giovedì 31 dicembre 2015

Messaggio di fine anno del Presidente

- Messaggio di fine anno del Presidente -




"Carissimi colleghi,

Siamo giunti alla fine di un 2015 che ci ha visti protagonisti e trovo doveroso ringraziare ciascuno di voi per il lavoro svolto nel corso di questo lungo anno. 

Il 2015 è stata una buona annata. Per tutti noi, membri dell'Istituto Mediterraneo di studi Internazionali, quello che sta per concludersi è stato non solo l'anno della costituzione formale della nostra piccola e ambiziosa realtà scientifica ma anche l'anno della consacrazione.

Il progetto sul quale ciascuno di noi ha scommesso ha finalmente preso la giusta piega. È stato un anno prezioso, ricco di importanti momenti di confronto e riflessione. Dalla firma ufficiale dell'atto notarile, in quella raggiante giornata primaverile di aprile, sono passati ormai mesi. Sono state settimane impegnative e intense di lavoro ma non abbiamo mai abbandonato l'entusiasmo e la determinatezza dei primi giorni. E questo è merito di tutti voi, della vostra caparbietà e della vostra instancabile volontà. Di tutto questo non posso che ringraziarvi. 

Il 2015 è stato per l'Europa e per il mondo un anno di tensioni, di nuove sfide globali ed è grazie a tutti voi se siamo sempre stati attenti ai temi caldi, documentando ed informando i nostri lettori con articoli scientifici di qualità. È stato un anno di incontri e di contributi accademici importanti. Il 2015 ha visto la nascita e la costituzione del nostro comitato scientifico che vanta la presenza di accademici di grande spessore italiani ed internazionali, esponenti del mondo diplomatico, filosofi del diritto ed esperti delle discipline internazionalistiche. 

È stato anche un anno per portare avanti il nostro impegno antimafia attraverso pubblicazioni, dibattiti ma sopratutto incontri. E qui voglio ricordare l'ultimo appuntamento "Mafie e diritti umani" tenutosi qualche settimana fa presso l'aula Falcone della Facoltà di Scienze politiche, una riflessione sul fenomeno mafioso e la conseguente violazione dei diritti umani che ha visto protagonisti tanti esperti tra cui il procuratore generale Leonardo Agueci e il capo della squadra mobile Rodolfo Ruperti. Ognuno di voi ha prestato servizio con grande professionalità e dedizione, ed è solo grazie al vostro impegno che siamo riusciti a portare avanti eventi di alto livello.

Il nostro non è soltanto un centro di ricerca e formazione. È molto di più e lungo tutto quest’anno ne avete dato prova. I.ME.SI. è prima di tutto uno strumento di crescita personale e di riflessione Ma è anche un’opportunità, culturale e professionale, che ci ha permesso di ripensare le prospettive e le speranze della nostra martoriata Regione. Ci siamo messi in gioco schierando sul campo le nostre capacità per costruire proposte concrete. Da quel torrido pomeriggio che ha fatto maturare in noi l’idea di dare vita a questo grande progetto sono passati tanti momenti. Non nego la presenza di momenti difficili e di sconforto ma insieme li abbiamo superati con successo. Oggi siamo testimonianza di una gioventù operosa e concreta, una gioventù del fare, orgogliosa delle proprie radici e consapevole dell’urgenza di un rinnovato slancio per costruire il domani. 

Un pensiero deferente va dunque al Segretario generale e a tutti voi membri dell’Istituto che, lungo tutto il 2015, avete lavorato all’organizzazione delle attività svolgendo la vostra funzione con impegno e dedizione esemplari."

Buon anno a tutti

Il Presidente
Gabriele Messina

La pace in Medioriente: può avvenire se si ritira l'Occidente

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

La pace in Medioriente: può avvenire se si ritira l'Occidente

 a cura di Rosario Fiore Cultore di diritto internazionale Unipa e
Segretario generale I.Me.Si



Ancora una volta il Santo Padre è tornato a parlare di Medioriente: l'ha fatto durante l'Urbi et Orbi il giorno di Natale, invocando la pace nei territori della Palestina. Ma quale pace ed in che termini? Occorre subito evidenziare che poche potenze occidentali sono interessate ad un Medioriente stabilizzato ed in pace; non lo sono certamente gli USA, non solo e non tanto perché la grande industria bellica si trova nel loro Paese, in mano peraltro a gruppi economici ebrei; ma soprattutto perché un'area politica come il Medioriente destabilizzata, dove vi è un tutti contro tutti, significa  per gli USA mantenere un ruolo di "grande mediatore" decidendo, volta per volta, quale regime privilegiare e rinforzare. Basti ricordare, ad esempio, che negli anni ottanta, durante il conflitto tra Iraq ed Iran, gli USA sostenevano ufficialmente il primo, anche se poi, sottobanco, vendeva armi al secondo, per finanziare i ribelli del Contras in Nicaragua: passerà alla storia come l'Irangate, mettendo in forte imbarazzo l'allora Amministrazione Reagan. 

Questa politica ambigua degli USA ha determinato, negli anni, la nascita continua e ciclica di uno Stato "nemico" dell'Occidente: l'Iraq di Saddam Hussein, l'Afghanistan dei Talebani, oggi lo Stato Islamico; tutti nemici degli USA ma tutti finanziati, direttamente o indirettamente, dal governo americano. Per una ragione politica molto ovvia: il Medioriente destabilizzato, in continua guerra anche di religione, eternamente diviso tra sunniti e sciiti, necessita sempre della presenza "salvifica" dell'Occidente, portatore degli ideali di pace e democrazia. Avere sempre un nemico da combattere, significa per gli USA avere sempre il pretesto di essere presente in Medioriente e soprattutto di fare soldi, tanti soldi, perché la guerra significa armi, e queste devono essere prodotte e vendute; significa distruzione, e questo vuol dire che poi si deve ricostruire.

La guerra, non la pace, è una fonte inesauribile di denaro; la guerra, tradizionale o terroristica come lo è oggi, significa anche e soprattutto dividere il mondo tra buoni e cattivi, tra bene e male, ed essere sempre dalla parte del bene, come lo si dichiarano gli USA, vuol dire essere un modello di leadership da seguire. Vuol dire comandare. Ecco, allora, che non potrà esserci pace in Medioriente se non vi sarà al contempo un ritiro della presenza occidentale nella zona: un ritiro che deve essere completo e soprattutto reale. Chi oggi dice di volere la pace in Medioriente non può non rilevare che costituisce un assurdo la pretesa di Israele, e di riflesso degli USA, il non volere la nascita di uno Stato palestinese: se Israele rivendica legittimamente il diritto di esistere, i palestinesi hanno l'altrettanto diritto di avere un proprio Stato, con Gerusalemme capitale di entrambi. Due popoli, due Stati. Nessuna subordinata. Sarà il 2016 l'anno propizio perché ciò possa avvenire? Noi ce lo auguriamo.

sabato 26 dicembre 2015

Terrorismo internazionale: un'analisi del fenomeno

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Terrorismo internazionale: un'analisi del fenomeno

Dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 il mondo sembra non essere più lo stesso: i ‘’nemici dell’umanità’’ sono cambiati, con l’affermarsi della globalizzazione anche il crimine si adegua e diventa globale.  Lo spettro del terrorismo internazionale si fa sempre più incombente e con esso cambiano le priorità degli Stati nazionali che si trovano a fronteggiare una minaccia diffusa ma al contempo nascosta, e proprio per questo, difficile da stanare. L’eterna dicotomia tra libertà civili e sicurezza si radicalizza fino a trovare una sintesi che sembra protendere verso il rifugio dalla paura, il controllo delle persone e dei dati. E’ il terrorismo internazionale, quindi, che viene individuato e rappresentato come la minaccia principale dello Status quo a livello Globale. In poco tempo partono numerose offensive armate, economiche e di intelligence su scala  globale sponsorizzate dalle grandi potenze occidentali, Stati Uniti in primis, che coinvolge il Medio Oriente, il Sud Est Asiatico, il Sud America , il Sahel e gli affari interni di tutti quei paesi direttamente o indirettamente coinvolti nelle attività terroristiche. Oggi sembra essere in corso una nuova stagione del terrorismo internazionale: con la nascita dell’ISIL , un gruppo di matrice islamista dalle origini apparentemente poco chiare, che, in poco tempo, è diventato l’organizzazione terroristica più potente del mondo sotto numerosi punti di vista come quello economico-finanziario, militare, territoriale e mediatico. Dagli attacchi dell’11 settembre, passando per la  guerra in Siria fino alle stragi di Parigi del 13 novembre, il terrorismo di matrice islamista è diventato così penetrante da diventare il soggetto principale con il quale l’immaginario collettivo identifica il fenomeno del terrorismo internazionale, percependo il fenomeno esclusivamente come una guerra alla civiltà occidentale e innescando ‘’soluzioni’’ a tratti scellerate e senza una strategia a lungo termine.  Tuttavia, un fenomeno di questa portata è più complesso e variegato di quanto possa apparire seguendo il flusso continuo di informazioni che propongono i Mass media tradizionali. Per capire e analizzare meglio le dimensioni e le criticità del terrorismo internazionale gli strumenti non mancano, uno di questi è il Global Terrorism Index sviluppato ogni anno da 15 anni dall’Institute for Economics and Peace, e basato sul database del terrorismo globale raccolto dal National Consortium for the Study of Terrorism and Responses to Terrorism (START)  presso l'Università del Maryland. Il Global Terrorism Index fornisce un riepilogo completo degli effetti del terrorismo in 162 paesi,  il 99% della popolazione mondiale. L’Istituto Mediterraneo Studi Internazionali ha provato a concentrarsi su alcuni dei principali ‘focus’ proposti all’interno del Global Terrorism Index. Continua a leggere...
Lorenzo Gagliano 

lunedì 21 dicembre 2015

Elezioni in Spagna: lo scacchiere è ormai multipolare ma si rischia lo stallo

#Specialeelezioni

Elezioni in Spagna: lo scacchiere è ormai multipolare ma si rischia lo stallo


Lo scenario politico che le recenti elezioni spagnole ci ha posto dinanzi mostra ciò che le cronache spagnole raccontano come “un cambiamento sistemico”, dal momento che è evidentemente venuto meno quello che era considerato il leitmotiv politico da quando esiste la democrazia in Spagna: “la stabilità delle larghe maggioranze”.

Fin dai sondaggi emergeva quella che sembra essere, al netto delle generalizzazioni, una tendenza che in Europa va espandendosi a macchia d'olio, ovvero il rilevante calo dei consensi di quegli “storici” partiti che tendono, più o meno espressamente, a preservare lo status quo, nella specificità spagnola i partiti rispettivamente di centro-destra e centro-sinistra, il Partito Popolare (PP) di Mariano Rajoy ed il Partito Socialista (PSOE) guidato dal giovane Pedro Sanchez. Dagli stessi sondaggi risultava invece ancora in crescita il partito di sinistra radicale nato dal movimento degli Indignados, Podemos, guidato da Pablo Iglesias, mentre l'elemento sorpresa sembrava poter essere “Ciudadanos” (Cittadini) di Albert Rivera, un partito che potremmo definire “liberale”(seppur Rivera si preoccupi molto di evitare qualsiasi etichetta politica), un partito che gioca sull'ambiguità della propria proposta politica e fa del populismo e del “perbenismo medio-borghese” i suoi cavalli di battaglia, puntando tutto sulle spiccate doti comunicative del proprio leader (uno stravagante test de “La vanguardia”, quotidiano catalano, mostra come la maggioranza delle donne spagnole lo identificano come il fidanzato ideale) e cavalcando l'onda della disillusione tra l'elettorato del PP.

I risultati però, seppur confermando alcune linee di tendenza, hanno dato un quadro ancora più complesso di quello che si sarebbe potuto prospettare. Dai dati definitivi si rileva come il primo partito sia ancora il PP di Mariano Rajoy con il 28,7% dei consensi (il peggior dato nella storia politica del leader “popolare”), 123 seggi su 350 alla camera, ma che tale risultato sia comunque numericamente insufficiente per avere la maggioranza, sarebbero stati necessari 176 seggi su 350. A seguire troviamo il PSOE con il 22% dei voti (il peggior risultato nella storia del partito), corrispondenti a 91 seggi. Si conferma invece ancora in crescita Podemos con il 20,7% dei consensi (69 seggi), mentre Ciudadanos, sconfessando un po' l'ottimismo dei sondaggi che lo davano chi intorno e chi oltre al 20%, si attesta al 13,9% con 40 seggi alla camera.

Confermato il fatto che lo storico bipolarismo spagnolo faccia ormai parte del passato, resta il problema per cui qualsiasi partito voglia porsi alla guida del paese, con i numeri emersi da questa tornata elettorale, non potrà farlo senza passare dallo “scacchiere delle alleanze”, che pare essere più complesso del passato.

Secondo la prassi il re spagnolo Felipe VI affiderà al leader del partito di maggioranza, in questo caso a Rajoy, il compito di tentare di formare l'esecutivo. Tale tentativo però potrebbe rivelarsi più arduo di quanto ci si possa aspettare, dal momento che Rajoy seppur alleandosi con  il partito che gli è politicamente più vicino, Ciudadanos, arriverebbe ad avere 163 seggi alla camera, comunque insufficienti per avere la maggioranza. L'onere di formare l'esecutivo potrebbe allora passare al leader del secondo partito, il socialista Pedro Sanchez, che teoricamente guardando a sinistra, così come sembra voler spingere la base del partito, avrebbe la possibilità di formare una maggioranza alleandosi con Podemos e con il partito minore Izquierda unida. Questa soluzione però sembra scontrarsi con alcuni ostacoli che potrebbero rivelarsi difficilmente superabili: in primo luogo il partito di Pablo Iglesias accetterebbe la coalizione a patto di portare avanti la riforma costituzionale che permetterebbe di indire un referendum sull'indipendenza della Catalogna, ma una concessione del genere potrebbe far perdere ai socialisti gran parte dei consensi in tutti i territori al di fuori dalla Catalogna; in secondo luogo una maggioranza formata da questo “blocco di sinistra” potrebbe causare una situazione di stallo perenne tra le camere, dal momento che al senato il PP continua ad avere la maggioranza; infine l'Europa, tramite i vertici di Bruxelles, ha già espresso il proprio dissenso per la formazione di un governo all'interno della cui maggioranza siano presenti delle forze politiche “euroscettiche” (in riferimento a Podemos e Izquierda Unida). La stessa Europa pare invece caldeggiare per una grande coalizione alla tedesca, che noi italiani abbiamo già imparato a conoscere, basata sull'alleanza dei due storici partiti rivali dell'ormai passata era del bipolarismo, nello specifico il Partito Popolare ed il Partito Socialista. Fino ad ora i socialisti sembrano orientati per il “no” alla coalizione, ma ciò non toglie che nei prossimi mesi possano, volenti o nolenti, rivedere la propria decisione. Anche perché  qualora non si riuscisse a formare un governo, questo “stallo politico” verrà tradotto nella necessità di avere nuove elezioni, e questa prospettiva di instabilità potrebbe non essere gradita dall'”Europa dei mercati” che, in quanto salvatrice dal default, pare avere un importante voce in capitolo nella politica interna spagnola.
Giovanni Tranchina

sabato 19 dicembre 2015

Libia: nasce il governo di Accordo Nazionale

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Libia: nasce il governo di Accordo Nazionale


L'Unione europea s'impegna a sostenere il governo imminente di Accordo Nazionale ed è pronto ad offrire un sostegno immediato e sostanziale in una serie di aree diverse: un pacchetto di aiuti € 100.000.000 è già disponibile per erogare servizi alla popolazione libica ha bisogno con urgenza. Nel 2011 la risoluzione 2009 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (CS) decise di istituire una missione di supporto in Libia (UNSMIL), sotto la guida di un rappresentante speciale del Segretario Generale per un periodo iniziale di tre mesi, e decise inoltre che il mandato del UNSMIL fosse quello di aiutare e sostenere gli sforzi del cittadino libico sforzi per :
  • ripristinare la pubblica sicurezza e l'ordine e promuovere lo stato di diritto;
  • intraprendere un dialogo politico inclusivo, promuovere la riconciliazione nazionale, e intraprendere la costituzione del processo decisionale ed elettorale;
  • estendere l'autorità dello Stato, anche attraverso il rafforzamento di emergenti istituzioni responsabili e il ripristino dei servizi pubblici;
  • promuovere e proteggere i diritti umani, in particolare per quelli appartenenti ai gruppi vulnerabili, e sostenere la giustizia di transizione;
  • adottare le misure immediate necessarie per avviare la ripresa economica;
La risoluzione quindi non si poneva come uno strumento di favoritismo per le parti del conflitto, ma come supporto alla società civile. Per questa ragione, anche se in principio l’operazione UNSMIL doveva durare solo tre mesi, le autorità competenti hanno deciso di rinnovarla annualmente, tanto che tutt’ora la missione è in corso, e più di prima necessaria.
Domenica 13 Dicembre, alla Conferenza internazionale sulla crisi in Libia hanno partecipato, oltre al Segretario di Stato americano John Kerry, e al Ministro degli affari esteri Paolo Gentiloni, le delegazioni del Parlamento libico di Tripoli e quelli di del Parlamento di Tobruk. La Conferenza, presieduta dall'inviato dell'ONU Martin Kobler aveva visto per la prima volta, dopo la crisi libica, molti ministri della regione interessata, tra questi Egitto, Algeria, Ciad, Emirati, Marocco, Niger, Qatar, Turchia, Tunisia, insieme a 10 paesi membri del Consiglio di Sicurezza. In effetti il fine dell’incontro più che la sorte libica, è stato lo smantellamento dell’ISIL: iniziando un percorso di unificazione nell’Africa del nord si può fare terra bruciata intorno alle cellule fedeli al califfato presenti nella zona.  Il frutto della Conferenza è stata la firma di un documento di unificazione presentato dalle delegazioni dei due parlamenti libici con la supervisione di Stati “garanti” della pace. Diciassette Paesi e quattro organizzazioni internazionali hanno formalizzato in un comunicato di una pagina le speranze e il sostegno per il governo di unità nazionale in Libia.
Lunedi 14 Dicembre, a Bruxelles, Federica Mogherini insieme alle delegazioni dei paesi dell’Unione europea ha evidenziato l’importanza del documento, da un lato perché tutta l’Europa ha espresso l’intenzione di unirsi alla sforzo che poteva comportare la fine della guerra civile, dall’altro ha evidenziato l’importanza delle misure diplomatiche. Solo due giorni dopo a Skhirat, in Marocco, i delegati del Congresso di Tripoli e quelli della Camera di Tobruk hanno firmato l'accordo per la creazione di un "governo di accordo nazionale", seguendo il piano proposto dalle Nazioni Unite. L'accordo è stato siglato da 90 deputati di Tobruk e dal 27 deputati di Tripoli, che però avevano con loro la "delega" di altri 42 deputati del General National Congress che ancora siede nella capitale. L'intesa ha creato un comitato di Presidenza di cui fanno parte 6 personalità che erano già state indicate dall'Onu (il premier Fayez Sarraj, i tre vicepremier Ahmed Maetig, Fathi Majbri e Musa Koni, e i due ministri Omar Aswad e Mohamed Ammar). L’unico e solo obiettivo del comitato di presidenza sarà quello di formare la lista dei ministri che costituiranno il governo vero e proprio, ed entro 40 giorni il governo dovrà insediarsi a Tripoli.
I buoni propositi da parte dei due partiti sembrano esserci questa volta, e mentre in queste ore in Libia si lavora per la creazione di un nuovi stato da strappare dalle mani del Califfato, giunge la nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che segue la stessa scia del percorso iniziato in Libia. Nonostante le minacce e gli ultimatum da parte dei due più grandi colossi dello scenario internazionale, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha adottato all'unanimità una risoluzione sulla Siria al termine del lungo vertice a New York per dare il via ai negoziati di pace formali tra il governo e l'opposizione, riservandosi tuttavia della decisione sulla sorte  del presidente Bashar al Assad. Sul futuro di quest’ultimo le sorti non sono ancora chiare, e ciò sembra legato alle divergenze permanenti in seno al Consiglio. Ad ogni modo una risoluzione formale che si esprime in termini di negoziati adesso esiste. Che segua le stesse sorti di quella in Libia, con il solo auspicio di tempi meno lunghi.  
Maria Elena Argano

venerdì 18 dicembre 2015

L'Argentina liberale di Mauricio Macri

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

L'Argentina liberale di Mauricio Macri
Il 25 ottobre 2015 oltre 22 milioni di Argentini sono stati chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Queste elezioni rappresentano un evento importante per la storia Argentina, ossia la fine dell’era dei dodici anni consecutivi di governo di Néstor Kirchner e di sua moglie Cristina Fernández. La vera chiave di lettura di queste elezioni è un'altra: ricordare che in Argentina la politica, ben prima che di destra e sinistra, è peronista. 

Per peronista si intende : un movimento politico-sociale promosso e diretto da Juan Domingo Perón (1895-1974),che fù il Presidente Argentino dal 1946 al 1955 e poi nuovamente dal 1973 fino alla morte: con l’appoggio dell’esercito e dei sindacati operai, egli perseguì una linea politica, da lui stesso denominata giustizialismo caratterizzata all’interno del paese dall’adozione di provvedimenti assistenzialistici ispirati a un demagogico populismo e da un’esasperata incentivazione della produttività finalizzata all’autarchia economica, cui faceva riscontro, in politica estera, una netta professione di nazionalismo e di equidistanza dai blocchi capitalista e comunista. E’ stato un partito, molto radicato sul territorio, i cui i princìpi di giustizia, uguaglianza e solidarietà soverchiavano tutto il resto. La competizione elettorale ha visto in gara sei candidati, di cui solo tre in grado di ambire alla carica di presidente.

Si tratta di Daniel Scioli, governatore della provincia di Buenos Aires e candidato oficialista in grado di assicurare la continuità con il peronismo di matrice kirchnerista rappresentato dal Frente para la Victoria (FpV); Sergio Massa, peronista “dissidente” fuoriuscito un paio d’anni fa dalla corrente maggioritaria con il suo Frente Renovador (FR); e Mauricio Macri, ex imprenditore e attuale sindaco della capitale, vero outsider di questa tornata, esponente della coalizione di centro-destra Cambiemos. 

I sondaggi hanno costantemente premiato Scioli, attribuendogli un vantaggio di circa dieci punti percentuali rispetto a Macri (con oscillazioni rispettivamente intorno al 40% e al 30%). Le votazioni hanno visto un 2° ballottaggio che ha decretato il nuovo Presidente della repubblica Argentina il 22 di Novembre, mentre l’insediamento è avvenuto proprio il 10 Dicembre. Le elezioni hanno previsto anche il rinnovo di metà del parlamento (130 deputati e 24 senatori).

Le recenti elezioni si sono svolte in un contesto complesso dal punto di vista economico. A dispetto di una stabilità politica favorita dal profondo radicamento del kirchnerismo nelle istituzioni Argentine, sia a livello federale che provinciale, la seconda economia sudamericana sta attraversando un periodo di stagnazione che rischia di essere il preamobolo di una nuova crisi economica. La fine del “boom” delle materie prime (i prezzi internazionali delle commodities agricole sono infatti scesi bruscamente), su cui Buenos Aires aveva impostato il proprio sviluppo grazie a massicce esportazioni di soia e carne, unitamente a una continua espansione della spesa pubblica basata su un modello assistenzialista e al prolungato isolamento dai mercati finanziari internazionali (l’Argentina sconta tuttora il default sul debito estero del dicembre 2001), hanno contribuito a far scivolare il paese, in modo preoccupante verso una nuova recessione (secondo il Fondo Monetario Internazionale il PIL crescerà quest’anno soltanto dello 0,5%, mentre nel 2016 potrebbe calare dello 0,7%). Una situazione che dovrà essere affrontata con urgenza dal prossimo Presidente Argentino . 

Vi sono poi anche condizioni esterne che favoriscono il ritorno di capitali verso Buenos Aires: l'eccesso di liquidità presente in molte piazze finanziarie e i bassi tassi di interesse. E infine il crescente rischio di altre economie emergenti (Russia, Brasile, Venezuela) ha indotto a riconsiderare l'Argentina come Paese interessante. La conferma di quest'interesse per l'Argentina arriva dalle parole dell'analista Vladimir Werning, di J.P. Morgan Asset Management , secondo cui, chi ha acquistato titoli argentini nel 2013, li tiene in portafoglio pensando di portare a casa guadagni dopo le presidenziali d'autunno.

Dall’inizio del 2015 i titoli pubblici Argentini recuperano posizioni. Tanto che da inizio 2015 il “rischio paese” Argentino, misurato attraverso lo spread di rendimento dai titoli di Stato statunitensi dai tango bond, è calato del 19%. Tre i fattori che potrebbero spiegare il fenomeno: il Quantitative easing di Mario Draghi, che non riguarda solo l’Europa ma di cui beneficia anche il resto del mondo e più che altri l'Argentina; inoltre le elezioni presidenziali argentine del prossimo ottobre cambierebbero lo scenario politico e l'eccesso di liquidità sulle piazze mondiali cerca mercati emergenti.

Secondo il Wall Street Journal, le riserve si sono dimezzate dal 2011 a circa 27 miliardi di dollari: qualunque sia il prossimo presidente, dovrà prendere misure impopolari per tamponare questa emorragia. Basta pensare che il gap tra il cambio ufficiale e quello che accade per le strade è vicino al 70%: sul mercato servono 16,05 pesos per dollaro, contro i 9,52 pesos ufficiali.

Purtroppo l'Argentina, uno dei granai del mondo, è un Paese che produce cibo per 400 milioni di persone ma non riesce a sfamare tutti i suoi 40 milioni di abitanti.( Clientele, corruzione, inefficienze e una democrazia ancora giovane) . L'ultima dittatura è terminata nel 1983.

L'eredità economica è stata il tema centrale degli ultimi dibattiti pre-elettorali. Pur con un aumento dei consumi di cui hanno beneficiato i meno abbienti, l'Argentina non cresce da quattro anni. E l'inflazione è vicina al 30%, una delle più alte al mondo.

Dunque Scioli o Macri ? I sondaggi prevedevano la vittoria di Macri.

Al primo turno, il 25 ottobre, avevano previsto una vittoria schiacciante di Scioli, con il 41% dei voti, senza bisogno di ricorrere al ballottaggio. Non è andata così.

Intanto il Papa, argentino, ha seguito con grande attenzione le ultime battute della campagna elettorale. Bergoglio non ha ovviamente espresso alcun orientamento ma le scelte troppo “aperturiste” di Macri su aborto e matrimoni gay non gli sono mai piaciute.

Mauricio Macri è il nuovo presidente di un’Argentina che ha voltato pagina. Macri ottiene il 51,4% dei voti, staccando di poco il rivale Daniel Scioli che ha incassato il 48,6 per cento.

Macri si definisce liberale e rappresenta una grande novità per un paese così complesso come l’Argentina.

Eppure il segnale è forte e quella attuale può essere definita una svolta storica: si è affermato un partito liberale, il Pro (Propuesta republicana). E in Argentina non accadeva da 99 anni. I due partiti tradizionali, il peronismo e il radicalismo, hanno sempre dominato la scena, con una netta prevalenza del primo, il peronismo.

La svolta più attesa riguarda l'apertura dell'economia, finora caratterizzata da misure protezionistiche, poco attente alle reali esigenze delle imprese. Non sarà un mandato facile, non solo per i problemi dell'economia.

Ridurre il tasso di inflazione, mettere in ordine i conti pubblici ed eliminare le distorsioni sul tasso di cambio. Questi sono gli obiettivi prioritari : Ridurre il tasso di inflazione, mettere in ordine i conti pubblici ed eliminare le distorsioni sul tasso di cambio, per risollevare la situazione economica Argentina che il futuro presidente dovrà perseguire. Chiunque dovesse uscire vincitore dalle elezioni dovrà fare di tutto per rilanciare la crescita.

È spesso difficile valutare l'andamento della congiuntura di un paese ed è ancora più difficile quando il paese in questione è l'Argentina. Le previsioni del governo argentino mostrano un’economia in ripresa con un tasso di crescita del PIL intorno al 2%, mentre le ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale indicano una crescita dello 0,4% quest’anno, simile al 2014. Comunque la crescita quest'anno sarà sicuramente inferiore al tasso medio dei dieci anni passati (pari al 5,1%). Anche per quanto riguarda l'inflazione è difficile avere un quadro accurato: infatti in base ai dati ufficiali l'inflazione al consumo si aggira intorno al 15%, mentre fonti alternative, considerate da molti più credibili di quelle ufficiali, stimano un tasso di inflazione intorno al 27% (State Street, PriceStats).

Il ritorno alla crescita dipenderà dalla possibilità di accedere a finanziamenti sui mercati internazionali.

Mauricio Macri, 56 anni, ingegnere, ha guidato una coalizione denominata “Cambiemos”. È figlio di Franco Macri, un italiano emigrato in Argentina a 18 anni, un self made man che ha costruito un impero con interessi nell'edilizia, nell'agricoltura, nello sport. Nel 1975, quando il presidente eletto ieri, Mauricio, aveva 18 anni, venne rapito il fratello Jose, fu Mauricio a gestire i negoziati con i sequestratori che dopo aver incassato 6 milioni di dollari furono rintracciati e arrestati.

Edward Richard Junior Bosco

sabato 12 dicembre 2015

Elezioni regionali: in Francia non è più tempo per la moderazione

#Specialeelezioni

Elezioni regionali: in Francia non è più tempo per la moderazione


In Francia si è da poco concluso il primo turno delle elezioni regionali tenutosi nelle ormai 13 regioni francesi, in seguito all'accorpamento delle precedenti 22 avvenuto con la riforma territoriale del 2014. Domani sarà la volta del secondo turno. I risultati sembrano aver spiazzato l'opinione pubblica francese e non solo, con la momentanea vittoria del partito di estrema destra “Front National” in 6 delle 13 regioni, in alcune delle quali ottenuta con un ampio margine di vantaggio, come nella regione Nord-Pas-de-Calais-Picardie dove proprio la leader del FN Marine Le Pen ha ottenuto il 42,2% dei voti e nella Provence-Alpes-Cote d'Azur, dove la lista di Marion Maréchal Le Pen, nipote di Marine, ha ottenuto il 41 per cento dei voti, distanziando di oltre dieci punti il candidato della destra. Delle restanti 7 regioni, in 4 sono momentaneamente in vantaggio i Repubblicani guidati da Nicolas Sarkozy e solo in 3 regioni i grandi sconfitti di questa prima tornata elettorale, i Socialisti di Francois Hollande.

Un elemento importante però è che a fronte di un'affluenza alle urne del 51%, dato confortante a detta dei media convenzionali, anche se in realtà piuttosto preoccupante, sopratutto se si attesta che in Europa esistono ormai livelli di astensionismo fissi intorno al 50%, comunque il FN si è rivelato essere il primo partito col 27,76%, seguito dalla destra repubblicana col 26,65% e dal 23,12% della sinistra, percentuali che potrebbero dare indicazioni importanti anche in vista delle elezioni presidenziali che si svolgeranno nel 2017.

Seppur sia legittimo guardare con preoccupazione alla vittoria, seppur momentanea, di un partito che ha fatto e continua a fare del populismo xenofobo uno dei suoi cavalli di battaglia, dall'altra parte non si può certo spiegare questo successo con le vecchie categorie del “voto di protesta”, così come si fece in Italia con l'iniziale ascesa politica del Movimento 5 Stelle, erroneamente anche in quel caso. I voti al Front National arrivano in gran parte dalle classi popolari, non è un caso che laddove si è notificata una più alta percentuale di votanti il FN è in vantaggio, inoltre molti dei voti frontisti vengono da gente che da anni ha votato comunista.

La gente comune, non solo in Francia, ha perso ogni speranza nella politica tradizionale, quella del compromesso e della moderazione, un tipo di politica che si è totalmente allontanata dal demos lasciando in ballo una popolazione di delusi, emarginati, dimenticati che si incarnano in questo voto che è post-ideologico, frutto di una scelta dettata fortemente dal desolante contesto politico più che da un'adesione a certi valori. Ma è certamente un segnale forte che il popolo francese manda anche alla gelida tecnocrazia di Bruxelles che in questi anni si è fatta conoscere da queste fasce di popolazione solo per i tanto caldeggiati tagli ai servizi pubblici e per le misure di austerità.

La classe politica francese ed europea, più che restare impressionata dai primi risultati di queste elezioni regionali, dovrebbero preoccuparsi della gigantesca frattura che hanno creato col popolo in anni di politiche attuate in nome dell'unica grande ideologia che continua ad esistere, quella neoliberista, che ha portato il popolo francese a preferire le “politiche dell'odio” alle ormai ben note “politiche del profitto”. Il che non può che lasciar prospettare un quadro politico altrettanto desolante.

Resta comunque il fatto che, seppur questi risultati abbiano dato dei segnali importanti, siamo ancora al primo ballottaggio e che le strategie politiche per il secondo turno cominciano già a prendere piede. I socialisti di Hollande ad esempio, avendo preso atto della sonora sconfitta, sono già fortemente orientati a non presentarsi al ballottaggio successivo in alcune regioni, consigliando neanche troppo implicitamente ai propri elettori di ostacolare i frontisti di Marine Le Pen. Per questa ragione i sondaggi danno momentaneamente in vantaggio per il secondo turno la destra Repubblicana, ma quest'ulteriore mossa politica potrebbe ancora una volta favorire il Front National, anche perché sembra che in Francia il tempo della moderazione sia finito.
Giovanni Tranchina

mercoledì 9 dicembre 2015

Il Giubileo della misericordia: tra perdono e paura

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Il Giubileo della misericordia: tra perdono e paura


Quindici anni fa con Giovanni Paolo II, oggi la Porta Santa si riapre con Papa Francesco. Un evento di grande rilevanza che rimette l'Italia al centro dell'attenzione mondiale dopo i sei mesi di Expo a Milano. Cosa rappresenti il Giubileo non è chiaro a tutti, soprattutto ai non credenti; ordinariamente si celebra il giubileo, inteso come anno della remissione dei peccati, ogni 25 anni (intervallo stabilito da Papa Paolo II nel 1470), ma papa Francesco ne ha indetto uno "straordinario", quello della misericordia di Dio. Durante l'Angelus di questa mattina papa Bergoglio ha ribadito: "serve lo spirito del buon samaritano", twittando successivamente: "che il giubileo della misericordia porti a tutti la bontà e la tenerezza di Dio". Parole consapevoli di un'importante figura religiosa che vuol chiaramente lanciare un messaggio al mondo intero. All'apertura della Porta Santa il primo a seguire Bergoglio è stato papa Ratzinger, piacevolmente accolto dai fedeli tutti. È proprio questo uno degli aspetti più rilevanti della giornata e che ben si accosta al tema della misericordia, un tema che, tra l'altro, accomuna tutte le religioni (dalla cristiana cattolica alla protestante, alla fede ebraica sino a quella musulmana). E proprio in un mondo in cui la fede diventa pretesto, più o meno veritiero, di guerra, di morte e di terrore, un evento come questo non può che lasciar sperare ad una riflessione ponderata e globale al tempo stesso.

Un dato che fa riflettere però è la presenza di una folla meno folta di quanto ci si aspettava a Piazza San Pietro (circa 50.000 fedeli). Dato che è saltato persino agli occhi di Papa Francesco. Quest'ultimo con un particolare invito, infatti, sollecita i fedeli a non aver paura. La cronaca parla di "giubileo blindato", se non anche di "primo giubileo della sicurezza", proprio perché le minacce di attentati non hanno tardato a presentarsi nei giorni passati. Il livello di allerta è elevato: all'ingresso di piazza San Pietro sono presenti metal detector e vengono continuamente fatte perquisizioni, è stata imposta la no fly zone e 2000 telecamere sono state istallate in tutta la città. Anche se Roma è blindata, anche se vi è fiducia nella misericordia, tema centrale di questo anno di giubileo, e anche se la Santa sede chiede di lanciare un forte segnale a tutto il mondo non cedendo alle minacce, tuttavia molti fedeli non hanno voluto correre alcun pericolo ed hanno preferito non recarsi a piazza San Pietro. 

Sappiamo cosa significhi misericordia, ovvero sentimento di compassione (da "miserere") e volontà di riconciliazione, ma non sappiamo oggi in cosa si debba concretizzare. Di certo si potrebbe far riferimento alla cessazione delle ostilità di ogni tipo, all'eliminazione di ogni pregiudizio, alla cooperazione globale. Ma ciò rimane, ancora e purtroppo, una speranza e più spesso resta solo una riflessione alla quale non si permette ampia discussione o ampio dibattito finanche all'interno dei grandi "palazzi della pace", dove il sentimento di Misericordia resta astratto; quei palazzi, sedi delle organizzazioni internazionali, dai quali troppo spesso ormai vengono fuori delle resolutions piene di misericordia (oserei dire) che però non sono vincolanti per i paesi che le compongono o verso le quali sono indirizzate. 

Il male che affligge il nostro pianeta, frutto dei gesti aberranti dell'uomo, è ormai ovunque. E proprio mentre papa Francesco si appellava alla misericordia, quasi come per voler far sentire la sua voce, il male è tornato a bussare alle nostre orecchie: ore 13:45, "naufragato un barcone di immigrati al largo della costa egea della Turchia, ritrovati i cadaveri di sei bambini." 
Davide Spinnato

martedì 8 dicembre 2015

Attentato alla storia

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Attentato alla Storia


La storia è quanto di più prezioso un popolo possa possedere; la storia conferisce identità, e per questo trasmette un senso di profonda sicurezza, sicurezza nel fatto che, benché all’uomo si possa togliere tutto, i beni materiali, la dignità, persino la vita, la storia non cesserà mai di esistere. Proprio per ricordarsi costantemente di avere un passato, e quindi una storia, gli uomini hanno dato vita alla scrittura, all’arte, all’architettura, all’urbanistica; cosa sono tutte queste discipline se non l’espressione del puro desiderio dell’uomo di lasciare una traccia di sé, di lasciare una traccia nella storia? L’uomo ha un immenso potere sulla storia e può accadere che intere città, dozzine di opere d’arte, monumenti, libri vengano completamente distrutti perché, laddove la morte dell’uomo non è sufficiente, deve subentrare la morte della storia. È possibile dunque affermare che sia questo uno degli obiettivi dello Stato Islamico? Le notizie di cronaca dell’ultimo periodo ci hanno mostrato sanguinosi attentati, in cui hanno perso la vita o subito profonde ferite, fisiche e non, numerosissimi civili. Non bisogna però dimenticare che, parallelamente agli spargimenti di sangue, lo Stato Islamico sta mettendo lentamente e inesorabilmente in atto un altro processo di distruzione, che ha colpito numerosi monumenti, baluardi di una storia antichissima. Uno degli ultimi eventi, che ha profondamente sconvolto gli archeologi, risale a non più di un paio di mesi fa, quando l’Arco di trionfo romano di Palmira, la cui costruzione viene fatta risalire all’incirca a duemila anni fa, è stato bombardato e raso al suolo quasi completamente (il corpo centrale e i due archi laterali sono andati irrimediabilmente distrutti). Già da diversi mesi la città di Palmira era finita sul mirino dello Stato Islamico. Dopo essere stata occupata, nel Maggio del 2015, la città era stata protagonista di numerosi attacchi, diretti alla distruzione dell’intera area archeologica: dal tempio di Bel, alle tombe a torre edificate nel primo secolo d.C., alle antiche torri funerarie dove riposavano i resti delle famiglie più ricche dell’antica città. Tutto distrutto, o quasi. Ciò che non è stato distrutto, come l’anfiteatro romano, è divenuto luogo di sanguinose esecuzioni, prima fra tutte quella di Khaled Assad, archeologo ottantaduenne, ormai ex responsabile del sito archeologico della città, decapitato in pubblico e appeso a una colonna in una piazza nei pressi delle rovine. Seppur in pensione da ormai una decina d’anni l’archeologo si era personalmente impegnato nella tutela dei beni archeologici di Palmira, arrivando persino a nascondere manufatti e altri oggetti per evitare che quella parte di storia andasse irrimediabilmente distrutta. Eppure questo non è bastato, e a Palmira, come a molte altre città vittime della stessa distruzione (prima fra tutte Nimrud), viene sottratto ogni giorno un pezzo sempre più importante di storia. “Palmira potrebbe scomparire- afferma Màmum Abdelkarim, direttore generale siriano dell’Antichità e dei musei di Damasco- nel giro di tre o quattro mesi se lo Stato Islamico continuerà la sua distruzione”. Al momento della fondazione dello Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi era stato molto chiaro sui principi che avrebbero fatto da pilastro all’azione dello stesso, a cominciare dalla volontà di distruggere tutto ciò che potesse rappresentare il periodo precedente alla rivelazione di Maometto, monumenti archeologici compresi. Ancora una volta un richiamo a Maometto, da cui molti hanno tratto la conclusione che un tale scempio potesse essere giustificato alla luce dell’iconoclastia; e ancora una volta un’interpretazione assolutamente fuorviante dei principi della religione islamica. “L’Islam è cultura, non barbarie.- ha affermato l’autorevole studioso Nabil el Fattah- E l’arte ne è una parte fondamentale. I criminali che hanno distrutto le statue al museo di Mosul e distrutto siti di valore archeologico inestimabile in Iraq e Siria, non sono propugnatori di uno scontro di civiltà, ma nemici della civiltà tout court, di quella islamica innanzitutto”.  Più che culturale o religioso il movente si rivela fortemente strategico, indirizzato non solo a una cancellazione totale del passato, ma anche all’esercizio di una forte pressione di tipo psicologico sulle popolazioni locali che, oltre che della propria storia, si vedono privati di una risorsa di guadagno come può essere un sito archeologico celebre fra i turisti di tutto il mondo. Lo Stato Islamico, d’altra parte, non è nuovo alle manipolazioni: dai messaggi nei social network, alle esecuzioni filmate secondo una complessa regia, alla strumentalizzazione dell’industria musicale, tutto pur di fare proselitismo. A monte di ogni possibile motivazione, sta tuttavia un’abitudine, un’abitudine storica radicata nell’uomo per cui la guerra comporta anche questo tipo di distruzione. La storia, soprattutto quella moderna e contemporanea, è piena di esempi simili, a partire dai grandi roghi di libri e opere d’arte allestiti nelle piazze di tutte le città europee da parte dei nazisti, continuando con lo scempio da parte di militari polacchi e americani nel sito archeologico di Babilonia, che divenne ben presto una base militare, o l’assalto dei talebani ai Buddah di Bamiyan in Afghanistan, fino ad arrivare a dei presunti raid russi sulla stessa Palmira agli inizi di Novembre per scongiurare l’avanzata dello stato islamico.  La distruzione di un monumento passa sempre troppo sotto silenzio, in parte perché la perdita di vite umane risulta molto più grave e dolorosa e in parte perché il patrimonio culturale è interesse di pochi e per gli altri non rappresenta una priorità. Una città come Palmira, ad esempio, benchè dichiarata Bene protetto e Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, non è riuscita a sfuggire alla distruzione, poiché la bellezza del sito, pur essendo stata ampiamente riconosciuta, non è stata sottoposta ad alcun tipo di tutela. Proprio l’Unesco, nata nel 1972 per tutelare il patrimonio culturale e esaltare il valore di scienza e cultura, mostra in pieno tutta l’ambiguità del rapporto tra cultura e istituzioni: essa si fonda infatti su due principi fondamentali, ovvero la responsabilizzazione dello stato territoriale da una parte, e la complementarietà dell’azione della comunità internazionale dall’altra. Le due azioni, compenetrandosi, dovrebbero assicurare una tutela effettiva ed efficace che però viene totalmente a mancare dal momento che la Convenzione del 72 non prevede possibilità di intervento attivo di tutela se non con il benestare dello stato territoriale, da cui dipende in parte anche l’erogazione dei fondi necessari ad eventuali lavori di recupero in casi di emergenza. Sicuramente da un punto di vista meramente giuridico la strada da percorrere affinché il patrimonio culturale sia sottoposto a una salvaguardia effettiva è ancora lunga; ma ancor più lunga da percorrere è la strada che prevede la presa di coscienza, da parte degli individui, della necessità di rispettare il patrimonio culturale in quanto espressione diretta della storia dei popoli.
Alessia Girgenti