lunedì 29 febbraio 2016

Not about defence, not about common: le difficoltà dell'UE nei confronti della politica di sicurezza e difesa comune

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Not about defence, not about common: le difficoltà dell'UE nei confronti della politica di sicurezza e difesa comune


Nel corso della riunione del 24 febbraio 2015 la Commissione per gli affari esteri del Parlamento europeo(AFET) ha sottolineato la necessità di rendere la politica estera dell’Unione europea più ambiziosa, proattiva, credibile e strategica. Di fronte ai limiti fissati dai trattati, dalla capacità degli Stati membri e dei loro interessi nazionali, l'istituzione di una sicurezza comune e di una politica di difesa rimane molto difficile. Procedendo in tre tappe, questo articolo si propone di mostrare, in un primo momento, le priorità definite dai programmi di politica estera soprattutto dopo l’avvento di nuove sfide presenti nell'agenda dell'Unione, in particolare la crisi migratoria nel Mediterraneo. In in secondo momento ci sarà un approfondimento dei limiti della PSDC, imposti dal trattato sull'Unione europea (TUE). Infine, analizzeremo l'operazione EUNAVFOR MED, mettendo in evidenza l'impatto dei limiti nel caso specifico.

Le nuove priorità della politica di sicurezza e di difesa comune
La politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) dell'Unione europea è parte integrante della sua politica estera e di sicurezza comune (PESC). Essa comprende la definizione progressiva di una politica europea di difesa comune che mira a consentire all'UE di sviluppare le sue capacità militari e portare avanti delle missioni al di fuori dei suoi confini ai fini del mantenimento della pace, della prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite. Nel 1992, fu il Trattato di Maastricht a prevedere per la prima volta una politica di difesa propria dell’unione. Tuttavia, lo sviluppo di quest’ultima è stato rallentato dal Regno Unito, il quale vedeva nell’ipotetica politica di difesa comune una perfetta concorrente della NATO (e dei suoi interessi). È stato solo dopo il vertice franco-britannico di Saint-Malo il 4 dicembre 1998 che la situazione si sblocca e nasce la PESC: la "Politica europea di sicurezza e di difesa". Nei primi mesi del 2015, la commissione per gli affari esteri del Parlamento europeo ha sostenuto che la PESC avrebbe dovuto basarsi su tre punti fondamentali:
-Sostenere i vicini orientali e contenere la Russia: lo scopo era quello di investirsi sui programmi d'indipendenza, di sovranità, di democratizzazione dei paesi che desideravano avvicinarsi all'Unione.
-Rafforzare la sicurezza e la stabilizzazione dei paesi del sud con l'obiettivo di promuovere la sicurezza, la democrazia, i diritti umani e la protezione delle minoranze etniche e religiose.
-Migliorare la difesa e sicurezza: lo scopo era quello di sollecitare tutti gli Stati membri a impegnarsi di più per la realizzazione di una politica estera efficiente ed efficace.
Al fine di rispondere ai nuovi scenari geopolitici, alle minacce e le sfide globali, pochi mesi dopo gli eurodeputati avevano chiesto l'adozione di una strategia comune per affrontare le nuove sfide della sicurezza dell'UE. Infatti la commissione per gli affari esteri aveva sottolineato due questioni fondamentali. Da un lato, la capacità dell'Unione di intervenire nella gestione dell'intero spettro di una crisi, e non solo concentrarsi negli strumenti post-conflitto, e dall'altro lato, la capacità degli Stati membri di dimostrare un impegno, e solidarietà al fine di fornire una maggiore forza al livello economico e militare. Di fronte alle nuove sfide, il Consiglio europeo ha deciso di pronunciarsi. In effetti, il 23 aprile 2015, in nome dei principi dell'Unione europea, il Consiglio europeo, in una riunione speciale, ha affermato che la priorità era la gestione della crisi nel Mediterraneo, e che bisognava impegnarsi a:
-Rafforzare la presenza in mare migliorando le operazioni Triton e Poseidon
-Lottare contro la tratta conformemente al diritto internazionale esortando gli Stati membri a collaborare con Europol, Frontex, l’uffucio europeo di sostegno per l'asilo (UESA), e Eurojust,
-Prevenire l'immigrazione irregolare intensificando la cooperazione con i partner africani, e con la Turchia,
-Rafforzare la solidarietà e la responsabilità interne a vari livelli per garantire la sicurezza dell'Unione.
Le dichiarazioni sono diventati delle conclusioni ufficiali il 18 maggio 2015. Il Consiglio era ben consapevole del fatto che bisognava fissare obiettivi precisi per la PESD. Quel giorno infatti aveva sottolineato l'importante contributo che le missioni PSDC portavano per le operazioni di pace e per la stabilità internazionale, ma aveva anche affermato la necessità di migliorare l'efficacia, l'impatto e visibilità. Alla fine, si può dire che durante la prima metà del 2015, le istituzioni hanno voluto migliorare la politica estera dell'UE in termini pratici. Per questo motivo, le commissioni parlamentari, il Consiglio europeo e il Consiglio d'Europa hanno deciso di intraprendere un modo per rendere la politica di sicurezza e di difesa davvero "comune". Tuttavia, sembra importante chiarire i limiti imposti dal trattato sull'Unione europea (TUE), che ostacolano ogni tipo di iniziativa che potrebbe rendere l'Unione europea una potenza in grado di garantire la sicurezza, non solo all'interno ma anche al di fuori dei suoi confini stessi.

Not about defence, not about common: i limiti imposti dal Trattato sull’Unione europea (TUE)
La PSDC nasce a causa di tensioni diverse: la tensione tra la Francia e il Regno Unito sulla direzione della politica estera, la tensione tra l'UE e gli Stati Uniti sulle misure da adottare durante un conflitto, tra i paesi pro-NATO e i paesi dell'Est. L'istituzione di una politica di difesa era necessaria al fine di poter creare un programma per mettere d’accordo tutti i paesi dell'UE. Tuttavia, anche dopo le Saint Malo le tensioni non hanno visto la loro fine. Le cause delle debolezze dell'azione esterna sono rintracciabili negli art. 42 e 43 del trattato sull'Unione europea, già leggendo l'art. 42§2 il concetto di difesa è già in questione:
La politica dell'Unione a norma della presente sezione non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri, rispetta gli obblighi di alcuni Stati membri, i quali ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite l'Organizzazione del trattato del NordAtlantico (NATO), nell'ambito del trattato  dell'Atlantico del Nord, ed è compatibile con la politica di sicurezza e di difesa comune adottata in tale contesto.
Questo dimostra che gli Stati membri vogliono che la PSDC non cambi le loro politiche estere, o i rapporti già instaurati con la NATO. Così la PSDC è percepita come una politica di supporto alla NATO o degli Stati membri, in quanto li aiuta in missioni che risultano troppo costose, o per le quali un singolo paese non possiede i mezzi. Quindi è chiaro che nessuno vuole che la PSDC sia considerata una minaccia per gli interessi nazionali. Inoltre, art. 43 stabilisce che l’UE può impegnarsi in missioni che:
[…] comprendono le azioni congiunte in materia di disarmo, le missioni umanitarie e di soccorso, le missioni di consulenza e assistenza in materia militare, le missioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace e le operazioni di stabilizzazione al termine dei conflitti. Tutte queste missioni possono contribuire alla lotta contro il terrorismo, anche tramite il sostegno a paesi terzi per combattere il terrorismo sul loro territorio.
Tuttavia, dobbiamo considerare che la PDSC non ha i mezzi e le capacità per gestire un conflitto su larga scala per i motivi sopra citati. Di conseguenza, tutte le operazioni intraprese dall'UE hanno bisogno di un sostegno "esterno". Ciò significa che le operazioni richiedono la cooperazione dell'ONU o la NATO. Per quanto riguarda il concetto di comune, bisogna considerare tre punti fondamentali:
-Secondo il TUE gli Stati membri contribuiscono alle operazioni volontariamente
-La Danimarca ha espresso fin dall'inizio che non avrebbe partecipato all'elaborazione e attuazione delle azioni della PSDC,
-Gli Stati membri hanno differenti capacità militari, e inoltre mettono a disposizione della PDSC dei mezzi che non sono realmente proporzionati alle loro capacità.
Questo dimostra che, alla fine la PSDC ha bisogno di essere ristrutturata, armonizzata, e considerata come vero potenziale da tutti gli Stati membri al fine di garantire la sicurezza dell'Unione.

Il caso EUNAVFOR MED
L’operazione EUNAVFOR MED è una missione condotta dall’Unione europea nel Mediterraneo centrale, istaurata dopo i naufragi che hanno fatto centinaia di vittime. Il 18 maggio 2015 i ministri degli affari esteri e della difesa degli Stati membri hanno deciso di mobilizzare una operazione navale volta a smantellare le reti di trafficanti nel Mediterraneo, al fine di salvare vite umane in mare.  Lo scopo era anche quello di testare l'efficacia della PSDC davanti le nuove minacce. Il 23 aprile 2015, il Consiglio ha annunciato che l'UE ha mobilitato tutti gli sforzi per evitare naufragi futuri, e che l'operazione avrebbe avuto inizio nel mese di giugno. L'operazione è stata composta da tre fasi:
-La prima fase si concentra sul monitoraggio e il contrasto della tratta umana nel Mediterraneo centrale (dal 22 giugno al 7 ottobre 2015).
-La seconda fase dell'operazione ha come obiettivo il controllo e la tracciabilità delle navi sospette (fase in corso).
-La terza fase, ancora da painificare, permetterebbe la rimozione delle navi e delle risorse correlate, e la cattura dei contrabbandieri e trafficanti.
All'inizio dell’operazione 22 di 28 Stati membri hanno contribuito con assistenza logistica ed economica. Il budget del progetto è 11.820.000 milioni di euro, previsto per un periodo di 12 mesi. Durante la prima fase 7 paesi su 22 partecipanti hanno mobilitato dei mezzi navali militari: l’Italia (con la porta-aerei Cavour), il Belgio (con la Fregata Karel Doorman), la Francia (con la fregata La Fayette), la Slovenia (con la nave da pattuglia Svetlyak), la Spagna (con la fregata Santa Maria), la Germania (con nave Berlin), e il Regno Unito (con la fregata tipo 23). Durante la seconda fase dell'operazione, iniziata l’8 Ottobre, 2 Stati si sono aggiunti all’operazione in mare aperto, e sono stati dispiegati 7 mezzi aerei in più. Come detto in precedenza l'Unione europea non ha creato questa operazione come "Unione"; gli Stati che partecipano sono stati che vogliono, più di altri, contenere i flussi migratori nei loro territori. Inoltre, i mezzi utilizzati non sono dello stesso livello: alcuni stati membri hanno fornito le navi, altri forze aeree, altre forze navali e aeree, e altri hanno contribuito finanziariamente. Ora l'operazione è bloccata tra due limiti: da un lato, da Roma (centro operativo dell'operazione) attendono l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza per iniziare la terza fase della missione, d'altra parte, il 16 febbraio 2016 le navi della Nato sono entrate nell’Egeo sotto richiesta di Grecia,Germania e Turchia (la quale beneficierà di 3 miliardi di euro, stanziati dai fondi dell’Unione e dagli Stati membri) e fino ad ora non vi è alcun livello di cooperazione tra le due operazioni, anche se l'obiettivo è lo stesso. La necessità di un intervento NATO non è un evento eccezionale, dal momento che a causa delle limitazioni poste dagli articoli 42 e 43 del TUE ancora si ha il bisogno di aiuto "militare". A questo punto non resta che chiedersi che tipo di potere è l'Unione europea, e in particolare quali sono gli sviluppi per migliorare la PSDC.
Maria Elena Argano



Per saperne di più:
· Stephan Keukeleire, Tom Delreux, The Foreign Policy of the European Union, “The common security and defence policy”, Palgrave Macmillan, The European Union Series, 2014, pp. 172-195
· Commission des affaires étrangères «L’UE doit libérer son potentiel interne pour façonner les politiques internationales»: 
· Commission des affaires étrangères «L’UE doit s’adapter sans plus tarder aux nouveaux défis de sécurité»: 
· Conseil de l’Union européenne «Conclusions du Conseil sur la PSDC» : http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-8971-2015-INIT/fr/pdf
· Conseil européen et Conseil de l’Union européenne «Réunion extraordinaire du Conseil européen – déclarations»: http://www.consilium.europa.eu/fr/press/press-releases/2015/04/23-special-euco-statement/
· Site de l’EEAS «Lutte contre le trafic de clandestins en Méditerranée : l’UE décide de mener une opération navale»:http://eeas.europa.eu/top_stories/2015/190515_fac_defence_fr.htm

L'Iran del dopo elezioni: un paese destinato a cambiare volto o illusione di un sogno mai realizzato?

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

L'Iran del dopo elezioni: un paese destinato a cambiare volto o illusione di un sogno mai realizzato?


Da venerdì 26 febbraio l'Iran si tinge di un colore mite: quello della moderazione. Sembra infatti che il paese stia respirando l'humus di un cambiamento sul quale la politica iraniana ha gettato i semi già da diversi anni. E profuma di nuovo anche l'Assemblea degli Esperti che, nell'obiettivo di rinnovare i suoi candidati, introduce ora la componente femminile. Secondo quanto riportato da fonti interne e ufficiali sembrano ammontare già a tredici le donne iraniane elette. Il dato per lo più fondamentale è che buona parte di tali risultati andrebbero a incidere anche sul piano dei rapporti internazionali - soprattutto con riguardo alla questione delle sanzioni imposte al paese per il suo contestato programma nucleare - , sul futuro delle libertà personali e sociali dei cittadini iraniani, di movimento e di espressione, ormai notoriamente monopolizzate dai principali uomini politici che non permettono nemmeno il più semplice accesso ai social networks, nonché sull'esito della prigionia di Hasan Karroubi e Mir Hossein Mousavi, i leader del movimento Onda Verde costretti ai domiciliari dal 2011 per aver protestato contro un apparato legislativo decisamente obsoleto, seppur in attesa di una liberazione tanto promessa dal Presidente Rouhani.  Ma prima di avviare qualsiasi pronostico, può risultare utile approfondire alcuni concetti - chiave nel quadro delle presenti elezioni, specialmente in vista di un esito parzialmente definitivo previsto solo per lunedì.
Il Majiles, cos'è?
Per quanto rappresenti l'organo del potere legislativo, il Parlamento iraniano condivide la sua funzione con il Consiglio dei guardiani. Quest'ultimo è un organo costituzionale composto per metà da teologi e per metà da giuristi ed ha il compito di vegliare sulla conformità delle norme prodotte dal Parlamento alla Costituzione e all'Islam. Con riguardo alle elezioni presidenziali, il Consiglio vaglia la validità delle candidature. Tutto ciò lascia presagire dunque quale ruolo preponderante occupi all'interno degli automatismi politici iraniani; e come tale "condivisione delle funzioni" segni, secondo diversi studiosi, il destino di un'istituzione quasi priva di utilità. Si badi a non dimenticare, comunque, che il Parlamento deve approvare la nomina e l'operato dei ministri e che può altresì costringerli alle dimissioni. In altri termini, può ostacolare (cosa che ha fatto negli ultimi anni) o favorire la politica del governo dell'attuale presidente. Nelle elezioni correnti, i voti raccolti durante l'affollamento della popolazione iraniana alle urne sembrano propendere per la formazione di una compagine moderato - riformista (con buona pace del fronte conservatore, spalleggiato dall'ayatollah Ali Khamenei, nel ruolo di Guida Suprema) laddove dei 290 seggi parlamentari 96 sono ormai di proprietà riformista contro i 91 rimasti ai fondamentalisti. Agli indipendenti sono andati invece 25 seggi. Tuttavia, per i restanti 52 si dovrà aspettare di andare al ballottaggio alla fine di aprile.  Non sorprenderà scoprire che il ruolo dei riformisti resta abbastanza marginale: la vera partita si giocherà tra l'asse Rouhani-Rafsanjani e quello Khamenei-Pasdaran, dunque tra moderati e conservatori o, per dirla in termini europei, tra centro e destra. Il centro - sinistra resterà un sogno non completamente irrealizzabile ma certo ben lontano per un paese ancora confuso sulla direzione del proprio futuro politico. Prova ne è il fatto che dei tremila candidati di stampo riformista che hanno fatto domanda - compresi entro i totali dodicimila, insieme ai rivali dell'area moderata - soltanto 50 sono sopravvissuti alla scure del Consiglio dei guardiani riuscendo ad ottenere la "qualificazione". Come se non bastasse, i conservatori partivano già da una posizione di netto vantaggio grazie ad un maggior numero di candidati nell'area elettorale, oltre a dichiararsi irremovibili nell'obiettivo di mantenere la maggioranza in Parlamento così da poter esercitare la loro superiorità politica anche all'interno dell'Assemblea degli Esperti.

L'Assemblea degli Esperti, quale ruolo?
Formata da 88 mujtahids (teologi dell’Islam) nei prossimi otto anni, ovvero la naturale durata del loro incarico, potrebbe essere chiamata ad eleggere una nuova Guida Suprema. E ne sarebbe ben lieta la popolazione iraniana. Ma al di là di qualsiasi preferenza politica di massa, sembra vera la malaugurata notizia che riporta gravi condizioni di salute per la Guida della Rivoluzione Ali Khamenei. Il ruolo della Guida Suprema è centrale in Iran, molto più di quanto lo sia quello  dei presidenti o dei primi ministri di qualsiasi democrazia occidentale, tanto da rimanere in carica a vita salvo per particolari eccezioni. Fin dalla fondazione della Repubblica islamica dell'Iran, il paese ha annoverato solo due Guide Supreme, ormai passate alla storia quasi fossero delle istituzioni: l'Ayatollah Ruhollah Khomeini e Ali Khamanei, attualmente in carica dal 1989. Ma cosa succede durante le elezioni del 2016? Quali sono i meccanismi politici e sociali che scattano e, last but not least, quali saranno le conseguenze del dopo elezioni sul piano internazionale per l'Iran?

Elezioni femminili e stop al conservatorismo, le due grandi novità
Attualmente tredici donne risultano elette nel nuovo Parlamento. Erano circa 500 le candidate su un totale di quasi cinquemila aspiranti deputati. Per l'Assemblea degli Esperti invece, il Consiglio dei Guardiani aveva bocciato tutte le domande presentate da una ventina di religiose. Ma la novità delle quote rosa, nella Repubblica orientale non proprio avulsa da atteggiamenti sessisti, è talmente dirompente che il Presidente ha twittato così: "Avete creato una nuova atmosfera con il vostro voto". In una considerazione più generale Rouhani intende rivolgersi agli elettori iraniani, spiegando come il paese sembra avviarsi sul sentiero di un rinnovamento senza precedenti: donne che prendono decisioni in Assemblea, un futuro di riforme per il decimo Majalis, che sia ora un Parlamento dal volto nuovo e ben lontano dal precedente di stampo ultraconservatore, e maggiori libertà nel paese per quanto riguarda l'espressione, non ultimo l'accesso alla rete e la libertà di stampa sembrano gli ingredienti - base della nuova ricetta iraniana. Rouhani gioisce soprattutto per l'indiretta umiliazione inferta agli ultraconservatori di cui non dimenticherà mai gli ostruzionismi ricevuti per tutto l'arco del nono Majalis sulla questione del programma nucleare, nonostante l'Iran avesse correttamente adempiuto ai suoi obblighi di responsabilità internazionale. La direzione verso cui si vuol muovere il Presidente - appoggiato dai cittadini, a ben vedere dalle stime elettorali - è quella di una maggiore apertura verso l'Occidente al fine di permettere futuri negoziati e di poter assorbire quei valori di libertà e democrazia che ancora mancano all'Iran. Inoltre,  l'alleanza tra i due primi vincitori nell'Assemblea degli Esperti, Rafsajani - ex candidato alla corsa per le presidenziali nel 2013, nonchè noto discepolo dell'Ayatollah Khomeini - e Rohani, potrebbe dar luogo a degli scenari inediti nel caso si dovesse eleggere una nuova Guida Suprema, in un'era post-Khamenei. “E’ finito il tempo dello scontro, ora è il momento della cooperazione”, in questo commento si può riassumere la linea politica che vuole intraprendere Rafsanjani.

Cos'ha comportato l'accordo sulla revisione del programma nucleare?
Con l’accordo, l’Iran aveva accettato di ridurre sensibilmente le sue capacità in campo nucleare fino al punto che oggi avrebbe bisogno di almeno un anno per ottenere abbastanza materiale radioattivo con cui costruire un'eventuale bomba atomica. Gli accordi hanno sensibilmente cambiato lo scenario in quanto, prima di questi, il tempo necessario era di qualche mese. In cambio, il paese aveva ottenuto un allentamento delle sanzioni che dal 2006 gli avevano imposto Unione Europea e Stati Uniti. Ma diverse erano le attese sul fronte della crescita economica iraniana del dopo sanzioni: si pensava che da allora il paese avrebbe potuto aumentare le sue esportazioni di petrolio e portare ad una consistente riduzione del greggio, attirare gli altri attori internazionali, primo fra tutti l'Italia, nel quadro di investimenti di capitali e altri affari commerciali, oltre ad attirare potenziali viaggiatori incuriositi dalla scoperta di un paese che è rimasto l' unico visitabile in quello che è oggi un Medio Oriente in fiamme. Eppure non mancano intellettuali, sostenitori di diritti umani e oppositori di varia natura che alternano il ritornello "In Iran cambierà tutto, in Iran non cambierà nulla". Come dar loro torto, se si considera che il metodo con cui sono avvenute le elezioni sembra uscito da un'asta d'antiquariato: il Consiglio dei Guardiani ha posto il veto sulla candidatura di migliaia di riformisti proprio per evitare che la collaudata rotta politica dell’Iran potesse essere dirottata. Ciò ha rafforzato il sentimento scetticista sul possibile rinnovamento iraniano non tanto nei rapporti del paese con l'estero, quanto più al suo interno dove, in aggiunta alla già poca fiducia concessa agli effetti degli accordi sul nucleare, serpeggia la convinzione che andare alle urne sia inutile.

L'Iran che cambia?
Il motivetto ricorrente circa un presunto cambiamento dell'Iran trova la sua ragion d'essere in tutte le contraddizioni - ed eventuali controindicazioni - sopra indicate. Non siamo ancora di fronte a un paese che ha delle Istituzioni stabili a supporto di un cambiamento e, se pure questo dovesse verificarsi, sarebbe caratterizzato da una certa gradualità. Oltre al ristabilimento sul piano politico, l'elettorato è in attesa di vedersi riconosciuta la piena libertà personale e sociale all'interno di un territorio che dovrebbe rappresentare "casa". Il riconoscimento delle libertà personali e sociali deve prescindere da qualsiasi orientamento politico di governo, siano esse nella forma della pacifica protesta e/o nella possibilità di accedere alla rete globale come ogni cittadino di qualsiasi Repubblica democratica fa al giorno d'oggi. La contraddizione per cui tale accesso è negato al comune cittadino mentre i principali politici, tra i quali anche la Guida Suprema, si servono dei social networks per impartire direttive è aberrante. Ma l’Iran è terra di paradossi: raggiunto il 16 gennaio scorso l’Implementation Day dell’accordo sul nucleare, che sanciva la pace con gli Stati Uniti, l’11 febbraio il paese celebrava il 37° anniversario della costituzione della Repubblica Islamica ancora con manifestazioni in chiave anti statunitense. La spiegazione è qui semplice: la legittimità del sistema iraniano si è appoggiata per più di trent'anni sul confronto con gli Usa,  un valido motivo che ha fornito ora una certa coesione interna a dispetto delle tensioni tra le varie fazioni della stessa ala. Non esistendo più un nemico comune esterno, adesso la leadership dovrà concentrarsi sull'impegnativa costruzione di una unità nazionale. Tuttavia, non è ancora chiaro chi avrà la maggioranza più uno dei 290 seggi parlamentari. Molto resterà a lungo incerto poiché per avere un quadro definitivo, secondo il ministero degli Interni, bisognerà aspettare lunedì se non addirittura martedì prossimo, quando tutti i milioni di voti deposti nei 52 mila seggi del paese saranno stati scrutinati dal Consiglio dei Guardiani. E neanche allora la partita sarà finita, in quanto in alcuni collegi elettorali per il raggiungimento del quorum, ovvero il 25% dei voti, sarà necessario andare al ballottaggio, previsto per fine aprile. É abbastanza chiaro come riforme e cambiamento verso un sistema meno ideologico, ma più trasparente ed efficace, richiedano tempi lunghi. A ciò dovrà unirsi la pazienza della popolazione iraniana, benché ormai da tempo depositaria di importanti valori quali resilienza e speranza.
Giulia Guastella

Fonti:

http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/dopo-le-sanzioni-un-iran-piu-forte-14721

domenica 28 febbraio 2016

L'Unione europea promotrice di sviluppo nel post 2015

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

L'Unione europea promotrice di sviluppo nel post 2015


Nelle relazioni interstatali mondiali, l’Unione europea è promotrice del rispetto dei diritti umani e della solidarietà reciproca tra i popoli, cosi come enunciato nei trattati istitutivi dell’Unione stessa nonché nelle disposizioni in materia di cooperazione allo sviluppo. L’art. 208 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) inserisce la politica di cooperazione allo sviluppo all’interno della più generale azione esterna dell’Unione, prevendendo inoltre il riconoscimento degli obiettivi faro definiti dalle Nazioni Unite, quali l’eliminazione della povertà estrema e l’attuazione di un partenariato globale per lo sviluppo. A tal proposito, gli Stati si sono impegnati a raggiungere tali obiettivi entro il 2015. Sotto l’egida della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, alcuni paesi poveri, americani e africani, fortemente indebitati (Heavily Indebted Poor Country, HIPC) hanno così ottenuto l’annullamento del loro debito estero. Malgrado l’Unione europea sia il primo donatore mondiale per gli aiuti allo sviluppo, non tutti gli Stati membri hanno raggiunto l’obiettivo comune dei Paesi OCSE di destinare almeno lo 0,7% del loro Prodotto Interno Lordo (PIL) all’aiuto pubblico allo sviluppo (APS). Per fare fronte a tali divergenze e definire una visione comune delle sfide socio-economiche odierne, il 2015 è stato dichiarato l’Anno europeo per lo sviluppo, concentrandosi dunque sull’importanza dell’azione esterna dell’Unione europea e in particolare nella promozione dello sviluppo globale. Il quadro finanziario pluriennale dell’UE-28 stabilisce che le spese relative al “ruolo mondiale dell’Europa” (nello sviluppo economico e sociale, ma anche nella mediazione e prevenzione dei conflitti, nella promozione della democrazia partecipativa etc.) ammonterà a 2 154 milioni di euro nel 2016, per un totale di 61 629 milioni di euro nel periodo 2014-2020 (Regolamento UE, EURATOM n.1311/2013). Si aggiunge la quota rilevante di finanziamenti umanitari, che ogni anno l’Unione europea eroga a favore delle vittime di catastrofi naturali e/o umane. Nel 2014, l’Ufficio per gli aiuti umanitari dell’Unione europea ha cosi distribuito 1 273 miliardi di euro in assistenza umanitaria (Parlamento europeo).

Per mantenere il livello di impegno tenuto negli ultimi 15 anni, a partire dalla firma della Dichiarazione del Millennio nel 2000, la Commissione europea istituisce il “Partenariato mondiale per l’eliminazione della povertà e lo sviluppo sostenibile dopo il 2015”. Quali sono le novità di quest’ultima strategia, comune ed europea, in materia di solidarietà internazionale? Il nuovo partenariato prevede una serie di misure collettive e a livello dell’Unione, tra cui: 1) il sostegno allo sviluppo e il rafforzamento, da parte dell’Unione, di politiche e contesti istituzionali abilitanti in altri paesi, compresi quelli in situazioni di fragilità, 2) la destinazione dello 0,7% del PIL all’APS (i paesi a reddito medio-alto si impegnano inoltre ad aumentare il proprio contributo al finanziamento pubblico internazionale), 3) l’UE come promotrice del cambiamento attraverso un maggiore accesso all’istruzione e alla formazione nei paesi in via di sviluppo, al fine di favorire l’acquisizione di competenze necessarie per l’innovazione, la crescita e l’occupazione. Nello scenario europeo, l’Italia si colloca lontana dalla media di paesi come Svezia e Danimarca, destinando soltanto lo 0,16% del proprio PIL all’APS. Tuttavia, dal punto di vista normativo, il 29 agosto 2014 è entrata in vigore la nuova legge 125/2014 “Disciplina Generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo” che prevede la collaborazione tra l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo e il Ministero degli Esteri, al fine di elaborare un documento triennale indicante la visione strategica, gli obiettivi di azione e i criteri di intervento, la scelta delle priorità delle aree geografiche e dei singoli Paesi, nonché dei diversi settori nel cui ambito dovrà essere attuata la cooperazione allo sviluppo” (Art.12). Un ruolo importante è infine attribuito alle organizzazioni della società civile e ai soggetti senza finalità di lucro, che potranno usufruire di contributi da parte dell’Agenzia al fine di realizzare i programmi di cooperazione. Il settore del non-profit italiano è in constante evoluzione e secondo i dati ISTAT, più di 300 000 organizzazioni sono presenti nel territorio nazionale.

La cooperazione allo sviluppo si conferma tutt’oggi una delle priorità della politica estera europea per il post-2015, rafforzando dunque l’impegno internazionale dell’Unione come garante dello sviluppo e della sicurezza. Tuttavia, la destabilizzazione dei paesi vicini, del Sud e dell’Est, impone all’Unione non soltanto una revisione del proprio sistema interno (in materia di cooperazione), ma anche della sua politica di vicinato, attraverso nuovi modelli di cooperazione euro-mediterranei più inclusivi, sulla scia del Processo di Barcellona lanciato nel 1995.

Laura La Scala

Bibliografia:

Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea: Regolamento UE EURATOM n 1311/2013 - quadro finanziario pluriennale per il periodo 2014-2020

Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana: legge 11 agosto 2014, n.125 - disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo.

Parlamento europeo - dati sugli aiuti umanitari, http://www.europarl.europa.eu

sabato 27 febbraio 2016

Il nuovo Sacro Romano Impero della nazione germanica

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Il nuovo Sacro Romano Impero della nazione germanica 


 a cura di Rosario Fiore Cultore di diritto pubblico comparato Unipa e 

Segretario generale I.Me.Si


L'ultimo tormentone andato in scena al Consiglio Europeo di Febbraio - l'affaire Brexit,  di cui ha già parlato e brillantemente in questo blog il nostro giovane ricercatore Davide Daidone (http://imesipalermo.blogspot.it/2016/02/la-guerra-in-casa-nostra-brexit-e-il.html) offre lo spunto per una ulteriore riflessione sull'Unione Europea, cosa oggi rappresenta e cosa potrà rappresentare nel prossimo futuro. E' noto che il 23 giugno prossimo il Regno Unito sarà chiamato ad esprimersi su un delicato referendum popolare: restare o meno nell' Unione Europea, sciogliendo, finalmente, un nodo che gli inglesi si portano dietro sin dai tempi  di Margaret Thatcher, il cui antieuropeismo, oggi reinterpretato da Cameron, raggiunse l’acme nel celebre discorso di Bruges nel 1988,  quando la Lady di Ferro, rivolgendosi alla platea del Collegio d’Europa - istituto indipendente di studi europei post-universitari -  nella cittadina belga, definì lo’allora Comunità europea «un club che si guarda l’ombelico, ossificato in una mania da iperregolamentazione», e aggiunse: «non abbiamo fatto arretrare i confini dello Stato in Gran Bretagna per vederli riespandere a livello europeo con un super-Stato che esercita una nuova forma di dominio da Bruxelles». L'antieuropeismo inglese, pertanto, non rappresenta affatto una novità e la posizione assunta da Cameron, che in ogni caso ha portato a casa un buon risultato, è perfettamente in linea con il nazionalismo  thatcheriano e con l'avversione degli inglesi verso i tedeschi, che, non dimentichiamo, furono loro acerrimi nemici durante gli ultimi due conflitti mondiali. Ciò premesso, tuttavia, non voglio occuparmi di Brexit, ma vorrei condividere con i lettori una breve riflessione, faziosa ovviamente, sull'Unione Europea. Non credo di dire una cosa nuova quando affermo che, giuridicamente e tecnicamente,  uscire dall'Unione Europea si può: basta leggere la procedura di recesso prevista e disciplinata dall'art. 50 del Trattato sull'Unione Europea, per come rivista col Trattato di Lisbona. Questa premessa, ovvia ripeto, mi è tuttavia utile per potere consequenzialmente affermare che, al di là di ogni demagogica ed ideologica retorica sul valore e sui valori comuni (???) dell'Unione Europea, quest'ultima è e rimane una semplice organizzazione internazionale, sui generis per carità, ma pur sempre una normale organizzazione internazionale soggetta alle norme di diritto internazionale sui trattati e sui rapporti tra gli Stati e le organizzazioni internazionali; per dirla con Benedetto Conforti,  “una organizzazione internazionale altamente sofisticata”. Se, infatti, la presenza di organi con ampi poteri decisionali nonché il principio della prevalenza del diritto “comunitario” sul diritto interno fanno propendere per una sorta di embrionale Stato federale, tuttavia, l'immutata e non scemata sovranità di ciascuno Stato membro, anche in quelle materie che sono di esclusiva competenza dell'Unione, alla fine ci portano sempre allo stesso risultato: trattasi di una organizzazione internazionale e non di uno Stato federale. Non può, infatti, passare inosservato che dei quattro organismi decisionali più importanti, il Consiglio Europeo e il Consiglio dell'Unione Europea – quest'utimo vero legislatore “comunitario”- sono organi di Stati, cioè organi in cui ciascun componente rappresenta non gli interessi generali dell'Unione ma gli interessi particolari dello Stato che rappresenta; sono organi, pertanto, le cui decisioni sono frutto di una mediazione politica tra gli opposti interessi e le cui decisioni, relativamente al Consiglio dell'Unione in materie delicate quali la politica estera e la fiscalità, sono tutt'oggi deliberate all'unanimità. Sottolineare questo dato  è importante in quanto mette in evidenza, ancora una volta, la fragilità intrinseca dell'Unione Europea, di cui l'affaire Brexit altro non è se non la prova del nove. Questa fragilità, che spiace constatare non è stata superata dalla nuova impalcatura istituzionale di Lisbona, è resa evidente per almeno quattro considerazioni: in primo luogo, pur essendoci una moneta unica – mi riferisco ovviamente ai soli Paesi dell'Eurozona – non vi è tuttavia  una politica monetaria unica; in secondo luogo, pur essendoci un mercato comune di libero scambio del lavoro, delle merci e dei servizi,  non vi è una politica comune in materia fiscale; in terzo luogo, pur esistendo un'area di libera circolazione delle persone,  tuttavia, in presenza di eventi di eccezionale gravità ( atti terroristici ad esempio) lo Spazio Schengen può essere derogato e sospeso; in quarto luogo, non vi è una  politica estera e di sicurezza realmente comune, atteso che l'Alto Rappresentante per la Politica Estera gode di poteri più onorifici e celebrativi che veri ( ricordo ancora vividamente che il 6 febbraio dell'anno scorso, durante la crisi russo-ucraina, la politica estera dell'Unione fu assolutamente assente e addirittura scavalcata dall'asse franco -tedesco con Hollande e la Merkel che si precipitarono a Kiev per sottoporre a Putin un piano di pace). Bisogna allora chiedersi che senso ha questa Unione Europea, in cui non vi è una governance politica reale e in cui i singoli Stati rimangono tutt'ora pienamente e giustamente sovrani di fare ciò che vogliono. Personalmente sono contrario all'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea ma non perché ritengo che questo sia il primo passo per una definitiva estinzione dell'Unione; sono contrario perché il Regno Unito ha rappresentato e può continuare a rappresentare l'unico contrappeso serio e credibile alla Germania e al pangermanesimo, sempre strisciante e sempre pericoloso; ma soprattutto sono contrario perché una Unione Europea senza il Regno Unito finirebbe per  diventare una sorta di moderno Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, con l'Italia ancora una volta ridotta a ruolo di vassallo. Per cui, se il 23 Giugno il Regno Unito dovesse decidere per un recesso unilaterale dall'Unione Europea, occorrerà seriamente iniziare ad interrogarsi se sia ancora utile, politicamente ed economicamente, farne parte, ben sapendo che recedere si può.

giovedì 25 febbraio 2016

Nuovi venti di guerra in Libia: il ruolo dell'Ue e dell'Italia

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Nuovi venti di guerra in Libia: il ruolo dell'Ue e dell'Italia




La situazione politica in Libia
Da quando il regime di Gheddafi è stato rovesciato nel 2011, il paese nordafricano è sprofondato nel caos, dove due governi rivali, ognuno sostenuto da frange di ex ribelli, rivendicano la propria autorità: uno è il governo scaturito dalle elezioni del giugno 2014  situato nella città orientale di Tobruk, braccio politico del Generale Haftar, l'ex generale dei tempi di Gheddafi che, sconfitto in Ciad nel 1987, si ritirò poi in America e tornò in Libia per combattere il dittatore nel 2011. La sua autorevolezza garantisce l’appoggio militare di due partner internazionali di peso come l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti i quali, in passato, hanno condotto raid aerei contro obiettivi dell’ISIL e di Alba Libica, una formazione di milizie originarie di Tripoli e Misurata vicini ai Fratelli Musulmani. L’altro è il governo di Tripoli sostenuto dal Nuovo Congresso Nazionale Generale e dalla stessa coalizione Alba Libica che a sua volta gode di un appoggio non troppo nascosto di Qatar e Turchia. Inoltre dal 2014, dopo la conquista della città di Derna e quella più recente di Sirte, lo Stato Islamico, per la prima volta fuoriuscito dai confini di Siria e Iraq, rappresenta la terza forza all’interno della Libia. Per ovviare alla piaga dell’indeterminatezza politica, che di fatto rende la Libia uno “Stato fallito”, il 23 dicembre 2015, con la risoluzione ONU n°2259, si è adottato ufficialmente l’ “Accordo Politico Libico” che prevede un governo di unità nazionale e la condivisione del potere tra il parlamento di Tobruk e quello di Tripoli e intima agli Stati membri di relazionarsi esclusivamente con il governo di unità nazionale e, all'articolo 12, stabilisce che si può intervenire militarmente contro l’ISIL solo "previa richiesta del governo libico." Tuttavia questo governo, con a capo Faiez Serraj accompagnato da un Consiglio Presidenziale di 9 membri, non svolge le proprie funzioni nella capitale Tripoli (sede dell’intera macchina statale libica, dei Ministeri, della Banca Centrale e della Società del Petrolio) la quale è ancora controllata dalle milizie di Alba Libica, bensì da un albergo di Tunisi, inoltre, il Parlamento formatosi non riesce a funzionare a causa delle difficoltà a riunirsi raggiungendo il quorum legale. Questa situazione di empasse va a tutto vantaggio dell’avanzata nel Paese dell’ISIL e degli affari illeciti condotti dai trafficanti di esseri umani. Per far fronte a questi problemi, che tanto preoccupano la comunità internazionale tanto da far figurare la loro risoluzione in cima alle agende di politica estera delle principali cancellerie europee e d’oltre oceano,  è in corso un negoziato ONU, guidato dal generale italiano Paolo Serra, finalizzato ad un accordo che consenta al governo di unità nazionale di operare nella Capitale. I recenti bombardamenti effettuati da droni statunitensi partiti dalle basi militari siciliane su territorio libico, l’aumento del numero di aerei e navi da guerra britanniche nell’isola di Cipro, congiuntamente all’offensiva dell’esercito fedele al Parlamento di Tobruk condotta nella città di Bengasi  contro lo Stato Islamico costretto a ripiegare e le ultime notizie non ufficialmente smentite della presenza entro i confini libici di 180 militari francesi impegnati in operazioni segrete, hanno riacceso l’attenzione dei media su quella che viene definita da tempo la seconda guerra civile libica, anche se, come si può intuire, sarebbe più opportuno identificarla per ciò che realmente è: l’ennesimo conflitto interno internazionalizzato. Infine, il parlamento di Tobruk ha rinviato alla prossima settimana il voto sul governo unitario sponsorizzato dall’Onu, allontanando con ciò la soluzione politica della crisi. Di fatto la Libia continua ad avere tre governi: quello di Serraj e quelli di Tripoli e di Tobruk. 

Il ruolo dell’Unione Europea e l’Operazione Sophia
Secondo un documento scritto dall'ufficiale italiano Credendino, il quale è a comando dell' “Operazione Sophia”, indirizzato alla Comitato Militare dell'Unione Europea e al Comitato Politico e di Sicurezza, catalogato come “riservato” e rilasciato da un’anonima fonte autorevole di uno dei Paesi dell’UE a Wikileaks, l’Unione Europea avrebbe in programma di attuare la volontà militare, espressa dall’ European Union Military Committee (Eumc - un dipartimento in cui siedono i Capi di Stato Maggiore dell'Europa), di prepararsi ad un intervento militare diretto in Libia. L’ Op. Sophia (EUNAVFOR MED) avviata nel giugno 2015, con il sostegno di 22 nazioni europee su 28 ( e l’indicazione di partner potenziali come l’Unione Africana, l’Onu, la Nato, la Lega Araba e altri collaboratori come Egitto, Tunisia e, quando ci sarà un governo legittimo, la Libia), nasce, in coordinamento con l’agenzia FRONTEX, come contrasto alla crisi migratoria e il relativo sfruttamento economico della situazione da parte dei trafficanti di esseri umani nell’area del Mediterraneo centrale e si articola in 3 fasi principali.
1)La prima fase sarebbe già stata completata il 7 ottobre scorso e riguardava operazioni di intelligence volte a dispiegare le forze e raccogliere informazioni sul modus operandi dei trafficanti e contrabbandieri di esseri umani tramite l’uso di droni.
2)La seconda fase, attualmente in corso, prevede che la Task Force possa eseguire, nel rispetto del diritto internazionale, fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico o la tratta di esseri umani. Tale fase è stata a sua volta suddivisa in una sotto-fase detta “2A” che comporta l'uso di 16 navi e velivoli di diversi paesi dell'UE per fermare i trafficanti in acque internazionali, attualmente in corso, ed una in acque territoriali libiche, che potrà iniziare a seguito di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dell’invito del governo libico. Nel rapporto l’ufficiale Credendino scrive: “Da un punto di vista militare, sono pronto a passare alla fase 2B in Acque Territoriali libiche, […] ma ci sono una serie di ostacoli politici e legali che devono essere affrontati prima che io possa raccomandare questa transizione". Infatti è necessario il permesso del governo libico per entrare nelle proprie acque territoriali, inoltre bisogna avere la sicurezza su chi avrà la competenza di giudicare i sospetti trafficanti arrestati. 
3)La terza fase, volta a neutralizzare le imbarcazioni e le strutture logistiche usate dai trafficanti, fa riferimento ad una eventuale presenza di truppe dell’Unione Europea in Libia, il Ministero degli esteri italiano fa sapere che “anche questa Fase necessita di Risoluzione del’ONU e del consenso e cooperazione da parte del corrispondente Stato costiero”. Inoltre il rapporto non esclude di attuare operazioni anche contro le milizie dello Stato Islamico in conformità con l’art. 12 della risoluzione ONU n° 2259 sopracitata.
Dal rapporto dell’ufficiale Credendino si evince però anche la consapevolezza di dover fronteggiare numerosi problemi: uno tra tutti il fatto che le due autorità locali  rivali (quella di Tripoli e quella di Tobruk)  hanno dichiarato che non possono tollerare una possibile operazione europea su suolo libico, inoltre mancherebbe anche l’avallo del governo di unità nazionale di Serraj, il quale, per paura di perdere ulteriormente la sua fragile legittimazione popolare, sarebbe restio nel chiedere un intervento diretto sul territorio per non veicolare l’idea di essere un “governo fantoccio” in mano agli occidentali. Come contropartita è stato quindi proposto nel rapporto di offrire alle varie compagini l’addestramento della marina e della guardia costiera, ma con il rischio concreto che questo possa rivelarsi un boomerang nel lungo periodo. Il documento avverte anche le istituzioni politiche dell’UE di non pubblicizzare la missione per evitare che l’operazione venga percepita dai migranti come una “missione di salvataggio” che li incentiverebbe ad intraprendere il viaggio della speranza. Questo “errore” sarebbe stato commesso con l’operazione dell’Agenzia Frontex, perciò viene suggerito che “la strategia d’informazione deve evitare di suggerire che il focus dell’intervento sia il salvataggio dei migranti, ma enfatizzare al contrario che lo scopo dell’operazione è ostacolare il giro d’affari del traffico dei migranti”. Alla luce di ciò non è realistico domandarsi SE e con quali modalità ci sarà un intervento militare in Libia bensì QUANDO avverrà. Viene naturale chiedersi quale sia l’immagine che l’Unione Europea vuole dare di sé e quale sia la sua reale volontà riguardo il problema dell’immigrazione, il quale, solo nell’ultimo anno, ha provocato un numero di vittime stimato superiore a 1800, vale a dire 20 volte in più rispetto al 2014. Dato che fermare l’immigrazione è impossibile, è necessario gestirla.

Il ruolo dell’Italia
«Il 2016 si annuncia molto complicato a livello internazionale, con tensioni diffuse anche vicino a casa nostra. L’Italia c’è e farà la sua parte, con la professionalità delle proprie donne e dei propri uomini e insieme all’impegno degli alleati». Queste sono le parole pronunciate dal Primo Ministro italiano Matteo Renzi all’inizio di quest’anno alle quali sono seguite numerose altre dichiarazioni del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e del Ministro della Difesa Roberta Pinotti, anche nei giorni scorsi, che facevano riferimento alla possibilità di un intervento militare italiano in Libia all’interno di un quadro internazionale di legalità. Cioè a condizione che vi sia l’avallo dell’ONU e del governo libico. Inoltre non si è evitato, anche all’estero, di sbilanciarsi a favore di una possibile guida italiana in caso di intervento militare, il quale sarà ovviamente presentato come “operazione di peacekeeping e umanitaria”, proprio come l’esperienza fallita del 2011 a guida francese.
Ma quale governo libico? L’italia svolge un ruolo di primo piano da lungo tempo affinchè si arrivi alla definizione di un governo libico stabile, questo perché all'Italia conviene avere un processo politico che funzioni in Libia per poter tutelare i propri interessi: prima di tutto, per poter lavorare sull'immigrazione, uno degli argomenti più controversi su cui si giocano molte battaglie della politica interna italiana. In secondo luogo l'Italia ha bisogno di un governo per gestire i suoi interessi energetici ed economici, basti ricordare infatti che ENI è stata, e lo è tutt’ora, la maggiore azienda estera che opera in Libia proprio a danno dei concorrenti francesi e inglesi. Per l’Italia quindi lo Stato fallito libico preoccupa quasi quanto lo Stato Islamico.

Guerra all’ISIL
Ed è proprio lo Stato Islamico che possiede una consistente quota dei problemi relativi alla Libia. La sua presenza su questo territorio, infatti, fa “gola” a molti Stati ansiosi di proiettare nell’opinione pubblica dei propri cittadini, un’immagine di sé molto attiva nei confronti del contrasto all’ISIL. Il riferimento è rivolto soprattutto a Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Nei palazzi della diplomazia, molti rappresentanti di paesi occidentali hanno confermato la possibilità di effettuare incursioni aeree e operazioni delle forze speciali, in aggiunta al piano di "stabilizzazione della sicurezza" guidato dall'Italia, pronta, dal canto suo, ad assicurare consulenza e addestramento.


Conclusioni
In conclusione una stabilizzazione politica della Libia è certamente auspicabile, sia per assicurare la sicurezza internazionale, sia soprattutto per ridare dignità e speranza di sviluppo al popolo libico esausto, come sempre, infatti, sono i civili a pagare maggiormente le conseguenze degli errori politici e militari. Per questo motivo è necessario favorire la soluzione politica rispetto a quella militare e fare tesoro delle esperienze passate, soprattutto quelle recenti, e quelle in corso (es. guerra in Siria), i cui risultati sono molto discutibili per non dire disastrosi. 

Lorenzo Gagliano

martedì 23 febbraio 2016

Siria, un accordo tra scetticismo e nuovi orizzonti di conflitto

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Siria, un accordo tra scetticismo e nuovi orizzonti di conflitto



Sembrerebbe che un'intesa sia stata raggiunta tra il segretario di stato di Washington, John Kerry, ed il corrispettivo ministro degli esteri di Mosca, Sergey Lavrov, per una tregua in Siria. Diversi erano stati gli incontri nel corso della scorsa settimana ed anche se alla fine l'accordo è stato siglato, l'aria che si respira in territorio siriano resta comunque tutt'altro che serena. Alto è infatti lo scetticismo che circola tra gli analisti di geopolitica ed allo stesso tempo tra i piani alti degli stati coinvolti in questo interminabile conflitto. 

Un conflitto che fino ad oggi ha visto schierate due diverse coalizioni, le quali divergono in primo luogo rispetto ad uno specifico tema: il destino di Bashar Assad. Da una parte i primi nemici schierati sul campo il presidente siriano ce li ha sempre avuti in casa, per questioni principalmente religiose (Assad è fedele alla minoranza alauita, corrente sciita), a sostegno dei ribelli troviamo poi gli Stati Uniti, che non godono di buoni rapporti col presidente siriano, seguiti dalla Turchia, coinvolta oltre che per i pessimi rapporti con Assad anche per la costante fobia delle mire indipendentiste dei curdi siriani, e l'Arabia Saudita, con l'ambizione di elevare il proprio status di “potenza regionale” sopratutto in funzione anti-iraniana. Dall'altra parte abbiamo visto la Russia, che da sempre vanta buoni rapporti con la famiglia Assad, l'Iran, in funzione anti-saudita e, anche se non ufficialmente, il popolo curdo, che difende il primis la propria autonomia raggiunta nel nord della Siria. In questo contesto del tutto instabile trovano spazio, anche se ultimamente hanno perso terreno, anche il gruppo Stato Islamico ed il Fronte Al Nusra.

Il suddetto scetticismo nei suddetti ambienti pare sia dovuto, in primo luogo, per alcuni controversi punti focali di questa intesa che stabilirebbe un termine fissato per mezzogiorno di Venerdì 26 Febbraio entro il quale i ribelli siriani, primi protagonisti contro il governo di Bashar Assad, dovrebbero annunciare ufficialmente di aderire alla tregua, con la promessa messa su carta, che l'aviazione di Damasco smetterà di bombardare quegli stessi gruppi che aderiranno all'accordo. Restano però esclusi dalla tregua il gruppo Stato Islamico ed il Fronte Al Nusra, il gemello siriano di Al Qaeda, che non potranno esprimersi in questo senso. Esclusioni coerenti con la linea portata avanti fino ad oggi dalle due coalizioni presenti in Siria (eccezion fatta per la controversa posizione della Turchia) rispetto al non riconoscimento di questi gruppi come entità politiche con cui provare a dialogare. Anche se d'altra parte si potrebbe pensare a questo accordo nei termini di una dichiarazione di resa per quelle forze che da tempo hanno provato ad eliminare la scottante figura del presidente alauita e che inizialmente avevano visto dalla loro l'ala protettiva statunitense. 

Ora però sembra che ai ribelli non resti che accettare una tregua che non hanno mai voluto, o acquisire lo status di “gruppi terroristici” ed essere trattati alla stregua di Isis ed Al Nusra. Causando così una possibile reazione a catena che potrebbe addirittura riportare gli effetti opposti rispetto a quelli che, almeno formalmente, le due grandi potenze dichiarano di voler perseguire, elevando di fatto il livello di conflittualità nell'intera area. A questo si aggiungono poi le dichiarazioni del ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, il quale ha affermato che la Turchia, aldilà di ogni sorta di tregua, considera e continuerà a considerare i curdi siriani alla stregua di terroristi ed andranno avanti a colpirli con tutti i mezzi a loro disposizione. Considerando tali premesse, aldilà dell'accordo raggiunto, sembra allora che il conflitto siriano possa essere destinato a rimanere nelle prime pagine delle diverse testate del globo ancora per diverso tempo, almeno fino a che le volontà messe sul piatto degli accordi resteranno le suddette.


Giovanni Tranchina




Fonti:

lunedì 22 febbraio 2016

Isis: il modus operandi della "guerra terrestre" in Europa

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Isis: il modus operandi della "guerra terrestre" in Europa

La Storia delle Relazioni Internazionali contemporanea fornisce tutti gli elementi essenziali per trarre la teoria che gli Stati mondiali stiano vivendo la loro Terza Guerra Globale. Analizzata dal punto di vista della strategia di attacco dell’attore principale, l’IS, essa si presenta come una Guerra anomala nei suoi vari aspetti; una Guerra che cambia e modula le sue tattiche in base al Soggetto-Stato che si vuole colpire. Contrariamente alle due grandi guerre della storia mondiale,  che gli storici hanno definito “Guerre Anfibie”, poiché combattute per terra, per aria e per acqua, la Guerra condotta dall’IS è una “Guerra Terrestre”, in quanto ciascuna loro offensiva prende luogo solo in uno spazio ben definito, ossia il territorio: ora attraverso cinture esplosive, ora attraverso sparatorie di massa. Il 13 novembre 2015 è stata la volta dell’Europa, di Parigi. Un complesso di uomini armati di fucili  AK 47 (meglio conosciuti come kalašnikov) sferrano attacchi coordinati in uno stadio, in un teatro, in due cafè e in due ristoranti nella capitale francese, uccidendo, ferendo e prendendo in ostaggio civili indifesi. È proprio partendo da questo ultimo caso che l’Europol [1] con la collaborazione di alcuni Esperti di ciascun Stato membro, decide di definire, grossomodo, non solo le principali caratteristiche dei “modi di attacco” del sedicente Stato Islamico contro l’Europa, ma allo stesso tempo tenta di disegnare il profilo psicologico e morale degli attentatori.  

Da un’attenta disamina, risulta che gli attentati di Parigi si siano svolti secondo il c.d. “Mumbai style”. Il modus operandi degli assalti a Mumbai nel 2008 è simile a quello di Parigi 2015: dieci attentatori (o poco più) dotati di AK 47; spedizioni coordinate in cafè, ristoranti e teatri; 164 vittime cadute a Mumbai, 130 morti e 352 feriti a Parigi. Ecco che pian piano scompare la figura del terrorista come “lupo solitario” e comincia ad emergere “il branco” che cerca di colpire il cuore della vita di una città. Sono attacchi ben pianificati e preparati eseguiti con strumenti di combattimento facilmente reperibili, da persone accuratamente addestrate, quasi sempre figli della stessa Nazione che si vuole ferire, che hanno in comune il fattore età (giovane età) e legami sociali (comune etnia, background e lingua) e quindi non esclusivamente fattori religiosi o uguali credenze ideologiche. Alcune ricerche testimoniano che circa il 20% di loro soffre di patologie mentali, e che circa l’80% ha precedenti penali per reati minori e che il loro avvicinamento al IS sia stata la giusta opportunità per dare sfogo agli impulsi violenti che vivono silenti in ognuno di loro.

L’Europol mette in allerta l’intera Europa, ricordando che la minaccia terrorismo è pronta a bussare alla nostra porta in qualsiasi momento. A tal proposito si intercettano quattro possibili scenari dove essa può palesarsi. Questi ultimi sono individuati grazie alla mescolanza di quattro fattori: attacchi sofisticati (cioè pianificati, ben organizzati che hanno come oggetto un determinato target) e attacchi non sofisticati (frutto di un personale ed improvviso impulso), da una parte; hard target (forze armate, persone di spicco o semplicemente luoghi protetti) e soft target (persone e luoghi non protetti in caso di attacco), dall’altra [2]Certo è che oggi  l’IS punta, in Europa, la sua attenzione soprattutto al target da colpire  piuttosto che al tipo di attacco da sferrare. È la tattica più astuta per creare paura, panico ma soprattutto spettacolarità, una sorta di finestra da dove sventolare i loro fatti per aumentare la credibilità nel mondo europeo o non solo.
Anna Chiara Ganci

Note:



[2] Parigi 2015: attacco sofisticato + soft target.