’immutabile regno saudita. La condanna non va comunque letta soltanto attraverso la lente dello scontro settario (che ha contribuito ad infiammare) ma soprattutto in chiave geopolitica: un chiaro messaggio sia per gli alleati atlantici che per i nemici persiani.

L’alta tensione iraniano-saudita avrà certamente delle conseguenze nel processo di pacificazione siriano: l’incontro di Vienna del 30 ottobre ha visto la partecipazione sia dell’Iran che dell’Arabia Saudita[i] ma le agende dei diversi attori regionali e globali sono estremamente diverse. Russia e Arabia Saudita ad esempio non concordano su chi siano i ribelli “moderati” o estremisti (un raid russo ha ucciso recentemente un leader jihadista sostenuto da Riyad) e il futuro politico di Assad resta ancora un elemento di contrasto. Iran e Arabia Saudita saranno verosimilmente restie a (far finta di) parlare amichevolmente per provare a ‘risolvere’ la questione siriana. Riyad considera lo stesso IS un male minore rispetto al potenziamento dell’asse sciita e al ritorno di un Iran legittimato a livello internazionale. Lo stesso Henry Kissinger in un recente articolo del 16 ottobre ha puntualizzato come gli Stati del Golfo «insist on the overthrow of Mr. Assad to thwart Shiite Iranian designs, which they fear more than Islamic State. They seek the defeat of ISIS while avoiding an Iranian victory»[ii].

Sarà messa a dura prova anche la strategia statunitense – che alcuni analisti considerano indirizzata verso un kissingeriano “equilibrio di potenza” – nel subbuglio mediorientale. La rappresentazione di una lungimirante politica obamiana volta alla definizione di un “balance of power” mediorientale sembra però un’espressione ingentilita per rappresentare la strategia americana del divide et impera e della ricerca di uno stalemate (tramite il ‘doppio contenimento’) che può adottare soltanto chi pretende di fare da regista arroccato in un altro continente al riparo dalle conseguenze delle guerre mediorientali. Ma non è facile fare da regista quando i principali alleati (Arabia Saudita e Turchia) pretendono di giocare anche le proprie partite ed esiste nuovamente una Russia intenzionata a dire la sua nelle vicende mediorientali.
Federico La Mattina


[i] http://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-syria-iran-idUSKCN0SM14C20151028
[ii] H. Kissinger, A Pathout of the Middle East collapse, “The Wall Street Journal”, 16/10/2015, http://www.wsj.com/articles/a-path-out-of-the-middle-east-collapse-1445037513.

domenica 3 gennaio 2016

Merkel: per una Europa si o per una Europa no?

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Merkel: per una Europa Si o per una Europa no?


Il 19 Dicembre 2015 il quotidiano “il Sole 24 ore” e i principali media nazionali riportavano le parole della Cancelliera Tedesca a margine del vertice di Bruxelles. ''No a garanzie Ue sui depositi'', questo il diktat di Angela Merkel.
All’incontro di Bruxelles, la Germania ha ribadito il suo “no” alla condizione dei rischi bancari: nessuna disponibilità alla mutualizzazione delle risorse per un unico sistema di garanzia dei depositi, a tutela dei risparmiatori quando una banca fallisce . Il premier Renzi critica la Cancelliera: “Non potete raccontarci che state donando sangue all'Europa''.(1) Fortunatamente il Premier italiano prende posizione sulle scelte da perseguire considerando che nel Paese vigono diversi focolai nazionalisti.
Non si riesce a capire se la Germania desidera portare avanti il processo di Europeizzazione . Se non convergeranno le scelte in comune si rischia di esasperare gli animi sociali, economici e politici. Il mondo economico Internazionale conta sulle scelte Europee. E accrescere il peso Europeo sul piano internazionale diventa importante.
Con il fallimento in America nel 2009 di uno delle più grosse banche del Paese, Lehman Brothers, ha preso piede la convinzione che le banche siano il nemico di molti cittadini Europei e non solo. Bisogna ricordare però che le banche sono l’unica authority in grado di garantire il ciclo economico Mondiale. Si sente parlare troppo spesso del cattivo operato delle Banche e poche volte bene della loro funzione .
Oggi più che mai diventa necessario che i leader europei inizino a comunicare fra di loro, per aiutarsi reciprocamente a migliorare il disegno di una Europa unita. Speriamo che la Germania e la Merkel lo comprendano. Del resto come diceva Giuseppe Mazzini, sull'Europa:
''Alla vecchia società Borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una Associazione su cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti''.
Edward Richard Junior Bosco

(1) Il Sole 24 Ore , articolo: Banche, Merkel Sfida la Bce: no a garanzie Ue sui depositi di Gerardo Pelosi.