mercoledì 27 luglio 2016

La solitudine di Donald Trump


La solitudine di Donald Trump



 



“ Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Con questa frase, in Ecce Bombo, Nanni Moretti rendeva evidente come certe assenze, in particolari occasioni, possano risultare fragorosamente stridenti.
E probabilmente il pensiero di quei nomi mancanti alla convention repubblicana, dove è stata ufficializzata la sua nomination, avrà dato al neo candidato repubblicano alla Casa Bianca ben piu’ di un’ amara certezza e parecchi spunti di riflessione.

Ebbene sì, colui che del Self-Made ne ha fatto una filosofia di vita (oltre che un’efficacissima campagna pubblicitaria), l’uomo delle inconsapevoli citazioni a Mussolini, degli slogan a sfondo razziale, e del piu’ generico menefreghismo nei confronti dei media, dell’opinione pubblica e del politically correct, non avrà potuto ignorare l’assenza di fondamentali nomi che hanno retto la storia recente dell’elefantino a stelle e strisce. Parliamo chiaramente dei fautori delle due guerre del Golfo, i due presidenti Bush senior e Bush Junior, una famiglia che ha, in un certo senso, aperto la stagione della controversa ( e fallimentare) lotta al terrorismo americana, è vuoto anche il posto di John McCain, repubblicano di ferro, reduce del Vietnam, uscito sconfitto dal confronto con Obama, e mancano anche i suoi rivali diretti che, nonostante gli iniziali sondaggi, sono finiti uno dopo l’altro, sotto lo schiacciasassi demagogico e populista targato Donald Trump.

Malgrado la sicurezza che ostenta, il contraccolpo sull’astro nascente dal parrucchino platinato, sortirà degli effetti. Si può pensare di vincere facendo leva sulle piu’ ataviche e intime paure legate alle diversità, si puo’ pensare di porsi come colui che rigetta il vecchio appellandosi ai piu’ tradizionali valori dell’America rurale, si puo’ cercare di corteggiare l’elettore medio, promettendo un futuro libero dal crimine degli immigrati latini, un futuro in cui la zavorra Europa non dovrà piu’ essere puntellata con l’aiuto dell’esercito e degli onesti contribuenti statunitensi, perché ” Make America Great Again” non è soltanto uno slogan, ma una filosofia, è l’America che rivuole l’ottimismo, la supremazia, l’apparente inviolabilità dei suoi anni ’50.

Ma non si puo’ sperare di vincere senza l’appoggio del proprio partito, quel partito di cui oggi Trump dice di poter fare a meno ma che costituirà inevitabilmente l’ago della bilancia nello scontro con Hillary. La stessa Hillary che al momento attuale ha sanato i suoi dissapori col rivale Sanders,[1] che è riuscito a strapparle forse la vera vittoria cui ambiva: Il voto giovanile, che la Clinton non potrà non tenere in considerazione, e che dovrà dimostrare di sapersi guadagnare, attuando, se non tutte, almeno in parte, le istanze “socialisteggianti” del navigato Sanders.

Da un lato quindi, un partito repubblicano diviso con un candidato che trae sempre piu’ forza ad ogni attentato commesso o rivendicato dall’Isis, costruendo il proverbiale nemico esterno che deve fare da collante, che vuole smantellare l’ObamaCare[2] e considera diritto di ogni vero, libero, e onesto cittadino americano possedere un’arma a scopi di auto difesa.
Dall’altro un partito Democratico che si dimostra inabile nel saper sfruttare mediaticamente le notizie a proprio vantaggio, trasformandole in percentuale di gradimento, una Hillary che non sa veicolare la generalizzata voglia di rinnovamento presente nell’elettorato e che via via viene percepita sempre piu’ come facente parte di un’epoca già chiusa, di un’America troppo permissiva con gli immigrati e troppo sfruttata dagli alleati. Con un Obama che, allo scadere del suo secondo mandato, non è riuscito a spuntarla circa la sua battaglia piu’ importante: La limitazione nella vendita delle armi da fuoco, anzi, sembra proprio che all’ennesima strage, che sia di matrice islamica, o legata al superomismo bianco, il messaggio che filtra è l’opposto di cio’ che si aspetta Barack: Se i diretti interessati fossero stati bene armati tutto cio’ si sarebbe potuto evitare.

In un mondo sfaccettato, in cui le logiche della guerra fredda sono venute meno, in cui il Drago sovietico è stato sconfitto e gli Stati Uniti, passata l’euforia dei primi anni ’90, si sono ritrovati in una fossa piena di serpenti rappresentati dalla Corea del nord ed i suoi rinnovati propositi nucleari, il terrorismo, la destabilizzazione del medio oriente, il ritorno di una Russia col ruolo di potenza regionale[3] in grado di influenzare la politica dei paesi limitrofi e che si oppone apertamente all’allargamento NATO verso oriente[4], e le rinnovate tensioni razziali sul fronte interno, l’amministrazione Obama si è trovata sempre piu’ in difficoltà nello stare al passo durante questi anni. Difficoltà legate al ruolo di unica superpotenza ereditato dagli USA nel 1991.

Ed e’ qui che il businessman Trump è riuscito a ritagliarsi la propria nicchia facendo credere di nuovo realizzabile un’America sicura, risoluta e salda attorno ai valori tradizionali. Un’America di nuovo grande. Un’America che per milioni di contingenze non potrà piu’ tornare, ma questo l’elettore medio lo ignora, o forse no, di sicuro non vuole accettarlo, e preferisce farsi cullare dalle tanto rassicuranti quanto familiari parole dell’ imprenditore deciso, con fiuto per gli affari, magari mentre accarezza la propria pistola nella fondina, perché difendere se stessi e la propria famiglia è un diritto inalienabile di ogni uomo, soprattutto in un’epoca di incertezze come questa.

E Trump è contagioso quando parla della sua America di nuovo grande. Un’America che per essere “great again” deve liberarsi di certi spettri ( e costruire ciclopiche mura difensive a spese dei messicani) [5]

E l’ago della bilancia probabilmente sarà non la percentuale di chi si recherà alle urne questo Novembre, ma i repubblicani della vecchia guardia, la frangia moderata del partito, quella legata alla tradizione neoliberalista che non si arrocca su posizioni nettamente xenofobe e populiste e che, percependo l’uragano Trump come fonte di imbarazzo e danno di immagine, vaglia concretamente la possibilità dell’astensionismo, o in extremis, l’appoggio velato e l’amara concessione di qualche voto alla Clinton.
In ogni caso l’assenza dei “Big” alla convention di Cleveland, e l’appello all’unità del Grand Old Party, da parte della massima carica istituzionale del partito, Paul Ryan, non lascia spazio a molti dubbi: Nell’elefantino la testa e le zampe comunicano male e vorrebbero andare in direzioni diverse. Di sicuro Trump ci darà nuovi spunti per far parlare di sé, speriamo almeno siano un qualcosa di originale e non soltanto un discorso fotocopia preso dal lontano 2008.[6]


Fabrizio Tralongo


NOTE:


[1] http://www.internazionale.it/video/2016/06/08/clinton-nomination-democratica


[2] http://www.ontheissues.org/2016/Donald_Trump_Health_Care.htm


[3] http://www.limesonline.com/cartaceo/a-che-serve-la-russia?prv=true&refresh_ce


[4] https://www.foreignaffairs.com/articles/russia-fsu/2014-08-11/broken-promise


[5] http://www.politifact.com/truth-o-meter/article/2016/jul/26/how-trump-plans-build-wall-along-us-mexico-border/


[6] http://www.usatoday.com/story/news/politics/onpolitics/2016/07/19/melania-trump-republican-convention-speech-plagiarism/87278088/

domenica 24 luglio 2016

How definitional impasses lead to legal uncertainty: the 'terrorism' case

How definitional impasses lead to legal uncertainty: the 'terrorism' case
1. Introductory note
Terrorism is a widespread phenomenon in the world we live on today. Particularly the last fifteen
years have been characterized by a number of terrorist attacks which are both more deadly and close in time than in the past. As a result of the considerable media coverage of such phenomenon, people have gradually learnt how to live with the frightening news, becoming progressively inured to them. Broadcasting news should instead represent an opportunity to common people to reflect on facts they are continuously exposed, by developing a critical thinking on such crucial global issue and refusing to be mere addressees of the media. Indeed, common people have never wondered what actually terrorism is, most likely because factual details of the attacks shift the attention from the most important question. Particularly for those scholars interested in the study of the phenomenon under the legal framework of international law, such question should sound like the following: 'what is the legal definition of terrorism?''.

Regrettably, a universal definition of terrorism does not actually exist so far. Despite the different conventions against very specific forms of terrorism issued by the United Nations (UN) from 19631 onwards, the latter has not yet succeeded in legally defining what terrorism is. It is essential to bear in mind that the lack of a comprehensive legal definition is not an issue per se, but it has become a real concern since 9/11, when the international community has strongly called for states to take action against terrorism. The urgency to counter the new global and undefined threat has increasingly led many states to take advantage of the high degree of arbitrariness in determining the definition of 'terrorism' at national level, misusing the term to adopt policies that constitute human rights violations under international law and that establish 'oppressive regimes'2, in the worst-case scenarios.

2. Is one man's terrorist another man's freedom fighter?
'One man's terrorist is another man's freedom fighter', attributed to the British author Gerald Seymour3, is an oft-heard quotation in the academic realm. It captures indeed the essence of the controversial debate about the definition of terrorism, especially referring to the thin line that distinguishes terrorism, the greatest offence to human rights, from the struggle for national liberation which instead founds its legitimacy under the right of self-determination of peoples4. As 'a meaningful and multi-faceted phenomenon'5, terrorism is undoubtedly hard to be categorized. Nevertheless, Jean-Marc Sorel has succeeded in identifying three essential criteria which could assist such inspirational aim: first, 'how the act was undertaken and its consequences […]; second, by whom the act was perpetrated; and, third, the reasons why the act was committed [...].'. Although the international community seems to agree on methods, 'indiscriminate use of violence'6, consequences, 'serious public or private material or human damage'7 and aims, 'to spread terror by dissociating victim and target'8, the qualification of perpetrators, causes and legitimation are still strongly debated. According to Sorel, as long as the different 'religious, cultural or political'9 aims of different terrorist groups are not seriously taken into account, the phenomenon can never be understood effectively and, consequently, an appropriate comprehensive legal definition of terrorism will always be difficult to reach.

3. The worrisome implications of the definitional problem of terrorism
The lack of a precise definition is not without consequences. As noticed by Conor Gearty, both 'the breadth of the definition of terrorism'10 and the 'overbroad discretionary powers'11 granted to states in time of public emergency12, invite the latter to 'depart from the rule of law'13, especially jeopardizing the enjoyment of fundamental human rights14. Despite both international15 and regional16 provisions on the 'state of emergency' allow derogation exclusively from those human rights which can been actually derogated, states have been often charged with violating 'absolute' human rights17, by implementing countermeasures which have failed to respect the required derogation limitations of 'necessity and proportionality'18. Andrea Bianchi particularly focuses on the way many states have seized the 'opportunity afforded by the implementation of the SC's (UN Security Council) anti-terror measures'19, by introducing over time new legislation and practices 'not mandated by the SC'20 and not even related to terrorism. All the elements considered above equally contribute to aggravate the legal uncertainty spread into the legal framework of terrorism, both at the national and international level: indeed, it is the 'lack of a universally shared definition of what amounts to an act of terrorism'21 which materializes the risk of controversial legislation and measures which are not actually 'limited to countering terrorism'22.

4. Attempts to define 'terrorism'
Notably, Sorel has proposed his personal definition of terrorism which reads as follows: 'international terrorism is an illicit act (irrespective of its perpetrator or its purpose) which creates a disturbance in the public order [...], by using serious and indiscriminate violence (in whatever form, whether against people or public or private property) in order to generate an atmosphere of terror with the aim of influencing political action'23.

5. Conclusion
The lack of a universally accepted definition of terrorism, both in the political and academic field, has not been overcome yet, instigating the long-term debate which involves not only regional and international organisations as, respectively, the European Union or the UN, but even individual States and non-state actors which aim to finally define terrorism. Unfortunately, as previously considered, many governments are too often reluctant to define terrorism specifically at national level as they would surely lose that flexibility currently allowed by the present vague and broad definition. It is especially for this reason that the international community should extensively keep working on the definitional problem of terrorism, encouraging more the understanding of the actual threat, rather than a superficial and blind 'denunciation'24.

Notes
1 The first convention against terrorism was the 'Convention on Offences and Certain Other Acts Committed on Board
Aircraft' (adopted 14 September 1963, entered into force 04 December 1969) 704 UNTS 219; 20 UST 2941; 2 ILM
1042
2 Daniel Moeckli, Sangeeta Shah & Sandesh Sivakumaran, International Human Rights Law (first published 2010, 2nd
edn, OUP 2014) 555
3 Ibid, p. 554
4 Article 1§1 of the International Covenant on Civil and Political Rights declares as follows: 'All peoples have the right
of self-determination. By virtue of that right they freely determine their political status and freely pursue their
economic, social and cultural development.'.
5 Jean-Marc Sorel, 'Some questions about the definition of terrorism and the fight against its financing' (2003) 14 EJIL
365, 367
6 Ibid, p. 368
7 Ibid
8 Ibid
9 Ibid
10 Conor Gearty, 'Terrorism and Human Rights' (2007) 42 Government and Opposition 340, 356
11 Ibid, p. 361
12 National 'state of emergency' is usually declared by governments in the aftermath of deadly terrorist attacks.
The wide range of discretionary powers granted to States during time of public emergency includes: the power to
conduct house searches without warrants, place under house arrest suspects without judicial warrant, ban associations
and public demonstrations, dissolve groups deemed to threaten public order, block certain websites and social media
accounts.
13 Conor Gearty, 'Terrorism and Human Rights' (2007) 42 Government and Opposition 340, 361
14 Sabine von Schorlemer stated that counter-terrorism measures may affect particularly: the presumption of
innocence; the right to fair trial; freedom from torture; freedom of thought; privacy rights; freedom of expression and
peaceful assembly; the right to seek asylum.
15 Article 4§1 of the International Covenant on Civil and Political Rights declares as follows: 'in time of public
emergency which threatens the life of the nation and the existence of which is officially proclaimed, the States Parties to
the present Covenant may take measures derogating from their obligations under the present Covenant to the extent
strictly required by the exigencies of the situation, provided that such measures are not inconsistent with their other
obligations under international law and do not involve discrimination solely on the ground of race, colour, sex,
language, religion or social origin.'.
16 Article 15 of the European Convention on Human Rights states as follows: 'in time of war or other public
emergency threatening the life of the nation any High Contracting Party may take measures derogating from its
obligations under this Convention to the extent strictly required by the exigencies of the situation, provided that such
measures are not inconsistent with its other obligations under international law.'.
17 The absolute rights under the International Covenant on Civil and Political Rights are: right to life (Article 6),
prohibition of torture or cruel, inhuman or degrading treatment (Article 7), prohibition of slavery (Article 8), prohibition
of imprisonment because of inability to fulfill a contractual obligation (Article 11), principle of no punishment without
law (Article 15), right to recognition of everyone as a person before the law (Article 16), right to freedom of though,
conscience, religion (Article 18).
18 Daniel Moeckli, Sangeeta Shah & Sandesh Sivakumaran, International Human Rights Law (first published 2010, 2nd
edn, OUP 2014) 554
19 Andrea Bianchi, 'Assessing the effectiveness of the UN Security Council’s anti-terrorism Measures: the quest for
legitimacy and cohesion' (2006) 17 EJIL 881, 899
20 Ibid
21 Andrea Bianchi, 'Assessing the effectiveness of the UN Security Council’s anti-terrorism Measures: the quest for
legitimacy and cohesion' (2006) 17 EJIL 881, 899
22 Ibid
23 Ibid
24 Jean-Marc Sorel, 'Some questions about the definition of terrorism and the fight against its financing' (2003) 14
EJIL 365, 370

Bibliography

Textbooks
Moeckli D., Shah S. & Sivakumaran S., International Human Rights Law (first published 2010, 2nd
edn, OUP 2014)

Journal Articles
Bianchi A., 'Assessing the effectiveness of the UN Security Council’s anti-terrorism measures: the
quest for legitimacy and cohesion' (2006) 17 EJIL 881
Gearty C., 'Terrorism and Human Rights' (2007) 42 Government and Opposition 340
Sorel J., 'Some questions about the definition of terrorism and the fight against its financing' (2003)
14 EJIL 365
von Schorlemer S., 'Human Rights: substantive and institutional implications of the war against
terrorism' (2003) 14 EJIL 265
European Conventions
European Convention on Human Rights (adopted 4 November 1950, entered into force 3 September
1953) ETS 5
International Conventions
Convention on Offences and Certain Other Acts Committed on Board Aircraft (adopted 14
September 1963, entered into force 04 December 1969) 704 UNTS 219; 20 UST 2941; 2 ILM 1042
International Covenant on Civil and Political Rights (adopted 16 December 1966, entered into force
23 March 1976) United Nations, Treaty Series, vol. 999, p. 171

giovedì 21 luglio 2016

Francia, Turchia, Stati Uniti. Tre teatri di tragedia sui quali non dobbiamo far calare il sipario


Francia, Turchia, Stati Uniti. Tre teatri di tragedia sui quali non dobbiamo far calare il sipario se si vuole evitare che si rivelino anelli di una catena ancora lunga e dolorosa.


La Francia è stata nuovamente colpita da una strage di innocenti che malgrado il minuzioso lavorio investigativo presenta ancora punti oscuri e solleva in ogni caso interrogativi importanti. Due in particolare: il primo riguarda l’assassino la cui figura, malgrado i tentativi per dimostrare il contrario, risulta lontana dall’identikit del jihadista islamista e vicina invece a quelle di un criminale in erba, pieno di debiti, violento e vizioso, privo anche della più sottile patina di islamismo: una persona suscettibile di essere convinto a compiere un’azione anche rischiosa, ma magari no, da un’offerta (100mila euro) con la quale trovare una via d’uscita ai suoi problemi e riscattarsi agli occhi della sua famiglia. Mi soffermo su questa tesi che francamente vorrei vedere contraddetta dai fatti perché, se dovesse risultare consistente la strage di Nizza ci porrebbe di fronte ad un inedito: un attacco terroristico realizzato da un giovane “non attenzionato” dai servizi di sicurezza, uno qualunque, un anonimo, anonimo come il camion frigorifero, rivelatosi strumento di morte tanto imprevedibile proprio perché banale, quanto di efficacia terrificante con l’involontaria (ma colpevole) complicità di quanti non dovevano permetterne il passaggio in una zona pedonalizzata e stracolma di persone festose, distratte, tragicamente vulnerabili. 

La strage di Nizza non ci deve far sottovalutare un altro fatto: i fischi e gli insulti rivolti al primo ministro Valls durante la cerimonia di commemorazione, episodio del tutto inimmaginabile in terra di Francia che ci ha dato tutto il senso di un popolo stanco, impaurito, sfiduciato, che si chiede il perché dell’accanimento stragista contro la Francia, del perché del male oscuro che la attraversa e che ne vuole minare l’unità, quell’unità nazionale fatta anche di un processo di “assimilazione” di cui è andata orgogliosa per tanto tempo e che adesso appare incompiuto, discutibile, almeno per quanto riguarda le grandi periferie parigine e il sud del paese. E si risponde addebitandone la responsabilità alla sua attuale dirigenza politico-governativa e istituzionale. Un segnale che mescolandosi ai gesti di rabbia verso il punto nel quale è stato abbattuto l’assassino, offre preziosa linfa all’investimento politico identitario e nazionalistico di Marine Le Pen. E preoccupa. 


Anche gli Stati Uniti si trovano nuovamente feriti nella loro unità/identità nazionale, ma per ragioni diverse. Si trovano nuovamente bersaglio del fuoco di quella discriminazione razziale che solo ad uno sguardo superficiale poteva apparire ormai spento o in ogni caso in via di spegnimento. Con buona pace di otto anni di presidenza di Obama, il primo presidente nero della storia americana. In realtà, in questi ultimi anni erano emersi non pochi segnali di conflittualità razziale che avrebbero dovuto far suonare il campanello d’allarme della responsabilità politica per quell’originaria patologia americana. Ma sono stati trascurati, quasi fossero fenomeni occasionali, manifestazioni di carattere congiunturali e non fossero invece la spia di un male più profondo.


E adesso, nel giro di pochi giorni, la piaga della discriminazione si è riaperta in maniera allarmante, fino a raggiungere l’estremo della premeditazione, dell’imboscata omicida, a Baton rouge, in Louisiana, vittima questa volta la polizia. Nel seguire gli eventi sono stato colpito dall’espressione del Presidente Obama: vi ho visto un'ombra di impotente tristezza e di frustrazione dolorosa molto più scura di quanto le sue parole coraggiose e appassionate volessero trasmettere al popolo americano. Tanto più che nelle stesse ore, da Cleveland, quel popolo veniva investito dalle luci accecanti dell’aggressiva spregiudicatezza di Trump e consorte la cui esibita, irridente estraneità al sistema politico-istituzionale del paese sta dando inedita forza d’attrazione ai suoi richiami alla riconquista della perduta grandezza americana: via il linguaggio perbenista, via la retorica formale, via tutto ciò che sa di rito, di convenzione, di politicamente corretto, via alle paratie dell’intermediazione. E porte spalancate ad un rapporto diretto, quasi casalingo e come tale anche sgangherato e contraddittorio, tra leader e popolo. Populismo? Qualcosa di più e di diverso, forse premonitore anche per l’Europa.


Infine la Turchia dove il vero colpo di stato è in corso dal venerdì notte del 16 luglio e si sta consumando con una violenza e pesantezza raccapricciante ai danni non solo dei malaugurati responsabili e sodali della fallita sollevazione popolare, ma anche di quanti, molti più dei primi, risultavano annotati in chilometriche liste di proscrizione per i più diversi motivi di supposta o reale avversità al regime. Migliaia e migliaia di civili e di militari, una purga di massa di cui solo col tempo conosceremo le dimensioni e le sofferenze. 


In questi giorni Erdogan sta spillando gli assi del poker di quella partita del potere cui agogna da tempo. E si tratta di un potere che affonda ora i suoi pilastri in una gran parte della massa turca che si riconosce in un islam robustamente ancorato nelle moschee, e in un apparato civile, militare e giudiziario organicamente a lui asservito. E’ vero, con quest’operazione Erdogan è emerso più forte di sempre; almeno nel breve periodo. Ma è anche vero che quella parte consistente del paese che lo detestava anche prima adesso lo detesterà ancora di più e farà proseliti. Salvo che non cambi registro, come non pare sia orientato a fare Erdogan dovrà pertanto fare i conti con un paese percorso da fattori di tensione e di instabilità dall’esito imprevedibile; al di là della minaccia del PKK, destinata ad accentuarsi. 


L’Erdogan post-golpe vorrà certamente capitalizzare la sua maggior forza interna anche a livello internazionale e regionale. Ha subito voluto mostrare i muscoli con Washington accusandola neanche tanto velatamente di una qualche forma di vicinanza ai rivoltosi con la complicità del suo arci-nemico Fethullah Gülen, esiliato negli USA e di cui ha chiesto l’estradizione, ben sapendo che non l’otterrà mai. Così facendo ha indubbiamente alzato l’asticella del suo posizionamento nell’area, sunnita e sciita. Si è visto recapitare messaggi di solidarietà e appoggio da tutti gli autocrati della regione. A cominciare da Riyadh che gli sta riconsegnando l’addetto militare turco di cui Ankara ha chiesto l’estradizone.  Si è subito stabilito un contatto tra Erdogan e Putin, intenzionati più che mai a proseguire nel processo di riavvicinamento avviato nelle ultime settimane, con prevedibili riflessi anche sulla dinamica siriana e sulle ambizioni curde che il Sultano farà di tutto per frustrare. 

Criticità invece con l’Occidente, nella versione NATO, in quella dell’Unione europea e dei rispettivi paesi membri. 


Bene hanno fatto Merkel e Kerry a rivolgere fin da subito un fermo monito ad Ankara in tema di rispetto dello stato di diritto. E bene hanno fatto i ministri degli esteri dell’Unione europea a ribadire lo stesso concetto nel Consiglio di lunedì 18 luglio, in piena assonanza con Washington.  Meno bene hanno fatto a mio giudizio a indicare nell’eventuale reintroduzione della pena di morte una sorte di linea rossa da non valicare perché così facendo hanno in qualche modo accettato di non pronunciarsi in termini adeguati, cioè ultimativi, sulla strage della notte del 16 luglio e soprattutto sulla pratica della quotidiana violazione dei diritti della persona e della democrazia, precipitata a livelli inaccettabili proprio a partire da quella notte.  Non vorrei che pur di trattenere sul suolo turco i profughi siriani si sia disposti a chiudere un occhio di fronte alle tante nefandezze di cui veniamo progressivamente a conoscenza.


Armando Sanguini
Armando Sanguini è un Ambasciatore in pensione. Capo missione in Cile, Tunisia e Arabia saudita, è stato tra l'altro Direttore Generale per le relazioni culturali all'estero, gli Istituti di cultura e le scuole italiane e Rappresentante personale del Presidente del Consiglio per l'Africa.

TERRORISM AND THE MIDDLE EAST'S DISINTEGRATION (EN)

- TERRORISM AND THE MIDDLE EAST'S DISINTEGRATION - 
(english version)



The Middle East continues to burn: the fight against IS goes foreward on more than one front but we are still faraway from the end of the conflict.
Iraq and Syria are fragmented and the biggest challange of the future will be the ethnic and religious pacification of the region.
Being in difficulty at home, the IS leads a last ditcheffort else where: from the Islamic world to the West, both in the case of “lone wolves” converted to extremism or in the case of  jihadist groups ( often grown in the western metropolis ).
Many people in the West fear the “clash of civilizations” and in Italy, the writings of Oriana Fallaci are coming back again.

However, talking about a “clash of civilizations” is erroneous since it serves the jihadist propaganda: the more it is spoken about, the more it is encouraged.
The historian Franco Cardini remembers us that Islam recognizes no clerical authority qualified to speak on behalf of all Islamic communities, which are actually autocephalous and it should be borne in mind that most of the Islamic terrorism’s victims are Muslim themselves.
Massimo Campanini, historian of the Islamic world, draws attention to the fact that the “civil” infighting, triggered by extremist and terrorist organizations, is essentially anti-Islamic precisely because it unleashes a “fake” agreement  as civil war between Muslim.
In addiction- as I already had the opportunity to argue elsewhere- in all this Middle Eastern turmoil, the geopolitical and bioenergetics issues take precedence over the still-influential sectarian question.
The Saudi-Iranian rivalry is essentially geopolitical and unilateral “cultural” explanation
cannot highlight the complex regional dynamics and the consequent shape of alliances.


What role did the West play? The Iraqi political-religious fragmentation has deep roots but it has been revived and encouraged by the 2003 reckless and criminal war.
The Chilcot report has strongly condemned Blair’s ( and Bush’s) intervention and performance by highlighting both the wrong assumptions and the predictable consequences.
Things that have been known for years but that can be finally read in the international press.
The war in Iraq has certainly been a disaster: it has revived the interreligious and sectarian clash, it has destroyed a country  by provoking hundreds of thousands of both deaths and refugees and it has laid the foundations for the rise of the IS.
Nowadays, without war there wouldn’t be the phantom “Islamic State”: history isn’t made of “ifs” but it is better to underline the massive responsibilities of those who – if not in the court – will be “prosecuted” by the historians of the future.
However, we must not fall into temptation of linking the West with everything that’s going on over there. The Western powers’ responsibilities are huge but they are not the only determining factors.
Islamic extremism and the derived ultraconservative interpretation of the religion come both from the “ Nahda” failure (the so-called Islamic reformism established since the nineteenth century) and the failure of the pan-Arab nationalism, moreover opposed by the western powers with all the possible means.


Western powers – USA first of all- have made use of jihadism for their own strategic ends (think of the anti-Soviet fight in Afghanistan, the support for the Libyan and Syrian rebels; or even the Chechen terrorism’s underestimation- when it was not expressly defended).
There is, however, a radical component within the Islamic world that is influenced by the Saudi Wahhbism similar beyond the West, as well as political Islam itself in general.
The IS hasn’t neither been created by default by some powers (as some people claim) nor it is the Saudis pawn, who consider it a “lesser evil” and tolerate it as long as it keeps their enemies busy outside of the kingdom (by preferring other extremist groups- easier to be controlled- over it).

The war in Iraq and the support to the jihadist internationalism against Assad’s Syria – who saw western powers and Gulf monarchies united- are certainly the primary causes of the Syrian-Iraqi disintegration (a memorandum signed by 51 American diplomats has even criticized Obama’s policy against Assad because considered too “reactive”! ).

The journalist Fulvio Scaglione in his recent book of strongly metaphoric title “Deal with the devil” (Bur, 2016) highlights in a very accurate way the relations between western powers and Saudi Arabia, from which private funds and so-called “charitable” organizations largely contribute to the financing of the extremist and terrorist groups.
But business is business and western powers continue to turn a blind eye.
How can we think of defeating terrorism if we do not cut the sources of funding and if “we” Europeans do not review our priorities in Middle East (and not only..) ?





Written by Federico La Mattina

Transalted by Alessandra Falzone


[i] Cfr. F. Cardini, Il califfato e l’Europa. Dalle crociate all’Isis: mille anni di paci e guerre, scambi, alleanze e massacri, Novara, Utet, 2016, p. 237.
[ii]  http://www.tpi.it/mondo/africa-e-medio-oriente/massimo-campanini-fondamentalismo-islamico-isis
[iii] Cfr. F. La Mattina, Libia, Siria, Ucraina: una critica del discorso dominante, in “MarxVentuno” 1-2 2016, pp. 137-160.
[iv] http://www.nytimes.com/2016/06/17/world/middleeast/syria-assad-obama-airstrikes-diplomats-memo.html?_r=0

mercoledì 20 luglio 2016

Terrorismo e disintegrazione mediorentale

Terrorismo e disintegrazione mediorientale




Il Medio Oriente continua ad infiammarsi: procede la lotta su più fronti contro l’IS ma siamo ancora lontani dalla fine del conflitto. Iraq e Siria sono frammentati e la più grande sfida del futuro sarà la pacificazione etnico-religiosa della regione. In difficoltà in casa, l’IS fa sentire i propri colpi di coda altrove: dal mondo islamico all’Occidente, che si tratti di “lupi solitari” convertiti all’estremismo o di cellule jihadiste (spesso cresciute e pasciute nelle metropoli occidentali). Molti in Occidente cadono nella paura dello “scontro di civiltà” e in Italia tornano di moda gli scritti di Oriana Fallaci.

Parlare di uno “scontro di civiltà” è però sbagliato nonché funzionale alla propaganda jihadista: più se ne parla più lo si fomenta di fatto. Lo storico Franco Cardini ci ricorda che l’Islam non conosce autorità di tipo ecclesiale abilitate a parlare a nome di tutte le comunità islamiche, che sono di fatto autocefale[i] ed è bene tenere presente che la maggior parte delle vittime del terrorismo islamico sono esse stesse musulmane. Massimo Campanini, storico del mondo islamico, fa notare come la lotta interna “civile” scatenata dalle organizzazioni estremiste e terroriste sia essenzialmente anti-slamica, proprio perché scatena una “fitna” intesa come guerra civile tra islamici[ii]. Inoltre – come ho avuto modo di argomentare altrove[iii] –  nel subbuglio mediorientale le questioni geopolitiche e geoenergetiche prevalgono sul pur influente discorso settario. La partita iraniano-saudita è essenzialmente geopolitica e spiegazioni di tipo esclusivamente “culturale” non riescono a mettere in luce le complesse dinamiche regionali e il gioco di alleanze che ne consegue.

Quale è stato il ruolo dell’Occidente? La frammentazione politico-religiosa dell’Iraq ha antiche origini ma è stata certamente ravvivata e fomentata dalla sconsiderata e criminale guerra del 2003. Il rapporto Chilcot ha fermamente condannato l’intervento e l’operato di Blair (e Bush), mettendo in luce sia i presupposti sbagliati che le conseguenze prevedibili. Cose note da anni, ma finalmente è possibile leggerle nero su bianco sulla stampa internazionale. La guerra in Iraq è stata certamente una catastrofe: ha ravvivato lo scontro interreligioso e settario, ha distrutto un paese provocando centinaia di migliaia di morti e profughi e ha posto le basi per la nascita dell’IS. Senza guerra oggi non ci sarebbe il fantomatico “Stato Islamico”: la storia non si fa con i “se” ma è bene mettere in evidenza le enormi responsabilità di chi  –  se non in tribunale – sarà “processato” dagli storici del futuro.
Non bisogna però cadere nella tentazione di attribuire all’Occidente tutto ciò che accade da quelle parti. Le responsabilità delle potenze occidentali sono enormi ma non sono gli unici fattori determinanti. L’estremismo islamico e la relativa interpretazione ultra-conservatrice della religione sono figli del fallimento della “Nahda” (il cosiddetto riformismo islamico affermatosi a partire dal XIX secolo) e del fallimento del nazionalismo panarabo, peraltro osteggiato in ogni modo dalle potenze occidentali.

Le potenze occidentali – Usa in testa – hanno utilizzato il jihadismo per i propri fini geostrategici (si pensi alla lotta antisovietica in Afghanistan, al sostegno ai ribelli libici e siriani; alla sottovalutazione –   quando non lo si difendeva espressamente –  del terrorismo ceceno). Esiste però una componente radicale all’interno del mondo islamico, influenzata dal wahabismo saudita che è tale al di là dell’Occidente, così come lo stesso Islam Politico in generale. L’IS non è  una creazione a tavolino di alcune potenze (come alcuni sostengono) né oggi una pedina dei sauditi, che lo considerano un “male minore” e lo tollerano fintanto che tiene impegnati i propri nemici al di fuori del Regno (preferendogli altri gruppi estremisti più facili da controllare).

La guerra in Iraq e il supporto all’internazionalismo jihadista contro la Siria di Assad –  che ha visto unite potenze occidentali e monarchie del Golfo –  sono certamente tra le cause primarie della disintegrazione siro-irachena (un memorandum firmato da 51 diplomatici statunitensi ha addirittura criticato la politica di Obama contro Assad, considerata troppo “attendista”![iv]). 

Il giornalista Fulvio Scaglione nel suo recente libro dal forte titolo metaforico “Il patto con il diavolo” (Bur, 2016) mette molto bene in luce i rapporti tra potenze occidentali ed Arabia Saudita, dalla quale fondi privati e organizzazioni cosiddette “benefiche” contribuiscono largamente al finanziamento dei gruppi estremisti e terroristi. Ma gli affari sono affari e le potenze occidentali continuano a chiudere un occhio. Come si può pensare però di sconfiggere il terrorismo se non si colpiscono le fonti di finanziamento e se “noi” europei non rivediamo le nostre priorità in Medio Oriente (e non solo)?
Federico La Mattina



[i] Cfr. F. Cardini, Il califfato e l’Europa. Dalle crociate all’Isis: mille anni di paci e guerre, scambi, alleanze e massacri, Novara, Utet, 2016, p. 237.
[ii]  http://www.tpi.it/mondo/africa-e-medio-oriente/massimo-campanini-fondamentalismo-islamico-isis
[iii] Cfr. F. La Mattina, Libia, Siria, Ucraina: una critica del discorso dominante, in “MarxVentuno” 1-2 2016, pp. 137-160.
[iv] http://www.nytimes.com/2016/06/17/world/middleeast/syria-assad-obama-airstrikes-diplomats-memo.html?_r=0

domenica 17 luglio 2016

Fallito Golpe in Turchia: azione avventata o clamorosa messa in scena?

Fallito golpe in Turchia: azione avventata o clamorosa messa in scena?



Un colpo di stato militare viene lanciato in Turchia, nel pomeriggio di venerdì 15 luglio. Una fazione non identificata dell’esercito turco prende possesso della TV di stato e annuncia di aver preso il potere. I leader della fazione sovversiva parlano a nome di tutto l’esercito turco, con l’intenzione di ripristinare la democrazia, la libertà, l’ordine costituzionale e i diritti umani.[1] Le città di Ankara e Istanbul vengono presidiate da carri-armati e jet militari e la CNN turca viene occupata dai soldati. In serata il ponte sullo stretto del Bosforo ad Instanbul viene bloccato dai carri-armati dei golpisti. Il presidente Erdogan reagisce apparentemente prendendo un volo per la Germania o per la Gran Bretagna ( le destinazioni del volo non sono accertate ) per chiedere asilo politico, e nel frattempo manda un video messaggio ad un emittente televisiva turca appellandosi al popolo turco di scendere in piazza ed opporsi al golpe militare. Dopo scontri a fuoco, tramite l’intervento della polizia turca e l’esercito leale al governo, i golpisti si arrendono sul ponte sul Bosforo. Il bilancio è di circa 265 vittime. Circa 3000 militari vengono arrestati. Molta gente scende nelle piazze rispondendo positivamente all’appello del presidente Erdogan e opponendosi ai militari in rivolta. Il presidente dopo il tempo trascorso “in volo” atterra infine ad Istanbul per ricostituire l’ordine e il controllo sulla Turchia, dichiarando che i responsabili verranno duramente puniti, anche ristabilendo la pena di morte. Germania e Stati Uniti attraverso delle dichiarazioni un po’ “tardive” appoggiano il governo democraticamente eletto, opponendosi al golpe. 

Il presidente Erdogan ha individuato nel “Movimento Gulen” la mente dell’organizzazione del colpo di stato. Il movimento è stato definito da Erdogan come un’organizzione “parallela” presente anche nell’esercito. Il movimento Gulen fa capo all’imam sunnita moderato, Fethullah Gulen, in esilio in Pennsylvania, il cui movimento ha milioni di seguaci in Turchia e in tutto il mondo. Esso è ispirato da una visione inclusiva dell’Islam che enfatizza la tolleranza e la cooperazione e vede la modernità compatibile con la religione. [2]Inoltre evidenzia l’importanza dell’istruzione fuori dalle scuole religiose. Il movimento chiamato hizmet che in turco vuol dire “servizio” è noto in Turchia per le sue numerose scuole che sono presenti in Pakistan e Stati Uniti ( oltre 100 scuole ). L’hizmet di Gulen era inizialmente amico e alleato di Erdogan, ma ad un certo punto i seguaci del movimento cominciarono a denunciare gli enormi profitti accumulati dalla famiglia Erdogan ( come la villa da mille stanze ad Ankara ).[3] Il presidente ha così cercato di eliminare dalla scena Gulen che fuggì in esilio negli Stati Uniti. Tuttavia molti seguaci del movimento rimasero presenti all’interno della polizia turca ( parte dei quali sono stati già sostituiti ) e della magistratura. Sono infatti 3000 i magistrati che in queste ore vengono rimossi per essere sospettati di aver favorito la cospirazione. Ad oggi il movimento Gulen è considerato dal governo come “un organizzazione terroristica” che ha progettato e messo in atto il colpo di stato. 

E’ di queste ore la notizia che il presidente Erdogan abbia puntato il dito contro gli Stati Uniti, dichiarando che “una nazione che ospita un nemico della Turchia è anch’essa nemica della Turchia”. E’ stata infatti presentata al governo degli Stati Uniti una richiesta di estradizione di Fethullah Gulen, il quale, insieme al suo movimento si dichiara totalmente estraneo ai fatti. Il Segretario di Stato americano, John Kerry ha chiesto che vengano presentate delle prove evidenti sulle responsabilità oggetive dell’influente imam, al fine di accogliere la richiesta di estradizione. A riguardo si attendono ulteriori sviluppi. Sta di fatto che al momento non sono presenti prove evidenti che Fethullah Gulen, nemico politico di Erdogan in esilio all’estero, sia responsabile del colpo di stato sventato in poche ore. I veri responsabili al momento sono una parte rilevante di generali e colonnelli dell’esercito turco i quali evidententemente, non hanno trovato appoggio da parte della restante parte dell’esercito, della polizia e soprattutto della popolazione, che di fatto si è opposta al tentativo di colpo di stato. In Turchia non è la prima volta che si verifica un golpe militare. L’esercito ha un ruolo fondamentale nella scena politica turca. La moderna repubblica di Turchia è stata fondata nel 1923 da Mustafa Kemal Ataturk, un ex-ufficiale dell’esercito profondamente legato ad una forma di “nazionalismo democratico” e di “struttura secolare” che successivamente prenderà il nome di “Kemalismo”.

L’esercito turco considera sé stesso come il “guardiano del Kemalismo” e ha rovesciato ben 4 governi dal 1960 al fine di proteggere la Turchia democratica dal “caos delle influenze islamiste”. Erdogan è sicuramente percepito come una minaccia alla democrazia e al secolarismo in Turchia. Alla guida dell’AKP, un partito islamista moderato che ha “riformato” le scuole turche su linee islamiste, Erdogan ha notevolmente compromesso e ridotto la libertà di stampa e propone cambiamenti alla costituzione volti ad accentrare maggiormente i poteri nelle sue mani. E’ quindi possibile che l’ortodossia Kemalista sia alla base del tentativo di golpe portato avanti da una fazione dell’esercito. Le ipotesi sulle responsabilità del colpo di stato al momento sono principalmente due : 1) Il movimento di Fethullah Gulen, presente in molti apparati delle istituzioni turche. 2) Fazioni dell’esercito che, applicando l’idea di Mustafa Kemal Ataturk su democrazia e secolarismo, intendevano destituire la deriva islamista e anti-democratica di Erdogan. Le due ipotesi possono anche essere complementari, non necessariamente l’una esclude l’altra. Tuttavia restano ancora molti dubbi sugli sviluppi del colpo di stato. E’ molto strano che il golpe sia stato sventato in poco più di 4 ore. Inoltre Erdogan, subito dopo la notizia del tentato golpe si è imbarcato sul Gulfstream governativo e per ore ha volato nel nord della Turchia prima di tornare a Istanbul. Il transponder era acceso, quindi risultava facilmente individuabile da parte dei caccia degli insorti che l’hanno invece totalmente ignorato. E’ peraltro insolito in una situazione da colpo di stato che il presidente sia atterrato indisturbato ad Istanbul dopo poco tempo, facendo annunci pubblici, nonostante fosse in pericolo di vita. Tuttavia il dato di fatto è che, nonostante la situazione rimanga tesa, con migliaia di sostenitori del governo scesi nelle piazze volte a “presidiarle” dai presunti traditori ( additati in questo momento tra i seguaci del movimento Gulen ), Recep Tayyip Erdogan esce notevolemente rafforzato.

Adesso che il popolo si è schierato dalla sua parte davanti ad un colpo di stato militare, il “sultano” ha più legittimità nel contrastare ed eliminare i suoi nemici politici. Può fare “pulizia” all’interno dell’esercito, rimuovendo la parte “kemalista” custode dell’ordine laico e democratico della Turchia. Può, come sta facendo, ricattare gli Stati Uniti per estradare Gulen. In queste ore infatti la base NATO di Incirlik usata per i raid contro i jihadisti dell’Isis è stata per il momento bloccata.[4] Sospesi tutti i voli dagli Usa delle compagnie aeree americane verso Ankara e Istanbul e interdetti quelli provenienti dalla Turchia. I rapporti diplomatici tra i due paesi restano tesi e ricordiamoci che la Turchia è membro della NATO e paese chiave nella lotta allo Stato Islamico in Siria e in Iraq ( nonostante le posizioni ambigue sul califfato ). Una volta rimossa ed epurata l’opposizione gulenista, Erdogan può a mani basse cambiare la costituzione per accentrare sempre di più i suoi poteri e rendere il paese sempre più “islamizzato” e meno laico. Il presidente potrà continuare a condurre indisturbato la guerra a bassa intensità contro le forze armate del PKK, il partito curdo, nel sudest del paese, un’altra importante forza di opposizione al governo. La libertà di stampa, i diritti civili e delle minoranze, i diritti degli LGBT, i movimenti studenteschi legati a Gezi Park, verranno inevitabilmente compromessi a favore del processo di islamizzazione voluto dal presidente Erdogan, ad oggi impopolare agli occhi dei leader occidentali, ma indispensabile in ottica di controllo dell’immigrazione di massa ( UE ) e stabilità nella regione mediorientale con la lotta al terrorismo ( Stati Uniti e NATO ).

In queste ore non mancano argomentazioni che avanzano l’ipotesi della messa in scena da parte dello stesso Erdogan di un tentativo di colpo di stato al fine di liberarsi delle opposizioni interne e ricattare l’Occidente per ottenere da una parte più finanziamenti dall’UE nella crisi dei migranti, dall’altra a perseguire l’obiettivo di diventare una nazione egemone nell’instabile regione mediorientale ( obiettivo non molto nascosto da parte di Erdogan, che intende ritornare ai fasti dell’impero Ottomano ). Al momento non è facile fornire una spiegazione esaustiva e completa del contesto turco. Rimangono molti punti interrogativi sulla situazione di questo paese membro della NATO che ha instaurato un processo di pre-adesione all’Unione Europea, ma che presenta molte ambiguità sulle linee guida alla lotta al terrorismo, e molti punti oscuri sulla natura democratica del proprio governo.
Danilo Lo Coco 

Note:
[1] Beauchamp Z., “Turkeys Coup”, explained in under 500 words” in : http://www.vox.com/2016/7/15/12204172/turkey-coup-erdogan-military
[2] Matthews D., “Turkey’s coup: The Gulen Movement, explained” in: http://www.vox.com/2016/7/16/12204456/gulen-movement-explained
[3] Bulliet W. R., “First Names and Political Change in Modern Turkey” in “International Journal of Middle East Studies” Vol. 9, No 4 ( Nov., 1978), pp. 489-495, Cambridge University Press, 1978.
[4] Negri A., “Golpe fallito in Turchia, Ankara chiude la base aerea Usa e chiede estradizione di Gulen” in: http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-07-16/golpre-fallito-turchia-ankara-chiude-base-aerea-usa-e-chiede-e-chiede-estradizione-gulen--194912.shtml?uuid=ADm0d3t

venerdì 15 luglio 2016

Golpe "Gulenista" in Turchia?

Golpe "Gulenista" in Turchia?























Erdogan ha puntato il dito contro la rete 'gulenista', ovvero del predicatore Fethullah Gülen, come responsabile del golpe. Muhammed Fethullah Gülen è un predicatore turco, ex imam. Egli è anche considerato il fondatore del movimento Gülen. Dall’inizio del 2000 Gulen è stato un alleato del Presidente turco Recep Erdogan, tuttavia l'alleanza è stata distrutta nel 2013 dopo presunte indagini sulla corruzione in Turchia. Da queste indagini Erdogan ne è uscito colpevole, e quest’ultimo ha accusato Gülen per essere dietro le indagini. 

Attualmente è nella lista dei ricercati per terrorismo, proprio per aver creato un’organizzazione: la Gulenist Terror Organisation. 

Il movimento, in profondo contrasto con la politica di Erdogan, si fonda su diversi punti. In primis, il valore della laicità, poiché secondo Gülen un approccio laico non è "anti-religioso", anzi la concezione della libertà di credo è compatibile con l'Islam. 

Inoltre, Gülen ha sostenuto l' adesione della Turchia all'Unione europea e ha detto che né la Turchia né l'UE hanno nulla da temere, ma hanno molto da guadagnare, poiché un paese laico e democratico con intralcia i valori europei. 

Il progressismo del movimento si nota anche dalla concezione della donna, le quali rappresentano un perno fondamentale per la società, letta in chiave islamica. 

Gülen ha condannato anche il terrorismo, in ogni sua forma. Ha scritto infatti un articolo di denuncia del Washington Post il 12 settembre del 2001, un giorno dopo gli attacchi dell'11 settembre, e ha dichiarato che un musulmano non può essere un terrorista, né un terrorista essere un vero musulmano. Secondo il movimento gulenista infatti la violenza civile, perpretata anche dal governo di Erdogan, è anche una forma di terrorismo. Questo è il motivo per cui egli ha criticato il coinvolgimento turco nella rivoluzione siriana. Pur rifiutando la volontà del governo turco di rovesciare il governo siriano del presidente al-Assad, Gülen sostiene l'intervento militare contro l'ISIS per due motivi fondamentali: non sono dei veri islamici e sono terroristi. 

Indipendentemente dalle ipocrisie politiche, o dai giochi di potere dell’UE e della NATO, una “dottrina” progressista farebbe comodo alle due organizzazioni, le quali hanno fatto accordi a denti stretti. Da un lato, l’UE ha ceduto 6 miliardi di euro al precedente governo turco; dall’altro, per questioni geopolitiche, la NATO ha chiuso gli occhi sulle politiche repressioniste. 

Un cambiamento delle scenario internazionale è auspicabile, soprattutto per gli equilibri della sicurezza. Una Russia “meno offensiva” con un paese NATO, e un probabile futuro membro UE potrebbe creare un’area meno tesa. 
Maria Elena Argano

L'alleato statunitense e la ridefinizione del ruolo di Roma nell'arena internazionale

L'alleato statunitense e la ridefinizione del ruolo di Roma nell'arena internazionale



“Noi abbiamo bisogno di considerare che la parola guerra fredda non può stare nel vocabolario del terzo millennio. E’ fuori dalla storia, fuori dalla realtà ed è inutile. Noi abbiamo bisogno che Unione Europea e Federazione Russa tornino ad essere buoni vicini di casa. Russia e Europa condividono gli stessi valori”. In questi termini si pronunciava il Presidente del Consiglio Matteo Renzi durante una visita di Stato a San Pietroburgo nella Russia di Putin il 17 Giugno 2016. Neanche un mese dopo, in occasione della “due giorni” del Consiglio Atlantico tenutosi a Varsavia l’8 e il 9 Luglio, lo stesso Premier italiano annuncia il dispiego di 150 militari che si uniranno alle unità già presenti di Germania, Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti ai confini dell’Alleanza Atlantica, vale a dire tra Polonia e Paesi Baltici, proprio in funzione anti-russa, dopo che Varsavia, Riga, Vilnius e Tallin, ormai da tempo, esprimono in coro forti preoccupazioni per le periodiche esercitazioni Russe al ridosso dei loro confini e le denunce relative ai continui sforamenti nei loro spazi aerei da parte di aerei da guerra di Mosca. Dal punto di vista militare la notizia non gode di elevata rilevanza, infatti l’invio di 150 militari in una zona strategicamente poco rilevante per gli interessi geopolitici italiani non desta preoccupazioni di sorta, ma dal punto di vista politico, in particolare riguardo ai rapporti tra il nostro paese e la Russia e tra il nostro paese e gli Stati Uniti, l’annuncio del Premier italiano diventa molto interessante e la mossa potrebbe avere ripercussioni politico-diplomatiche nei rapporti tra Roma e Mosca già adesso non certo idilliaci dopo l’imposizione delle sanzioni alla Russia (le cui conseguenze si sono rivelate opposte all’interesse nazionale italiano) all’indomani dell’annessione della Crimea nel Marzo 2014.  Ad essere maliziosi, confrontando le parole con i fatti, verrebbe da pensare ad una storica tendenza tutta italica di voler stare con “due piedi in una scarpa”. Quello che sembra sempre più evidente è la completa adesione politico-militare dell’Italia agli interessi strategici degli Stati Uniti. Dopo la Guerra Fredda è successo in Iraq nel 2003, in Afghanistan dal 2001 in poi, in Libia nel 2011, fino ad arrivare all’invio di militari in una delle zone più calde e pericolose del pianeta: la diga di Mosul, o ancora, la possibilità di utilizzare la Sicilia come Portaerei fissa nel Mediterraneo per il decollo di Droni da guerra (gli aeroporti di Birgi, Sigonella e il Muos di Niscemi), oppure si pensi la recente decisione del Governo (10 luglio 2016) di accettare Fayiz Ahmad Yahia Suleiman all’interno dei confini nazionali.

Il caso merita un breve approfondimento
Suleiman è un presunto terrorista combattente catturato in Pakistan e trasferito negli USA, il quale figura come n°55 nella struttura di comando di Al-Qaeda, e per questo motivo proveniente direttamente dal campo di prigionia di Guantànamo, dove è stato prigioniero per 14 anni. La decisione è stata presa per facilitare il processo di chiusura della famosa struttura carceraria di massima sicurezza, promessa da Obama all’inizio della suo primo mandato alla Casa Bianca. Da Washington, infatti, arrivano parole di estrema gratitudine nei confronti del Governo italiano, che ufficialmente ha accettato di accogliere l’ex prigioniero per “motivi umanitari”. Ma pochi si sono soffermati sulla figura di Fayiz Ahmad Yahia Suleiman. Scavando più a fondo ben si comprendono i motivi della soddisfazione espressa oltre oceano nei confronti del nostro Paese, infatti Suleiman figura nelle schede segrete dei prigionieri di Guantànamo, poi rese pubbliche da WikiLeaks nel 2011,  come soggetto altamente pericoloso, si legge infatti: «Valutiamo che il detenuto sia ad alto rischio», scriveva nel 2008 la Task Force incaricata di riesaminare la situazione dei singoli prigionieri, «perché è probabile che rappresenti una minaccia per gli Stati Uniti, per i loro interessi e per i loro alleati», ma mai appare il motivo per cui quest’uomo sia stato imprigionato: «Il file del detenuto», recita la scheda segreta, «non indica la ragione per cui è stato inviato a Guantanamo». Quindi non sembrano saperlo neanche le autorità statunitensi che infatti, nel 2009, hanno decretato il rilascio del detenuto ma per ben 7 anni non sono riuscite a trovare un Paese disposto ad accoglierlo; Ed è qui che troviamo le ragioni “umanitarie” dell’accoglienza dell’Italia: Suleiman infatti è un cittadino dello Yemen, paese attualmente devastato da una sanguinosa guerra civile e per questo motivo sarebbe illegale farlo tornare nel suo paese d’appartenenza. Ma siamo sicuri che questa decisione sia priva di rischi?

Cosa ci guadagna l’Italia dal totale allineamento alle politiche strategico-militari statunitensi?
Nel 2014 il Segretario di Stato USA John Kerry ha dichiarato: “Penso di poter riaffermare con chiarezza che l’Italia è uno dei più importanti alleati degli Stati Uniti. Possiamo dire sicuramente che la nostra alleanza non è mai stata più forte di come è in questo momento”, e lo diceva proprio nel periodo in cui l’Italia aveva offerto il Porto di Gioia Tauro come location per svolgere le pericolose operazioni di trasferimento delle armi nucleari siriane sulla nave Cape Ray.  Dopo la recessione globale del 2008 l’Italia ha perso insieme alla stabilità economica e politica anche il proprio piccolo ruolo in campo internazionale. Oggi (negli ultimi anni) è evidente il tentativo di Roma di riaffacciarsi nell’arena politica globale seguendo una strategia a basso rischio (ma non per questo a basso costo), appoggiarsi all’alleato Statunitense, “il più forte” e (quindi) alla NATO e all’ONU. L’Italia infatti figura al 7° posto nella graduatoria dei contributori ONU con una spesa di 120.699.353 dollari, preceduta da Cina, Regno Unito, Francia, Germania, Giappone e al primo posto ovviamente gli Stati Uniti. Questi Paesi pagano in denaro ciò che non vogliono “pagare” mettendo a disposizione le vite dei propri soldati, ma non il nostro Paese che invece è il primo contributore di “caschi blu” tra i Paesi WEOG (Western European and Others Group) alle missioni di pace dell’Onu, ed è al settimo posto anche per i contributi al bilancio del peacekeeping con 105.561.525 milioni di dollari. In concomitanza con tutto ciò (non si intende di certo che il tutto sia correlato da una concatenazione diretta di causa-effetto), Roma può rivendicare dal 1° Novembre 2014, seppur indirettamente, la passata appartenenza dell’attuale Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini al Governo attualmente in Carica (Governo Renzi); l’Ufficiale comandante della Missione “EU NAVFOR MED” targata UE/NATO nel Mediterraneo è l’Ammiraglio italiano Enrico Credendino; inoltre Palazzo Chigi ha avuto l’opportunità di partecipare al tavolo di negoziazione per la Siria, rivelatosi quasi inutile, e tutt’ora mantiene una certa posizione di rilievo per quanto riguarda il futuro (sempre più incerto) della Libia, Paese in cui l’Italia ha fortissimi interessi economici in aperta concorrenza con Francesi ed Inglesi.  Inoltre il Bel Paese si appresta anche a rientrare all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU come seggio non permanente dopo 8 anni di assenza e una intensa campagna elettorale condotta dal 2009 ad oggi proprio in virtù dei grandi contributi elargiti all’ONU, del grande impegno in teatri di peace keeping in tutto il mondo e della situazione contingente che l’Italia sta vivendo, per forza di cose, nel Mediterraneo delle guerre civili, dell’emergenza rifugiati e dei grandi flussi migratori con lo scopo di prevalere sugli altri due candidati, Svezia e Olanda, e per poter partecipare alla scrittura delle risoluzioni e acquisire quindi potere negoziale. Purtroppo però anche questa volta si tratta di una “vittoria incompleta”, infatti dei due anni che spetterebbero al vincitore delle elezioni, all’Italia ne spetterà solo uno (il 2017), mentre l’altro (il 2018) sarà ricoperto dall’Olanda, grazie ad un accordo tra i due paesi in virtù, si dice, dello spirito di cooperazione europea.

Conclusioni
Innegabilmente questi sono aspetti positivi che mettono l’Italia in una posizione, se non centrale, di sostanziale vicinanza a quelle che sono le arene della diplomazia internazionale dove si prendono le decisioni più importanti e dove si ha maggiore possibilità di far sentire la propria voce. Tuttavia non bisogna dimenticare dei prezzi che si pagano per certi “privilegi” e pensare che non sempre è oro tutto ciò che luccica. L’Italia ha sì una maggiore influenza nel Mediterraneo rispetto a qualche anno fa, ma di quale Mediterraneo parliamo? Oggi i Paesi del Sud che si affacciano sul Mare Nostrum formano una zona fortemente depressa, in cui alle difficoltà croniche causate da secoli di sfruttamento coloniale, si aggiunge oggi  un’instabilità politica ed economica indotta dalle guerre e dalle azioni irresponsabili di molti paesi occidentali (le due cause spesso coincidono), annichilisce le grandi opportunità di crescita economica e culturale che sono storicamente e naturalmente appartenenti ai popoli che da secoli abitano le sponde del Mediterraneo. Non può e non deve abbandonarci l’idea e la convinzione che un’Italia protagonista in un Mediterraneo pacificato e politicamente stabile avrebbe un peso specifico completamente diverso rispetto ad un’Italia protagonista in un Mediterraneo di guerra, morte e distruzione.
Lorenzo Gagliano

Fonti:
Onuitalia.com
Public Library of US Diplomacy – WikiLeaks
Nuovi venti di guerra in Libia: il ruolo dell'Ue e dell'Italia - IMESI
Background - Italia-Usa, un rapporto speciale? – ISPI