giovedì 26 marzo 2015

Putin, l'altra faccia della medaglia

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


Putin, l'altra faccia della medaglia



La notizia dell'assassinio di Boris Nemzov nel cuore della capitale russa non ha messo semplicemente in agitazione l'opinione pubblica, ha proprio fatto scoppiare tutti i mass-media del paese. Bisogna in questo caso sottolineare che la notizia della morte del politico russo, in passato Vice Primo Ministro, è stata presentata in tutto il mondo non tanto come la notizia di un assassinio, quanto piuttosto come una valutazione politica dell'accaduto. Passata la foga del momento, però si può iniziare a riflettere sul crimine. Innanzitutto, la figura politica di Boris Nemzov era da tempo in declino. Nemzov ha esercitato la sua influenza nel periodo di Presidenza di Boris Elzin – intorno all'inizio degli anni '90. Oggi il quadro politico russo è composto da nuove figure, da nuovi politici, e se vogliamo dirla tutta, la cosiddetta “minaccia alla politica di Putin” rappresenta piuttosto Navalniy – il blogger russo, noto oppositore ed attivista politico. A chi conviene dunque la tragedia? Probabilmente all'occidente. L'ovest sembra ormai aver acquisito il ruolo del regista principale o piuttosto produttore dell'omicidio sul “Bolshoy Moskvorezkiy”. Diventa quasi palese il tentativo da parte di blogger ed opinione pubblica di costruire i loro argomenti su ciò che la Russia è oggi riferendosi al suo passato, riproducendo le statistiche di Freedom House. Guardiamo, invece, la verità negli occhi! Vladimir Putin già nei primi due anni della sua presidenza, durante il suo terzo mandato presidenziale ha portato la Russia ad un nuovo livello politico e diviene il leader della classifica mondiale, dimostrando che la Russia è in grado di difendere i propri interessi nazionali. Secondo RIA Novosti, il leader russo durante questi due anni, è stato in grado di mobilitare la maggior parte delle forze sociali e politiche del paese intorno ai valori conservatori e di formulare l'idea di un percorso speciale di sviluppo della Russia. Esperti osservano che, dopo le elezioni del 2012, il rating di Putin, non solo non è caduto, come è successo dopo le elezioni, per esempio, con Barack Obama e Francois Hollande, ma anche notevolmente rafforzatoNell'autunno del 2013 in un'intervista con First Channel russo e l'agenzia di stampa americana Associated Press, Putin si è descritto come un uomo pragmatico che condivide la filosofia del conservatorismo. Ma un conservatorismo che guarda al progresso. E di progresso ce n'è stato. Dal punto di vista economico, la Russia può permettersi una politica sociale a sostegno della crescita demografica. Solo per riportare qualche esempio, di recente, il parlamento russo ha lavorato su un disegno di legge volto a sostenere le famiglie numerose garantendo un cospicuo assegno per la nascita di un terzo figlio. Questo è uno dei tanti cambiamenti che si sono succeduti sotto la Presidenza del cosiddetto “tiranno” come l'occidente lo ama chiamare. Ma la "tirannia" del presidente Putin, viene messa in risalto dai mass media occidentali, non tanto per quel che riguarda la politica interna ma sopratutto per quelle che sono le sue scelte in ambito estero. Anche qui è semplice dimostrare quanto è facile sviare l'opinione pubblica. Il riferimento ovviamente è alla crisi in Ucraina. Bisogna tuttavia fare un salto indietro nella storia per capirne la nascita e l'evolversi. Lo stesso nome di questa nazione, Ucraina, dovrebbe di per se farne capire l'importanza geopolitica che ricopre, in quanto la sua traduzione italiana è “sul confine” quindi storicamente è sempre stata terra e meta di conquista. Con le elezioni presidenziali del 2010 e la vittoria riportata da Janukovic, il potere si fece più autoritario con l'intento di ristabilire ordine al caos creatosi in Ucraina dal dopoguerra ad oggi. L'intento del presidente Janukovic era quello di poter ottenere consistenti aiuti economici dal governo russo senza però mai perdere di vista l'obiettivo di entrare a far parte dell'Unione europea. L'eterna indecisione da parte delle nazioni europee nell'accettare o meno l'Ucraina come paese membro hanno portato il presidente Janukovic a chiedere e di conseguenza accettare, prestiti dalla Russia con lo scopo di risollevare una disastrosa e disarmante crisi economica interna. Questo è il motivo che ha portato poi agli avvenimenti di piazza Maidan. La popolazione ucraina filo occidentale e dichiaratamente nazionalsocialista, orchestralmente pilotata da personaggi la cui provenienza non è data sapere, ha portato in quasi tutta l'Ucraina un'estenuante caccia all'uomo “russo, filo russo o di origine russa”. E qui entra potentemente in gioco la macchina dei massmedia occidentali, dipingendo un quadro perfetto immortalando la Bella addormentata Europa che si sveglia e Superman U.S.A. venire in aiuto ad una nazione dilaniata dalla politica estera del dittatore e tiranno Putin il quale nel frattempo attua una politica difensivista, apre le frontiere a tutti coloro che appartengono ad etnie russe e fortifica i suoi confini, cosa che ogni stato sovrano è tenuto a fare. La domanda da fare ci porta all'origine della nostra discussione: perchè questo improvviso svegliarsi dell'Occidente al momento in cui l'Ucraina chiede aiuto alla Russia? Sarà magari per il semplice fatto che non se ne avrebbe più il controllo? Sarà perchè, dopo la caduta dell'impero sovietico, la nuova politica portata in atto dal presidente Putin tendente a far tornare la Russia ai fasti di una grande potenza, fa molta paura a quelli che oggi sono i nostri padroni ovvero gli Stati Uniti? Del resto ricordiamo semplicemente l'origine del nome “Ucraina”: Sul confine.
Anastasia Vasilyeva 

lunedì 23 marzo 2015

Nasce radio Bruxelles la nuova rubrica per raccontare l'Europa

Nasce "Radio bruxelles" 

La nuova rubrica dell'Istituto Mediterraneo Studi Internazionali  per raccontare l'Europa


Da oggi nasce una nuova rubrica, pensata per approfondire i temi, giuridici e politici, della partecipazione italiana all'Unione Europea e, in generale, sull'intera politica istituzionale e normativa dell'Unione stessa. La rubrica sarà curata dall'Ufficio di Segreteria Generale dell'IMESI, coordinato da Marco Caradonna e con la collaborazione di Denise Catalano e Davide Spinnato. Ovviamente, in ragione anche della mia competenza universitaria in materia, non mancheranno i miei contributi. Svilupperemo un percorso di approfondimento sulla nascita dell'Unione Europea, sul suo sviluppo storico, sul suo attuale impianto costituzionale, sul processo di integrazione e adeguamento della normativa interna a quella dell'Unione ed esamineremo anche le più importanti pronunce sia della Corte di Giustizia Europea sia della CEDU. Sostanzialmente, svilupperemo in maniera graduale un piccolo corso on line di Diritto dell'Unione Europea, sicuri di fare cosa gradita a tutti gli studenti che, per diverse ragioni, non hanno avuto la possibilità durante il proprio corso di studi di approfondire queste tematiche ovvero per coloro i quali li stanno già approfondendo. In questo primo numero, inizieremo a definire cosa è l'Unione Europea sul piano del diritto internazionale. Si rimane molto colpiti dal leggere un passo dell'intervento di Winston Churchill, Primo Ministro inglese, nel famoso “discorso alla gioventù accademica” tenuto all’Università di Zurigo nel 1946. Churchill formulo le conclusioni che aveva tratto dalla lezione della storia: “Esiste un rimedio che... in pochi anni renderebbe tutta l’Europa... libera e ... felice. Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei, o in quanto più di essa
riusciamo a ricostruire, e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza ed in libertà. Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d’Europa. ” Già nel 1941, Spinelli e Rossi, con il Manifesto di Ventotene, avevano vagheggiato l'idea della nascita, su base federale, di un unico grande Stato chiamato Europa. Ecco un passo significativo del Manifesto: “ il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali. Gli spiriti sono giù ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell'Europa “. L'idea, quindi, dei padri fondatori di quella che oggi chiamiamo Unione Europea, ( Paul- Henri Spaak, Robert Schuman, Jean Monnet, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer solo per citarne alcuni), era la nascità di una entità sovrastatale che fosse in grado di prevenire la tragedia oggetto delle due guerre mondiali, attraverso la creazione di un'area politica e economica comune, da fare gestire appunto ad una entità sovrastatale, cui cedere parte delle proprie sovranità statuali. E non a caso, infatti, la prima istituzione europea a vedere la luce fu, col Trattato di Parigi del 1951, la CECA, nata dopo la famosa dichiarazione Schuman, rilasciata dall'allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman il 9 maggio 1950, e che proponeva la creazione di una Comunità europea del carbone e dell'acciaio, i cui membri ( paesi fondatori: Francia, Germania occidentale, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo ) avrebbero messo in comune le produzioni di carbone e acciaio. Cinque anni dopo, nel 1957, col Trattato di Roma nascerà una seconda comunità, a carattere più propriamente economico, finalizzata al cd. Mercato comune. Dalla nascita della CECA e della CEE fino alla nascita dell 'Unione Europea, nell'attuale sua formulazione venuta fuori dal Trattato di Lisbona del 2009, progressi e fallimenti si sono susseguiti ed alternati, tra cui certamente, prima di Lisbona, il fallimento dell'adozione di una Costituzione Europea, per l'avversione olandese e francese. Tuttavia, appare assolutamente innegabile il passo avanti, verso una maggiore unione politica, fatto con il Trattato di Lisbona; se è vero che la mancata adozione di una vera e propria Costituzione è stata certamente una occasione mancata, tuttavia l'assetto istituzionale dell'Unione ne è uscito rafforzato: in primo luogo, col superamento dei cd. tre pilastri ( mercato comune, politica estera, giustizia e diritti) si è accentuato il metodo comunitario a scapito di quello intergovernativo, in tal modo rafforzando i poteri degli organi dell'Unione stessa a scapito dei particolarismi dei singoli Stati membri; in secondo luogo, il rafforzamento dei poteri del Parlamento Europeo, sempre più protagonista della politica legislativa comunitaria, ha ulteriormente accentuato il carattere “particolare” dell'U.E. nell'ambito delle organizzazioni internazionali. Uno dei temi, infatti, che ha sempre impegnato gli studiosi di diritto internazionale è quello della definizione dell'Unione Europea. Proprio per le sue peculiarità, essa è certamente una organizzazione internazionale, soggetta alle norme internazionali consuetudinarie e pattizie, avente una propria soggettività giuridica, distinta da quella degli Stati membri; è una organizzazione, tuttavia, sui generis, un ibrido tra uno Stato federale ( l'Unione è l'unica organizzazione internazionale ad avere un organismo legislativo ad elezione diretta, il Parlamento Europeo; inoltre, i suoi atti normativi, tra cui i regolamenti, hanno efficacia piena e diretta in tutti gli Stati, essendo norme cd. self-executing ) e una Confederazione, poiché ciascuno Stato membro dell'Unione è e rimane uno Stato sovrano. La defnizione, allora più calzante sembrerebbe essere quella di “ente sovranazionale”, cioè un ente dotato non di meri poteri di coordinamento degli Stati membri, come avviene ad esempio nella Lega Araba o nell'Unione Africana, ma un ente capace di superare, in quei settori a potestà esclusiva o concorrente, la sovranità del singolo Stato componente. Fermo restando, ovviamente, che lo Stato membro cede “volontariamente” all'Unione parte della propria sovranità; il che comporta che, in ogni momento, lo Stato membro può recedere dal patto “comunitario” e tornare ad avere una sovranità piena. Ed ecco allora riproporsi, anche per l'Unione Europea, il problema del fondamento giuridico dell'obbligatorietà delle proprie norme; che, per il nostro Paese, risiede nell'art. 11 della Costituzione e che, se vogliamo, somiglia molto a quel principio di autolimitazione sviluppato da Hegel e da Jellinek. Su questo tema, tanto difficile quanto affascinante, avremo modo di tornare più avanti.
Dott. Avv. Rosario Fiore
Segretario Generale IMESI
Docente di Diritto Internazionale – UNIPA
con la collaborazione di Marco Caradonna
Coordinatore Uffcio Segreteria Generale IMESI

giovedì 19 marzo 2015

Nemcov, la Russia e le annose derive autoritaristiche della presidenza Putin

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


Nemcov, la Russia e le annose derive autoritaristiche della presidenza putin



Lungi dall’elucubrare su possibili indizi di colpevolezza, e dall’affibbiare visceralmente responsabilità giuridiche, il caso nebuloso dell’omicidio dell’ex vicepremier del governo russo (in carica per un anno a cavallo tra il 1997 e il 1998 ) e cofondatore del partito “Unione delle Forze di Destra” Boris Efimovic Nemcov fa vacillare la già compromessa autenticità della macchina democratica ( almeno formalmente ) russa. Velleitarie risulterebbero le congetture che avallano la tesi di un’operazione destabilizzatrice degli Stati Uniti ( peraltro poco perorata dai media occidentali) o di un tentativo delle opposizioni di minare la stabilità politica della Repubblica federale. Riduttive, o quanto meno semplicistiche, le ipotesi secondo cui l’assassinio sarebbe avvenuto su ingiunzioni provenienti direttamente dalle stanze del Cremino. Risulta più efficiente quindi, provare a tirarsi fuori dalla spirale aporetica a cui si rimarrebbe avvinghiati nel tentativo di soluzione del caso e rivangare alcuni fatti ineluttabili occorsi durante il mandato ormai di lungo corso della presidenza di Putin. In carica dal 2000, prima come Presidente della Federazione fino al 2008, in veste di Primo ministro fino al 2012, e riconfermato Capo dello Stato successivamente, Putin ha avviato una serie di riforme legislative volte a circoscrivere in maniera via via crescente gli spazi democratici del paese. Dalla parziale censura della rete, alla reintroduzione di norme specifiche contro le opposizioni, senza escludere il monopolio della stampa ( il paese è al centocinquantaduesimo posto nella classifica sulla libertà d'informazione), il leit motiv assolutistico sembra essere incontrovertibile. Di seguito, un elenco sommario degli eventi più discutibili che evidenziano come il cambiamento rispetto all'epoca storica del regime sia quasi gattopardesco.
2000. Anno della sua ascesa al potere, Putin fa subito la voce grossa. In pochi mesi vara un'iniziativa legislativa che rimuove i governatori regionali dai loro scranni in Parlamento a cui avevano accesso ex officio e crea nuovi distretti federali ( o super regioni ) con i membri a capo nominati arbitrariamente dal Cremlino col compito di monitorare l'operato delle regioni. La norma verrà inasprita nel 2004, quando in seguito ad un catastrofico attacco terroristico in Cecenia, vengono portati avanti una serie di emendamenti costituzionali che abrogano l'elezione democratica dei governatori regionali, d'ora in avanti alla mercé del potere centrale. La situazione tornerà alla normalità nel 2012, quando verranno ripristinate le elezioni regionali, ma solo negli organi amministrativi i cui mandati sarebbero terminati lo stesso anno. Esito: si è votato in sole cinque regioni.
2001. Gazprom, colosso aziendale a partecipazione pubblica, rileva il controllo della stazione televisiva NTV e licenzia lo staff del settimanale Itogi. Anche il quotidiano Sevodnya chiude i battenti su diktat dell'azienda. Parallelamente, nuove norme regolamentano l'attività degli inviati di guerra in Cecenia: durante le attività di reportage è sempre necessario l'accompagnamento di un addetto all'ufficio stampa del Ministero degli Interni.
2002. L'ultima rete televisiva privata, Tv-6, sospende i servizi su ordinanza della corte d'arbitraggio di Mosca, in seguito ad intimazioni del governo. La corruzione nel frattempo dilaga: un think tank con sede a Mosca stima un ammontare di trentasette miliardi di dollari spesi annualmente in tangenti.
2003. Viene promulgata una legge che mina sensibilmente la libertà di cronaca, ove notizie critiche sui candidati alle parlamentari dello stesso anno, avrebbero compromesso la permanenza sul mercato delle agenzie di stampa e di aver sviscerato informazioni potenzialmente destabilizzanti. La Corte Costituzionale successivamente revisiona la norma, in alcune parti troppo restrittiva, ma ciò non è sufficiente a restituire un tenue accenno di trasparenza alla campagna elettorale.
2004. Le autorità continuano nella loro opera di disincentivazione delle attività di figure poco prone a legami di subordinazione istituzionali. Ad Aprile, il ricercatore Igor Sutyagin è condannato a quindici anni di detenzione per aver rivelato segreti militari a servizi d'Intelligence stranieri. Poco tempo dopo, sorte analoga tocca al fisico Valentin Danilov: svelati alcuni segreti in materia di innovazione tecnologica alla Cina, la pena per lui ammonta a quattordici anni di prigionia. Messaggi in codice abbastanza chiari, atti a scoraggiare ogni tipo di contatto tra accademici russi e stranieri.
Sotto torchio in numerosi atti legislativi anche l'attività delle ONG, che avendo un raggio d'azione ben al di là dei confini nazionali, esulano dai vincoli legislativi statali. Non nel caso della Russia. Nel 2006 è emesso un atto legislativo che concede ai burocrati ampia discrezionalità nella registrazione delle organizzazioni e inserisce parametri onerosi quale criterio per il loro riconoscimento giuridico. Nel 2009 ne viene soppressa l'esenzione fiscale: a partire dall'anno successivo il prelievo ammonterà al 24 %. dei ricavi.
L'anno successivo, la polizia ispeziona più di quaranta sedi per accertarsi che le adempienze alla legislazione statale siano effettive. Nel 2012, la Duma approva il testo sui “Foreign Agents”, che applica restrizioni alle Ong sovvenzionate da fondi stranieri, rendendole suscettibili di ispezioni improvvise da parte delle autorità.
Glissando sulle innumerevoli scomparse misteriose di giornalisti e attivisti per i diritti civili che lungo il corso degli anni si sono schierati a favore di un paese più liberale, permane un punto interrogativo storicamente insolubile: oberata eternamente dall'uomo solo al comando, come può essere la Russia ontologicamente incapace di mettere su una struttura decisionale meno verticistica e che coinvolga trasversalmente tutta la società?
Federico Mazzara

lunedì 9 marzo 2015

Palestina: il discutibile contributo italiano ad una battaglia lunga un secolo

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni

Palestina: il discutibile contributo italiano ad una battaglia lunga un secolo


Francia, Germania, Svezia, Gran Bretagna, Italia. Stati nazione, o “Stati di diritto”, meglio noti. Stato di Palestina. Qualcosa stride già nel nome. Vi è in realtà una battaglia lunga un secolo, alle spalle di questo territorio, che spiega perfettamente la ragion d’essere di tale nuisance. Una battaglia suo malgrado senza speranza, se consideriamo quanto possa essere utopica l’impresa di accogliere le ragioni di due popoli che “dialogano” a colpi di guerriglie per aver riconosciuta la propria unicità sul suolo. Un territorio pur sempre popolato da vite umane, le stesse che in tutti gli stati del mondo sono oggi portatrici dei più alti valori di dignità trasmessici dai nostri Padri Costituenti, eppure ancora indifferente all’idea di aver versato tanto sangue. Ma è nel riconoscere questi dati di fatto che ci rendiamo conto di quanto possa risultare semplicistico affibiare le colpe di tale atteggiamento all’intrinseca natura dei suoi abitanti, quasi che i loro geni contenessero i demoni della distruzione, o peggio, ad una singola causa. Quella che oggi passa alla storia sotto il nome di questione israelo – palestinese è figlia di una serie di motivazioni storico - religiose che si susseguono perfette come gli anelli di una catena inossidabile. Che l’arrivo degli Ebrei, successivo alla seconda guerra mondiale, si possa considerare dalla prospettiva araba come un’invasione immotivata, è un dato di fatto. È tutt’altro che ragionevole pretendere di riappropriarsi con la forza di un territorio, soltanto perché duemila anni prima vi hanno abitato i propri antenati. D’altro canto, Israele non a torto rivendica il riconoscimento della propria nazione che trae la sua esistenza non da un mero atto di forza ma da una risoluzione dell’Onu, e dunque riponendo le origini della sua natura legale nella comunità internazionale. Tra l’altro non è mai esistito un popolo palestinese in quanto tale, ma solo una vastissima comunità di arabi stanziata su un immenso territorio. Perciò la formula “due popoli per due nazioni” sembra, alla luce di quanto detto, pura retorica dissacrante. Queste sono solo alcune premesse per dimostrare quanto quello israelo-palestinese sia tutt’altro che catalogabile in una sbrigativa etichetta e per poter asserire che si tratti di un conflitto senza precedenti storici, motivo per cui una soluzione unica per tutti sembra oggi quasi impossibile da ottenere. Ma cosa si intende per Stato di Palestina? Oggi lo “Stato di Palestina”, che deve il suo infelice battesimo alla retorica dell’esclusione, raccoglie i territori palestinesi divisi della Cisgiordania e della striscia di Gaza, oltre al Libano, parte della Siria e della Giordania. La sua indipendenza è stata sancita dalla maggior parte degli Stati europei, i quali hanno decisamente subito l’influenza della Svezia come di chi con perfetta non chalance apre le danze, oltre che dalle Nazioni Unite le quali con la risoluzione 67/19 del 29 Novembre 2012 gli hanno riconosciuto lo status di “Osservatore permanente”, seppur non membro. Si ricorda inoltre il riconoscimento dall’Unesco a far data dal 31 Ottobre 2011 e per ultimo in tempistica, ma non per importanza, quello avvenuto dal Parlamento europeo il 17 Dicembre 2014 con la risoluzione 2014/2964. Sarebbe questo il lungo e faticoso percorso che negli anni sta concedendo alla Palestina di ottenere il proprio posto nel mondo. E l’Italia? Quale ruolo per un governo che fa da spettatore a un teatro dilaniato da tali e tante contraddizioni? Volgendo uno sguardo ai numeri, è datato 27 Febbraio 2015 il riconoscimento della Palestina da parte della Camera dei deputati. Più precisamente, sono state presentate ben sei mozioni, delle quali soltanto due sono state, alla fine, votate. La prima, proveniente dal Partito Democratico ed alla quale ha deciso di convergere Sinistra Ecologia e Libertà, più esplicita, prende la freccia rossa per raggiungere la quanto mai irrisolta questione israelo-palestinese, nonostante si limiti a chiedere che il governo lavori a questo scopo. Essa, di fatti, impegna l’Esecutivo “a continuare a sostenere in ogni sede l’obiettivo della costituzione di uno Stato palestinese che convive in pace, sicurezza e prosperità accanto allo Stato di Israele…” L’altra, proposta dalla coalizione moderata Area Popolare e Nuovo Centro Destra, benché se ne dica il contrario, non presenta alcuna somiglianza con la precedente. Anzi subordina il riconoscimento della Palestina ad un accordo politico fra le parti; una mossa che ottiene l’approvazione di Israele, il quale considera quella del negoziato l’unica via per intraprendere un cammino di pace. Si citano testuali parole nella mozione: “S’impegna il governo a promuovere il raggiungimento di un’intesa politica tra Al Fatah e Hamas per cui, attraverso il riconoscimento dello Stato di Israele e l’abbandono della violenza, si determinino le condizioni per il riconoscimento di uno Stato Palestinese.” Cosa è successo, dunque? Alla resa dei conti il nostro governo si è trovato ad approvare un voto che presenta un esito duplice e contrapposto, grazie al quale ben si spiega l’esultanza dell’ambasciata israeliana e di quella palestinese che si ritrovano, subito dopo il discorso del nostro ministro degli Esteri alla Camera, a ringraziare entrambe il governo italiano. Non sarà che l’Italia faccia il doppio gioco, che insomma decida per non decidere? La domanda cui non si può rifuggire, e che risulta quanto mai banale ma allo stesso tempo urgente, attiene dunque alla veridicità del nostro operato. Considerando infatti il lungo percorso, di cui sopra, intrapreso dai territori israelo-palestinesi, ed ormai quasi del tutto accettato dal regime internazionale, l’ambiguità che si cela dietro la doppia risposta italiana appare assai stridente e non fa affatto pensare ad una volontà di mettere d’accordo le due parti al governo, per evitare una spaccatura, così come giustificato dall’Onorevole Paolo Gentiloni.
Giulia Guastella

venerdì 6 marzo 2015

La Mafia dell'antimafia e i paladini della legalità: di chi possiamo fidarci?

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

La Mafia dell'antimafia e i paladini della legalità: di chi possiamo fidarci?

a cura di Rosario Fiore, docente di Diritto internazionale Unipa
e Gabriele Messina Presidente I.ME.SI



Questi sono giorni difficili, anzi difficilissimi, per l'antimafia siciliana. Prima la notizia di una delicatissima indagine della DDA di Caltanissetta nei confronti di Antonello Montante, leader di Confindustria Sicilia e delegato nazionale per la legalità, componente dell'Agenzia per i beni confiscati alla mafia, con l'accusa pesantissima di concorso esterno di tipo mafioso; poi il recente arresto del potente Presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, paladino della legalità e sostenitore degli imprenditori estorti, arrestato in flagranza di reato per una triste vicenda di estorsione; infine la bocciatura, da parte del CSM, del Procuratore Aggiunto della DDA di Palermo, Nino Di Matteo, per un incarico alla Procura Nazionale Antimafia. Come se non bastasse, il Presidente della Commissione Bicamerale Antimafia, Rosy Bindi, in questi giorni impegnata con gli altri commissari proprio in Sicilia, ha dichiarato che "la Commissione antimafia farà un'indagine sul movimento antimafia, con grande serenità e con intenti non polizieschi, ma politici. Daremo il nostro contributo al Paese affinché il ruolo dell'antimafia sia un punto di riferimento nella lotta alla mafia". Già, il movimento antimafia! Molti, forse troppi, in questi anni hanno costruito le proprie fortune imprenditoriali e politiche sotto la bandiera della lotta alla mafia. Già, Leonardo Sciascia, nel lontano 1987, in una celebre intervista al Corriere della Sera, per primo parlò di “professionisti dell'antimafia”, riferendosi a coloro i quali, magistrati compresi, utilizzavano la lotta alla mafia per il proprio tornaconto, ovvero come pregiatissimo strumento per tutelare o avvantaggiare i propri interessi personali. Oggi, quelle parole di Sciascia tornano di grande attualità. Quanti imprenditori in Sicilia hanno aumentato i propri vantaggi economici predicando – e solo predicando - la lotta a Cosa Nostra? Quanti esponenti della classe politica hanno raggiunto posti di rilievo istituzionale sull'onda dell'antimafiosità? Tantissimi, dai vertici di Confindustria Sicilia fino ad arrivare al Presidente Crocetta e al suo mentore, il re di Palermo Beppe Lumia. Tantissimi si sono riempiti la bocca di belle parole parlando di legalità e antimafia, persino insospettabili finiti poi alla ribalta delle cronache. Ma di fronte ai recenti fatti di cronaca resta un nodo drammatico e complicato da sciogliere: di chi possiamo fidarci? Ecco, oggi il rischio di una antimafia di facciata, che predica protocolli di legalità, e poi magari fa affari con Cosa Nostra oppure si serve dei voti di Cosa Nostra è un grande pericolo, per la società e per la democrazia. A questa antimafia delle carriere e dei privilegi, a questa “mafia dell’antimafia”, come direbbe Pietrangelo Buttafuoco, preferiamo una antimafia vera. Una antimafia dei doveri e dei diritti, quella che hanno fatto Falcone e Borsellino e che oggi porta avanti il Procuratore Nino Di Matteo con grande coraggio e determinazione. 

giovedì 5 marzo 2015

Addio ad Alessandro Argiroffi



Addio ad Alessandro Argiroffi




L'Istituto Mediterraneo Studi Internazionali esprime tutto il suo cordoglio per la scomparsa del Professor Alessandro Argiroffi, docente di lungo corso presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli studi di Palermo. Ci lascia prematuramente un docente preparato nonché un uomo di alto spessore.

domenica 1 marzo 2015

L’intervento militare non è un rimedio ai fallimenti in politica estera

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

L’intervento militare non è un rimedio ai fallimenti in politica estera
a cura del Prof. Fulvio Vassallo Paleologo, Università degli studi di Palermo


Sono giorni in cui stanno cambiando molte cose con una tale velocità che diventa persino difficile scriverne. Alcuni fatti erano già prevedibili, come la deflagrazione della Libia, dopo anni di politiche pavide e contraddittorie, culminate nel "Processo di Khartoum", opera del governo italiano nel semestre di presidenza dell'Unione Europea. L'Italia è riuscita puntualmente a schierarsi dalla parte sbagliata, come già aveva fatto con Karzai in Afghanistan, ed in Libia ha perduto ogni credibilità dopo la frettolosa archiviazione della richiesta, giunta da più parti in conflitto, di una mediazione da affidare a Prodi. Il vero artefice del riallineamento della Libia a livello mondiale, quando a partire dal 2004 veniva sospeso l’embargo e riprendeva il commercio internazionale.
Ma oggi non sembra più tempo di mediazioni di pace. E’ ormai guerra globale, dalla Nigeria all'Ucraina, dalla Libia alla Danimarca, una serie di conflitti armati che si intrecciano sempre più con episodi di terrorismo, da Parigi e Copenaghen, a Derna, in Libia, o ad Alessandria in Egitto. Una partita difficile, che si gioca su scenari diversi, nei paesi di transito, nelle zone di guerra, nei territori dell'Europa di Schengen, nelle città soprattutto, dove tra le seconde generazioni ed i nuovi convertiti all’Islam, cresce il consenso verso le formazioni islamiste armate. Piuttosto che tra i migranti appena arrivati, i veri rischi per la convivenza pacifica e la coesione sociale si annidano nel tessuto urbano dei paesi occidentali, luoghi di lacerazione crescente anche per effetto di una crisi economica devastante, culmine di processi di esclusione e di marginalizzazione che hanno colpito ovunque i ceti più deboli e tra questi gli immigrati.
In Libia intanto è guerra aperta tra le diverse milizie armate e si avvicina uno scontro, a Misurata, che potrebbe essere cruciale per l'esito finale del conflitto in corso. Dopo le sortite interventiste di Gentiloni e della Pinotti, Renzi ha tirato il freno, ma la frittata ormai è fatta. I problemi in Libia non nascono all’improvviso negli ultimi mesi, ma discendono dalla gestione puramente economica del dopo-Gheddafi, con il ruolo di rappresentanti del governo italiano, come di altri governi, a gruppi di multinazionali. La politica estera italiana è stato di fatto appaltata ai vertici della grandi società che operavano in Libia. Nel tentativo di contrastare l'avanzata delle milizie islamiste, in questi ultimi mesi, ci si è affidati a regimi dittatoriali, e si è abbandonata  l'opposizione democratica e la nascente società civile che, dopo la stagione delle "primavere arabe" nel 2011 aveva cercato con diverse modalità, dalla Siria all'Egitto ed ancora dalla Libia al Marocco, di costruire una alternativa alle dittature, militari o religiose che fossero. Si è preferito ricorrere al generale Haftar che intendeva "normalizzare" la Libia con i bombardamenti aerei, piuttosto che fornire un supporto effettivo al faticoso percorso di pace avviato dalle Nazioni Unite con i colloqui a Ginevra tra le diverse fazioni che si contendono la Libia. Ed adesso i bombardamenti di Haftar sono supportati dai caccia egiziani.
Adesso lo "stato di guerra" alimenta le spinte più pericolose, dalla prospettiva di un intervento armato in Libia, caldeggiato dai vertici militari egiziani, fino alla caccia al "nemico interno" nei territori dell'Unione Europea, soprattutto dopo i più recenti attentati. I rischi di una islamofobia di massa sono sempre maggiori, e la società civile europea rischia una frammentazione senza precedenti. Perchè ormai gli immigrati e le comunità musulmane sono parte costituente della società europea, non saranno certo eliminabili con bandi o misure di stampo repressivo. La vera sfida oggi sta tutta nella capacità di raccordare, nel rispetto delle differenze, di aumentare la conoscenza, l'ascolto, il confronto, di costruire un fronte unico contro la violenza di qualsiasi matrice sia. Una partita che si gioca in Europa, che deve servire anche a smorzare le spinte interventiste e che deve comportare una svolta nella politica estera fin qui adottata anche dal nostro paese.


Per approfondire  tematiche relative all'immigrazione è possibile consultare anche il blog:  www.dirittiefrontiere.blogspot.it a cura del  Professor Fulvio Vassallo Paleologo