martedì 18 ottobre 2016

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lunedì 3 ottobre 2016

Il naufragio di Lampedusa

Il naufragio di Lampedusa



Il 3 ottobre 2013 un’imbarcazione carica di rifugiati in maggioranza eritrei affonda a mezzo miglio dalle coste di Lampedusa. La conta, alla fine è di 368 morti tra bambini, donne e uomini. I corpi delle vittime vengono recuperati tutti e per la prima volta nella storia dei naufragi del Mediterraneo, si mostrano al mondo in un drammatico grido di aiuto collettivo.

Sono eritrei, somali e ghanesi gli immigrati che all'alba si trovavano sul barcone naufragato all'alba al largo di Lampedusa. Alle 7:00 circa locali alcune imbarcazioni civili e pescherecci locali hanno notato i naufraghi e dato l'allarme caricando la maggior parte dei superstiti a bordo; numerosi dubbi, in seguito a testimonianze, vi sono in merito ai tempi di arrivo dei soccorsi da parte della Guardia costiera che apparentemente ha impiegato quasi un'ora per raggiungere il luogo del naufragio.

A seguito delle prime operazioni di recupero, 194 corpi sono stati tratti dalle acque e il numero delle vittime, a quel momento era stimato tra i 325 e 363 individui. Altri 108 corpi sono stati recuperati entro il 9 ottobre, quando è stato possibile accedere alla parte interna dello scafo dell'imbarcazione poggiata sul fondo a circa 47 metri sotto la superficie dell'acqua. Quando il numero dei corpi recuperati era di 302, 210 di essi appartenevano a uomini, 83 a donne e 9 a bambini. L'11 ottobre, è stato riferito che tutti i corpi erano stati recuperati dal vascello e che il numero dei morti aveva raggiunto i 368. 

In risposta alla tragedia, Cecilia Malmström, commissario europeo per gli affari interni ha sollecitato l'Unione europea a incrementare le attività di ricerca nel Mediterraneo con pattuglie di soccorso e intervento dedicate a intercettare le imbarcazioni di migranti attraverso l'agenzia Frontex

In seguito al naufragio di Lampedusa, il governo italiano, guidato dal presidente del consiglio Enrico Letta, ha deciso di rafforzare il dispositivo nazionale per il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando l'Operazione Mare nostrum, una missione militare ed umanitaria la cui finalità era di prestare soccorso ai clandestini prima che possano ripetersi altri tragici eventi nel Mediterraneo.

A partire da novembre 2014, l'operazione Mare nostrum è stata sostituita da "Frontex Plus" (Triton) un programma a guida UE che puntava al controllo delle frontiere.

Tuttavia queste operazioni, pur avendo salvato vite, si sono dimostrate inadeguate al flusso crescente dei migranti provenienti dalla Libia. Infatti nel maggio 2015 è stata istituita l’Operazione Sophia – EUNAVFOR Med, a guida UE. Questa operazione è successiva all'operazione di ricerca e di soccorso Mare nostrum del governo italiano e all'operazione di controllo delle frontiere Triton dell'agenzia Frontex.

L'EUNAVFOR Med consiste di tre fasi:

· la prima fase, già conclusa, si concentrava sulla sorveglianza e la valutazione delle reti di contrabbando e traffico di esseri umani nel Mediterraneo

· la seconda fase dell'operazione, ancora in corso, prevede la ricerca e, se necessario, diversione di navi sospette

· la terza fase, in fase di inizio, consente lo smaltimento delle navi e delle relative attrezzature, preferibilmente prima dell'uso, e di fermare i trafficanti e contrabbandieri.

L'Unione europea ha stanziato un bilancio comune di 11.820.000 euro per un periodo di 12 mesi. Inoltre, le attività militari e il personale sono forniti dagli stati che contribuiscono all'operazione, con costi e spese per il personale stabiliti in base alla normale spesa nazionale. 

Il 16 marzo 2016 il Senato italiano ha approvato in via definitiva la legge che istituisce la Giornata della Memoria e dell’accoglienza, da celebrarsi il 3 ottobre. Durante questo giorno si ricorderanno tutti i migranti morti nel tentativo di fuggire da persecuzioni, guerre e miseria. Nel terzo anniversario del naufragio in cui persero la vita 368 migranti, 25 sopravvissuti si sono ritrovati sull'isola per raccontare le loro storie. E per chiedere che stragi come quella non si ripetano più. Di seguito è riportato un estratto delle testimonianze di sopravissuti che sono tornati a Lampedusa per ricordare il tragico giorno[1]:

"Mi chiedete se mi sento integrato, in Svezia dove vivo ormai da un paio di anni: la risposta è abbastanza. Devo ancora migliorare l'uso della lingua, ambientarsi non è facile per nessuno. Alla fine succede che noi eritrei ci frequentiamo solo tra di noi. Gli svedesi ci trattano bene, non sento insofferenza, ma sanno anche come mantenere le distanze". Mi chiedete se mi sento europeo: la risposta non ce l'ho, sono io che sono venuto in Europa, non l'Europa che è venuta in Africa". (GERE, 30 ANNI)

"Abbiamo tutti perso tanto, troppo. Ho visto morire mia cugina davanti ai miei occhi, ho visto affogare i miei amici. Il viaggio è stato terrificante, non sapevamo cosa ci aspettava. Oggi dico che non lo so più se ne è valsa davvero la pena. Vivo a Hiyanger, nella provincia norvegese di Sognogfjorde. La cittadinanza me la daranno tra sette anni. Non so cosa farò nella vita, è troppo presto per dirlo. Per ora posso studiare, e di questo ringrazio il governo norvegese". (ABRAHAM, 24 ANNI)
Maria Elena Argano

venerdì 30 settembre 2016

Un referendum pericoloso?

Un referendum pericoloso?


Il 25 settembre 2016 si è tenuto nell’entità della Republika Sprska, in Bosnia-Erzegovina, un referendum per approvare una festività chiamata “il giorno della statualità” il 9 gennaio, commemorando l’omonima data del 1992 in cui la Republika Sprska dichiarò la secessione dall’ex repubblica socialista jugoslava della Bosnia Erzegovina. Il quesito nello specifico era formulato così: volete mantenere o no il la festa del giorno della statualità?. L'esito ha visto una vittoria del sì al 99,79%, con una partecipazione superiore al 60% degli aventi diritto. Il referendum, promosso dall’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) guidati da Milorad Dodik, non ha avuto vita facile e prima ancora di essere celebrato è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale bosniaca; infatti la Corte aveva, già nei mesi precedenti, dichiarato incostituzionale la festività nazionale del 9 gennaio, celebrata solo nella Republika Sprska e che commemorava la secessione della Republika Sprska, che secondo i bosgnacchi portò allo scoppio della guerra civile. La Corte ha motivato la decisione affermando che, tenuto conto del principio di uguaglianza delle nazionalità costitutive, è discriminatoria contro i non-Serbi, in quanto la festività è obbligatoria per tutti (inclusi i bosgnacchi che vivono nell’entità della Republika Sprska) e coincide con una festività religiosa serba ortodossa. 

Si potrebbe argomentare che in realtà ogni festa nazionale discrimina contro una minoranza che vive all’interno dei confini dello stato, e che quindi abbia un contenuto politico nel senso che esclude un potenziale nemico all’interno della comunità. Tuttavia è innegabile che il referendum abbia un significato politico molto più ampio di quello sovracitato. Molto del clamore nasce dal timore dei bosgnacchi; infatti i musulmani temono che la vittoria del sì costituisca il prodromo per l’inizio di nuove tensioni etniche nel paese nel migliore dei casi, nonché l’inizio della fine dell’assetto costituzionale che venne creato dagli accordi di Dayton. Questi accordi sono, a più di vent’anni di distanza, estremamente controversi perché da un lato sono riusciti a terminare un conflitto civile che pareva eterno, e dall’altro hanno creato uno stato diviso in due entità a compartimenti stagni (Republika Sprska a maggioranza serba da un lato e Repubblica di Bosnia-Erzegovina a maggioranza musulmana-croata dall’altro), bloccato dai veti reciproci delle varie nazionalità che lo costituiscono, e dal vincolo della logica consensuale che rendono il sistema politico bloccato. Inoltre, vi sono altri effetti collaterali legati al trattato poiché la divisione del paese in repubbliche su base nazionali ha naturalmente favorito i partiti nazionalisti, gli stessi che presentano una forma di continuità con i partiti che contribuirono allo scoppio della guerra civile degli anni ‘90. Infine, le varie nazionalità all’interno delle entità possono dialogare in ogni momento con i paesi che più desiderano, creando così di fatto una frammentazione della politica estera su base nazionale. 

In questo senso i bosgnacchi, temendo una secessione della Republika Sprska si sono mossi su due binari. Da un lato il governo federale ha provato in tutti i modi ad ostacolare il referendum legalmente, dichiarandolo incostituzionale, e tecnicamente, rifiutandosi di fornire le liste degli elettori alla Republika Sprska. Dall’altro ha internazionalizzato la questione, chiedendo il supporto diplomatico alla Turchia, all’UE e agli USA. Soprattutto gli ultimi due hanno fornito supporto legato al probabile futuro collasso degli accordi di Dayton ed un possibile conflitto, ma che comunque è stato molto più freddo di quanto ci si poteva attendere. Infatti, sebbene l’UE abbia espresso attraverso il proprio ambasciatore in Bosnia-Erzegovina, Lars-Gunnar Wigemark, la propria contrarietà a un referendum, ritenuto non necessario, e “prova di come le politiche etno-nazionaliste siano usate da persone non interessate a qualsiasi cambiamento positivo”. Ha anche aggiunto che la Bosnia-Erzegovina del 2016 non è quella del 1992, e dunque questo referendum non è da interpretare in chiave di conflitti imminenti, ma piuttosto come un evento organizzato in modo propedeutico alle elezioni locali. Difatti le elezioni municipali nella Republika Sprska si svolgeranno il 2 ottobre, e la vittoria dell’SNSD permetterà di riaffermare a Dodik, per l’ennesima volta, la propria egemonia nell’entità. Oltre a ciò, gli alleati dei bosgnacchi stanno affrontando una serie di questioni che sono ritenute più prioritarie rispetto ad un ulteriore intervento nella regione. Infatti il conflitto siriano imperversa senza che qualcuno riesca a trovare uno sbocco, a parte ironicamente, proporre una nuova Dayton per la Siria, l’UE sta cercando di trovare uno soluzione alla sommatorie di crisi che la affliggono, mentre nel frattempo si attende l’esito delle elezioni presidenziali statunitensi. 

Dall’altro lato dello spettro, Dodik è un politico navigato, già primo ministro della Republika Sprska nel 1998 e presidente della Republika dal 2010, il quale ha utilizzato più volte una retorica apertamente secessionista. Rileggendo le sue dichiarazioni è inevitabile non ripensare al progetto della “Grande Serbia”, che fu una delle cause della guerra civile degli anni ‘90, e attraverso cui la Republika Sprska mirava a ricongiungersi alla Serbia. Nelle settimane precedenti lo svolgimento del referendum, apparentemente la posta in gioco era molto più alta che una festa nazionale. Era infatti in gioco la sopravvivenza stessa della Republika Sprska e della possibilità che esistesse un’entità capace di accogliere la travagliata minoranza etnica serba. Dodik, l’SNSD e i suoi sostenitori affermavano che qualora fosse stata impedito alla Republika Sprska di mantenere una festa nazionale, si sarebbe spianata la strada che sul lungo periodo avrebbe portato alla scomparsa stessa della Republika. Analogamente a quanto fatto dai bosgnacchi, anche i serbo-bosniaci hanno provato a internazionalizzare il referendum, ma con esiti solo leggermente più favorevoli, chiedendo aiuto ai tradizionali alleati della Republika Sprska, ossia la Russia e la Serbia. Ma se la prima ha riconosciuto come legittimo il referendum, la seconda non ha fatto altrettanto. In entrambi i casi il comportamento di entrambi non deve sorprendere. Infatti, la Russia non ha negato il suo tradizionale supporto da protettore dei popoli slavi e ha provato a utilizzare il referendum per rafforzare la sua posizione nella regione, mentre Belgrado, almeno da quando il Partito Progressista Serbo governa dal 2012, sta facendo una serie di sforzi per diventare stato membro dell’UE e, sebbene ancora certe richieste dell’UE non siano state ancora soddisfatte, come ad esempio il riconoscimento del Kosovo come stato sovrano, è sulla buona strada. Chiaramente, il supporto esplicito di Belgrado a un referendum che tendenzialmente rischia di danneggiare gli accordi di Dayton non può essere supportato, in particolare tenendo conto della ragione, a mio avviso la più profonda con cui è stata fatto questo referendum, ossia rafforzare le posizioni di Dodik in vista delle elezioni municipali che si terranno il 2 ottobre nella Republika Sprska. Alla vigilia del referendum l’opposizione del Partito Democratico Serbo (SDS) nella Republika Sprska, ha ritenuto il referendum positivo, ma non vitale, ed ha anzi accusato Dodik e l’SNSD di strumentalizzarlo, in modo da permettergli, in caso di vittoria, di guadagnare consensi propedeutici alle elezioni municipali del 2 ottobre, e una vittoria dell’SNSD gli permetterebbe di riaffermare la propria egemonia nell’entità. Curiosamente, la stessa portata del referendum è stata sminuita alla vigilia del referendum stesso. Infatti, il 22 settembre il consiglio della Republika Sprska ha annunciato che modificherà la a sua legge sulle festività nazionali armonizzandola con la sentenza dell’Alta Corte di Sarajevo, e lo stesso Dodik ha sminuito la portata del referendum, definendolo un “sondaggio”. In fondo i plebisciti vengono chiamati tali solo dopo che si sono svolti e hanno avuto esito positivo. 

Pertanto viene da sé che la portata effettiva del referendum sarà visibile solo all’indomani delle elezioni del 2 ottobre. Sono possibili due esiti: o Dodik e l’SNSD vincono con un margine risicato o perdono le elezioni, e dunque, in entrambi questi casi, assisteremmo alla fine della carriera politica di Dodik e forse a un nuovo corso della politica dell’SNSD. Nel secondo caso, come è abbastanza probabile, Dodik e l’SNSD vincono le elezioni con un buon margine, e dunque la retorica secessionista continuerà a essere usata, dando la percezione che in generale la sopravvivenza della Bosnia-Erzegovina sia in dubbio. Ma è e resterà appunto una percezione, dato che diversi elementi spingono a pensare che in realtà il referendum sia stato usato come arma di ricatto da parte di un’entità verso il governo federale. Infatti, se prendiamo le motivazioni retoriche usate da Dodik e dai suoi alleati notiamo che essi hanno organizzato il referendum per garantire la sopravvivenza della Republika Sprska all’interno della Bosnia-Erzegovina, e mai si è parlato di fare una secessione per unirsi alla Serbia o per diventare addirittura uno stato indipendente. Del resto, se anche la Republika Sprska facesse una secessione per unirsi alla Serbia, e supponendo che riesca a farla senza colpo ferire, facendo sì collassare la Bosnia-Erzegovina, ma non scatenando alcuna guerra civile, è molto difficile che allo stato attuale si possa verificare uno scenario analogo a quello della Crimea nel 2014, dato che Belgrado, almeno fino a quando il Partito Progressista Serbo resterà al potere, ha messo in secondo piano obiettivi di ingrandimento, provando comunque a entrare nell’UE, come ha già fatto la Croazia. Se dunque Belgrado incorporasse la Republika Sprska secessionista, dovrebbe molto probabilmente rinunciare per sempre a diventare stato membro dell’UE. Dunque, a chi dice che la Bosnia-Erzegovina non sia sufficientemente integrata nella politica europea, viene da dire che questo referendum segue anzi delle dinamiche simili a quelle presenti in altri paesi europei con partiti etno-nazionalisti quali Spagna, Belgio e Regno Unito. In molti di questi casi infatti, i governi sub-nazionali governati da partiti etno-nazionalisti hanno utilizzato la minaccia della secessione per potere ottenere concessioni politiche o per sfruttare una minaccia credibile per rafforzare il proprio potere in vista delle elezioni locali. Naturalmente in questo caso Dodik non ha mai minacciato apertamente la secessione, ma è innegabile che abbia usato una minaccia latente tale per cui qualora Dodik non fosse stato accontentato e non avesse potuto far celebrare il referendum, si sarebbero potute verificare conseguenze inattese e ignote. 

Per quanto riguarda il coinvolgimento di potenze estere nella vicenda, possiamo invece dire che tutte sono intervenute relativamente poco, in modo abbastanza marginale e non hanno influito in modo rilevante sull’esito del referendum. Tuttavia, sarebbe sbagliato ridurre la portata del referendum rubricandolo come un mero evento di politica interna di un paese periferico. Infatti da quando esiste la pace di Dayton, non erano mai stati messi in discussione i meccanismi derivanti da questa da parte degli attori della politica interna bosniaca. In un certo senso verrebbe però da dire che tuttavia è stata Dayton a delegittimare sé stessa. Infatti una pace che crea un sistema politico bloccato tramite il congelamento dei conflitti, e che non riconosce e sancisce un mutamento qualitativo dei rapporti di forza rispetto a quelli vigenti rispetto al principio del conflitto non è una pace. Nel migliore dei casi è una tregua. Tuttavia, è altrettanto interessante notare come gli stessi accordi di Dayton, seppure fragilissimi, sono riusciti a creare degli incentivi che spingono le nazionalità e soprattutto le èlite costituenti a restare dentro il sistema politico modellato sull’accordo, nonostante tutti gli stalli e le debolezze di questo sistema politico. Il referendum insomma deve portare a riflettere sui vizi e sulle virtù legati alle paci congelatrici e ai rischi che si corrono imponendoli anche in altri teatri. 

Inoltre si può anche affermare che i vincoli esterni hanno avuto un loro peso nella regione per contenere e moderare le potenze regionali della regione, garantendo così un rafforzamento della fragile pace di Dayton. A titolo esemplificativo, la Croazia è parte dell’UE e della NATO, e in particolare il secondo fattore la pone in subordinazione agli USA in cambio di una maggiore sicurezza contro i vicini. O ancora, la Serbia ha moderato molte delle sue politiche aggressive dell’epoca di Milošević, proprio in virtù delle condizionalità dell’UE per garantirle l’accesso. 

Infine, il basso coinvolgimento delle potenze straniere nell’area non deve trarre in inganno, in quanto la regione presenta ancora una certa importanza strategica data dal mix etnico e dall’importanza geografica. Ancora oggi, nonostante le attenzioni della maggior parte degli attori siano rivolte altrove, la Bosnia e i Balcani contano, altrimenti non si spiegherebbero i lenti movimenti di allargamento dell’UE e della NATO nell’area, i tentativi russi di controbilanciare le potenze occidentali intervenendo nell’area o ancora gli investimenti turchi in Bosnia. 

Insomma, questo referendum costituisce un interessante duplice spunto di riflessione su come fare durare delle paci fragili a livello internazionale, e sulla credibilità delle minacce di partiti etno-nazionalisti verso i governi centrali. 
Giovanni Militello

Per saperne di più:

lunedì 26 settembre 2016

Nuove relazioni delle Filippine con Stati Uniti e Cina?

Nuove relazioni delle Filippine con Stati Uniti e Cina?

  
Le dichiarazioni del Presidente filippino Rodrigo Duterte fanno scricchiolare le importanti relazioni tra Stati Uniti e Filippine. Lontano dai riflettori globali puntati sul Medio Oriente, il sud-est asiatico riveste un’importanza fondamentale nelle partite geopolitiche contemporanee: al centro del “pivot to Asia” e in generale del contenimento anticinese nella regione Asia-Pacifico. I rapporti tra Filippine e Repubblica Popolare Cinese presentano due contenziosi tuttora irrisolti: la disputa sulle isole Spratly e quella sullo Scarborough Shoal nel Mar Cinese Meridionale. Le isole Spratly sono contese da Cina, Vietnam, Filippine, Brunei, Taiwan e Malesia mentre lo Scarborough Shoal è oggetto di contenzioso tra Filippine, Cina e Taiwan. A luglio il tribunale dell’Aja ha dato ragione alle Filippine in merito alla disputa marittima con Pechino, che rifiuta categoricamente la sentenza[i].
E’ necessario contestualizzare tali questioni all’interno dell’accerchiamento anti-cinese da parte statunitense, una vera e propria “cintura” di contenimento finalizzata ad arrestare l’ascesa cinese a potenza egemone regionale. Per fare ciò gli Stati Uniti hanno stretto forti rapporti bilaterali con diversi paesi della regione accomunati da motivi di ostilità con Pechino per contenziosi territoriali e hanno lanciato il TPP (Trans-Pacific Partnership) sul piano economico. Il Mar Cinese Meridionale è conteso da Filippine, Taiwan, Thailandia, Indonesia, Malesia, Brunei, Vietnam e Cina, che rivendica circa il 90% delle acque. Le principali motivazioni di contesa riguardano la presenza di idrocarburi (che fanno gola al gigante cinese, principale importatore mondiale di idrocarburi), i traffici commerciali e il conseguente controllo delle vie marittime: vi transitano oltre 70.000 navi mercantili l’anno con un valore totale delle merci trasportate di 5.300 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti hanno realizzato diversi voli di ricognizione “non autorizzati” dalla Cina e nel 2015 l’invio del cacciatorpediniere “Lassen” ha suscitato le proteste di Pechino che vede minacciati i propri interessi strategici. Tra i principali alleati regionali degli Usa nella politica di accerchiamento anti-cinese c’è anche il Giappone che sta abbandonando il post-bellico “pacifismo costituzionale” e ha un contenzioso con la Cina per il controllo delle isole Shenkaku/Diaoyu[ii].
Come scrive Diego Angelo Bertozzi, studioso della Cina e autore di un saggio da poco pubblicato (Cina. Da «sabbia informe» a potenza globale, Imprimatur 2016), bisogna tenere presente che su queste acque “si profila una minaccia che, sebbene di difficile attuazione, non è certo peregrina e che a Washington qualcuno annovera tra le possibilità: il blocco commerciale per tenere sotto ricatto la Cina Popolare[iii]” (in caso di un conflitto con la Cina). Il Mar Cinese Meridionale riveste un’importanza strategica per il colosso asiatico dato che vi transita il 70% del petrolio destinato a Pechino. Rodger Baker – capo sezione analisi Asia Pacifico di Stratfor Global Intelligence – presenta ragionevolmente lo scontro Usa-Cina come una contrapposizione tra “imperativi strategici”: quello statunitense del dominio globale dei mari e quello cinese di proteggere “le rotte commerciali strategiche, le risorse e i mercati dall’interdizione straniera”[iv].
Torniamo adesso alle Filippine. Dopo il gelo provocato dalle dichiarazioni offensive di Duterte nei confronti di Obama (per le quali si è scusato), la Casa Bianca ha ribadito la solidità delle relazioni storiche tra i due paesi. Come ha fatto notare il politologo Richard Javad Heydarian, potremmo però essere in presenza dell’inizio di una “riconfigurazione delle relazioni tra Usa-Filippine” sotto l’attuale Presidente[v]. Duterte ha più volte ribadito che le Filippine non sono più una colonia statunitense e – già subito dopo essere stato eletto – ha rivendicato una politica estera autonoma senza influenze o protettori stranieri[vi]. Nonostante i pesanti contenziosi territoriali con la Cina, Duterte è favorevole a un processo di distensione con il Dragone asiatico per favorire massicci investimenti nelle infrastrutture, invocando addirittura un ruolo similare a quello svolto dalla Cina in Africa[vii]. I toni concilianti con la Cina si discostano notevolmente da quelli del suo predecessore Benigno Aquino, favorendo quindi un clima di maggiore “riconciliazione” tra i paesi dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico). Di certo le relazioni strategiche e militari con gli Usa non potranno essere stravolte – e non è questo l’intento di Duterte – ma sicuramente, come fa notare Javad Heydarian, gli Stati Uniti non potranno più aspettarsi “lo stesso livello di deferenza strategica e supporto diplomatico”.
Le posizioni concilianti di Duterte potrebbero essere quindi l’occasione per Pechino di “sottrarre” uno tra i fondamentali componenti del “pivot to Asia” all’assoluta fedeltà strategica verso gli Stati Uniti. Per fare ciò dovrebbe accogliere i toni concilianti del Presidente filippino nei confronti bilaterali, promuovendo la partnership tra i due paesi.
Federico La Mattina


[i] https://www.theguardian.com/world/2016/jul/13/china-damns-international-court-after-south-china-sea-slapdown
[ii] Si rimanda a P. Migliavacca, Il contenzioso del Mar Cinese Meridionale, in “Affari Esteri” anno XLVII n. 175, inverno 2016, pp. 183-193.
[iii] D. A. Bertozzi, Il Pivot to China, in “MarxVentuno” n. 1-2 2016, pp. 217-230.
[iv] R. Baker, Per gli Stati Uniti l’ascesa cinese è la sfida decisiva, in “Limes, rivista italiana di geopolitica” 2/2016, pp. 107-114.
[v] http://nationalinterest.org/blog/the-buzz/the-duterte-dilemma-why-it-matters-china-the-us-alliance-17689
[vi] http://www.telesurtv.net/english/news/Philippines-Duterte-Backs-Away-from-US-on-Foreign-Policy-20160531-0014.html
[vii] http://globalnation.inquirer.net/137093/duterte-tells-china-build-us-a-railway-and-lets-set-aside-differences-for-a-while Vedi anche: http://www.rappler.com/nation/137177-duterte-china-build-manila-clark-railway

venerdì 16 settembre 2016

Brexit: quali effetti sulla politica di sicurezza e difesa dell'Ue?

Brexit: quali effetti sulla politica di sicurezza e difesa dell'Ue?



Il 23 giugno, gli elettori britannici hanno scelto di lasciare l'Unione europea. Questo importante referendum, colloquialmente definito Brexit, ha provocato delle onde d'urto in Europa e nel mondo. La vittoria dei “Leave” (coloro che volevano uscire), con il 52% dei voti, contro il 48% per il “Remain”, è un risultato inaspettato. Né l'UE né il Regno Unito potranno essere gli stessi di prima. In questo articolo l'obiettivo è quello di capire quali possono essere le cause della Brexit sulla politica di sicurezza e difesa europea (PESD). Inizialmente, sarà considerato l'approccio teorico, che tende a spiegare oggettivamente gli effetti sulla politica di sicurezza europea. In secondo luogo, la prima reazione dell'Unione europea a seguito del referendum sarà esaminata. Infine, sarà presentato il quadro della riunione di Bratislava, il 16 settembre, l'incontro informale in cui si riuniranno per la prima volta i 27 paesi dell'UE. 

Quali sono le conseguenze della Brexit per la PSDC?
Secondo John Schindler, un esperto di sicurezza, specializzato nello spionaggio e il terrorismo ed ex analista della National Security Agency, l’uscita della Gran Bretagna è un grosso problema per l'Unione europea. Nel suo articolo "Comprendere le implicazioni di sicurezza della Brexit", Schindler ha dichiarato che la piena responsabilità del risultato del referendum è della Germania, la quale calpestando alcune regole ha causato rancore nella maggior parte degli Stati membri. La scorsa estate, la decisione unilaterale da parte di Angela Merkel di aprire le porte del suo paese a milioni di migranti provenienti da est e sud ha cambiato le sorti dell’ Europa, e promette di portare cambiamenti sociali, politici ed economici drammatici. Per l'autore, la Brexit è la conseguenza della "politica aperta" voluta da Angela Merkel, che ha portato ad una reazione europea basata sulla paura. Questo perché la forte maggioranza degli immigrati sono musulmani e potrebbero presentare problemi per l'intera Unione, date le sfide di sicurezza associate ai musulmani che sono già in Europa.

Secondo Schindler, la Brexit è il primo di una lunga serie di reazioni per quanto riguarda l'unilateralismo della Merkel. Ci vorranno almeno mesi per organizzare l’uscita del Regno Unito, mentre le conseguenze economiche, politiche e sociali si vedranno tra decenni, ma non nel campo della sicurezza. La strategia dell'UE sulla lotta contro il terrorismo non è stato un punto di forza per il “Remain” poiché i recenti attentati hanno dimostrato tutta l’inefficienza dell’intelligence europea. Inoltre, le recenti voci da Bruxelles circa la necessità di un esercito europeo ha causato preoccupazioni nel Regno Unito, soprattutto perché qualsiasi forza militare dell'UE sarebbe venuta a scapito della NATO. Poiché la maggior parte dei membri dell'UE spendono poco in difesa, qualcuno si è chiesto da dove sarebbero venuti i fonti per il mantenimento di un eventuale esercito. Alla fine, secondo l'autore, la Gran Bretagna aveva molte buone ragioni per votare l'uscita. In primo luogo la questione della politica di migrazione avanzata dalla Germania. In secondo luogo, l'inefficienza europea sull'intelligence e la lotta al terrorismo, che non dà nessun valore aggiunto. Infine, l'idea di un esercito europeo che graverebbe sui costi di paesi che sono sia membri dell'Unione che della NATO, pertanto, significa doppia spesa.

Più dettagliata è la spiegazione data dal Centro per gli studi politici europei (CEPS). I contributi finanziari dei paesi membri al bilancio dell'UE sono condivisi in modo equo, secondo i mezzi. Più il PIL è grande e più si contribuisce alle spese dell’UE. Il bilancio dell'UE non mira a ridistribuire la ricchezza, ma piuttosto a concentrarsi sulle esigenze di tutti gli europei nel loro insieme. Nel 2014, il contributo del Regno Unito al bilancio dell'UE era pari a 11,342 miliardi di euro. Secondo la relazione finanziaria del 2015, il contributo britannico al bilancio dell'UE sul tema "Sicurezza e cittadinanza" è stato di € 149,5 milioni. In primo luogo, la Brexit significa che la PSDC perderà uno dei suoi principali “azionisti”. Il Regno Unito e la Francia da sole costituiscono oltre il 40% degli investimenti sulla difesa nell'UE. Le spese militari del Regno Unito sono pari al 2% del loro PIL, che lo rendono uno dei cinque Stati membri dell'UE più virtuosi dopo la Grecia (2,6%), Polonia (2,2%), Francia (2,1%), e pari all’Estonia (2%). Poiché la PSDC nasce da un'iniziativa franco-britannica (a Saint Malo), la prima implicazione della Brexit potrebbe essere politica: quale Stato potrebbe sostituire il Regno Unito? La Germania si sta evolvendo dall'essere una potenza civile assumendo maggiori responsabilità in sicurezza internazionale, compresa la partecipazione alle operazioni militari, come stabilito nel nuovo Libro bianco sulla politica di sicurezza tedesca rilasciato il 13 luglio 2016. Tuttavia, per essere in grado di "sostituire" il potere economico britannico, serve un maggiore impegno da parte della Germania, una forte partnership strategica tra la Germania e la Francia, e di un maggiore sostegno dall'Italia.

In secondo luogo, c'è preoccupazione per il problema del personale per le missioni civili e militari, prima di tutto per lo svolgimento dell’operazione Sophia nel Mediterraneo. La Gran Bretagna ha sempre fornito un discreto numero di personale e risorse per eseguire le operazioni. La sua futura assenza si tradurrebbe in ulteriore sforzo da parte di Francia, Italia e Germania. Ovviamente i problemi sopra citati sarebbero meno gravi se tutti gli ormai 27 paesi membri dimostrassero più solidarietà. Il risultato del referendum ha portato ad una serie di reazioni nell'Unione Europea. Come un campanello d'allarme per il futuro dell'Europa, perché molti paesi con una forte tendenza euroscettica sarebbero pronti a seguire l'esempio del Regno Unito. Per questo motivo, dopo il referendum, l'UE ha mostrato la sua volontà di reagire, ma allo stesso tempo anche la necessità di una più stretta cooperazione con la NATO.

Un ritorno al Berlin Plus?
Firmato nel 2003, l'accordo “Berlin plus” è un pacchetto completo di accordi tra l'UE e la NATO che ha permesso all'UE di fare uso di mezzi della NATO per le operazioni di gestione delle crisi dirette dall'UE. Gli elementi formali dell’accordo “Berlin plus” includevano: un accordo di sicurezza NATO-UE, che copriva lo scambio di informazioni classificate in base alle norme di protezione di reciproca sicurezza; l'accesso alle capacità di pianificazione della NATO per le operazioni a guida UE; disponibilità di mezzi e capacità della NATO per le operazioni civili-militari dirette dall'UE; le procedure per il rilascio, il monitoraggio, il ritorno e il richiamo dei mezzi e delle capacità della NATO; i termini di riferimento per l'utilizzo di DSACEUR della NATO (vice Comandante supremo alleato in Europa) per comandare le operazioni condotte dall'UE; gli accordi di consultazione nel contesto di una guida delle operazioni che fanno ricorso ai mezzi e alle capacità della NATO. Attraverso tale cooperazione, la NATO ha acquisito maggiore legittimità nel panorama internazionale, e l'Unione europea è stata in grado di sviluppare la sua potenza militare. Per i primi anni questa cooperazione è stata messa in atto, fino a quando l'Unione europea è riuscita a sviluppare un potere militare indipendente dalla NATO. Tuttavia, da circa dieci anni, le due organizzazioni non hanno implementato gli accordi Berlin Plus. In pratica, le due organizzazioni hanno una vocazione diversa: la NATO è una potenza difensivo-militare, e l'UE ha un potere civile e di legislazione. Un'ulteriore causa dell’allentamento della cooperazione militare è stata anche una questione di finalità. Negli ultimi dieci anni l'UE si è concentrata nel percorso di allargamento, ha intrapreso missioni di pace, in cooperazione con le Nazioni Unite, ha sostenuto i fondi per lo sviluppo in Africa, e ha voluto migliorare la legislazione interna. Invece, la NATO negli ultimi dieci anni si è concentrata nelle aree di crisi nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, e per la ricostruzione post-bellica in altri paesi.

Tuttavia, negli ultimi due anni, e in particolare dal marzo 2016, le due organizzazioni si stanno avvicinando a causa di due sfide comuni: la lotta allo Stato islamico e l'immigrazione. Entrambe le organizzazioni convergono sugli stessi obiettivi, anche se con mezzi diversi. Ma sembra che la Brexit abbia avuto un forte effetto sul rapporto tra le due organizzazioni, e la prova è il vertice di Varsavia del luglio 2016. Il 28-29 giugno 2016, 27 capi di Stato e di governo dell’UE (in modo informale) si sono incontrati per discutere le implicazioni politiche e pratiche della Brexit. Il Consiglio europeo si è concentrato sul risultato del referendum del Regno Unito. Durante l'incontro, i 27 paesi hanno dichiarato che vi era la necessità di organizzare il ritiro del Regno Unito dall’UE in modo ordinato: l'articolo 50 del trattato sull'Unione europea costituisce la base giuridica per questo processo. Tuttavia, non ci può essere nessuna trattativa prima della notifica ufficiale del Regno Unito. Secondo l'articolo 50 una volta che la notifica è stata ricevuta, il Consiglio europeo adotterà le linee guida per i negoziati di un accordo con il Regno Unito. Nelle sue conclusioni, il Consiglio europeo ha accolto con favore la presentazione della strategia globale per la politica estera e di sicurezza dell'Unione europea. Ma allo stesso tempo, nei settori della difesa e della sicurezza, il Consiglio ha parlato dell'attuazione della cooperazione tra l'UE e la NATO. Il Consiglio europeo, a giugno, aveva avviato un’intesa per un ulteriore miglioramento del rapporto, alla luce dei loro obiettivi e valori comuni e date le sfide senza precedenti provenienti dal Sud e dall'Est. Il nuovo slancio di cooperazione UE-NATO doveva avvenire in uno spirito di piena trasparenza e nel pieno rispetto dell'autonomia e delle procedure di entrambe le organizzazioni, basandosi sul principio di inclusione e fatti salvi i caratteri specifici della sicurezza e di difesa di qualsiasi Stato membro.

Queste pretesi si sono concretizzate durante il vertice della NATO a Varsavia: quasi come un ritorno al Berlin plus. L’8-9 luglio la Polonia ha ospitato la riunione biennale del vertice della NATO. Il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, e l'Alto rappresentante Federica Mogherini hanno rappresentato l’Unione europea al vertice. L'UE e la NATO hanno firmato una dichiarazione congiunta sul rafforzamento della cooperazione pratica in aree selezionate. Queste includono:
· contrastare le minacce ibride, anche attraverso lo sviluppo di procedure coordinate
· la cooperazione operativa in mare e sulla migrazione
· coordinamento in materia di sicurezza informatica e di difesa
· lo sviluppo di capacità di difesa coerenti, complementari e interoperabili
· facilitare una industria della difesa più forte e una maggiore ricerca della difesa
· rafforzare il coordinamento sulle esercitazioni
· la costruzione della capacità di difesa e la sicurezza dei partner in Oriente e Sud.

Anche se è vero che i contenuti dei due accordi sono diversi, sembra chiaro che questa dichiarazione sia conveniente per entrambe le parti, in particolare per l'Unione europea che con la Brexit perderà uno dei suoi collaboratori più virtuosi nel campo della sicurezza e della difesa.

Conclusioni
Il 29 giugno Federica Mogherini (l'Alto rappresentante per gli affari esteri) ha presentato la nuova strategia globale dell'UE. Lo scopo di questo documento è quello di rafforzare l'idea di "soft power". L'Unione Europea è orgogliosa del suo ruolo di soft power e deve continuare ad essere un forte attore promuovere la pace. Molti rappresentanti europei come Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione, chiede la creazione di un esercito europeo. Federica Mogherini opta invece per un rafforzamento della cooperazione nel quadro della difesa. La strategia, scritta da Federica Mogherini e il suo consigliere Nathalie Tocci, vuole essere inserita in un contesto politico per plasmare le azioni future, e deve essere letto in termini di competenze, piuttosto che da punto di vista geografico. L'aggettivo "globale" si riferisce non solo alla geografia, ma anche ad una vasta gamma di politiche e strumenti promossi dalla strategia. Il 16 settembre, i capi di Stato e di governo dei 27 si incontreranno a Bratislava. Essi continueranno una riflessione politica per dare impulso a ulteriori riforme e allo sviluppo dell'UE con 27 paesi membri. Donald Tusk vuole che a Bratislava tutti i paesi europei siano d'accordo sulle principali priorità. Secondo il presidente del Consiglio europeo, queste priorità dovrebbero essere:
· proteggere le frontiere esterne dell'UE
· combattere la minaccia del terrorismo in Europa e altrove
· riportare il controllo della globalizzazione, trovare un modo per salvaguardare gli interessi dei cittadini dell'Unione europea, pur rimanendo aperta al mondo.

In un comunicato stampa, il presidente del Consiglio europeo ha dichiarato che alla prossima riunione di Bratislava i capi di Stato e di governo dei 27 (UE senza il Regno Unito) non parlano del processo Brexit, e ciò al fine di tutelare gli interessi dei chi decide di restare nell'Unione. Lo scopo dell'incontro sarà quello di proteggere gli interessi degli Stati membri che intendono stare insieme. Dalle dichiarazioni fatte dai rappresentanti europei sembra che ci sia l'intenzione di andare avanti e rafforzare la struttura europea. Lo slogan principale è di resistere uniti dopo l'inaspettato colpo del Regno Unito. Ma i segni della crisi sono evidenti. Negli ultimi mesi l'UE ha cominciato ad aumentare il suo impegno per il miglioramento della politica di sicurezza e di difesa, e stimolare le capacità di tutti i paesi dell'UE. Inoltre, la consapevolezza del futuro indebolimento della politica di sicurezza può anche essere letto nella dichiarazione congiunta in occasione del vertice della NATO a Varsavia. L'UE sembra ben consapevole delle conseguenze della Brexit e sta ora cercando di mobilitare i suoi mezzi per colmare il gap.
Maria Elena Argano


Per saperne di più:
Site EU NEWS, “Brexit, Tusk: a Bratislava non ne parleremo, per proteggere interessi di chi resta” : http://www.eunews.it/2016/09/01/brexit-tusk-bratislava-non-ne-parleremo-per-proteggere-interessi-di-chi-resta/66164
Site Euractiv « Mogherini tente de doter l’UE d’une vraie politique internationale » : http://www.euractiv.fr/section/l-europe-dans-le-monde/news/mogherinis-global-strategy-moves-beyond-zero-sum-game/
CEPS Site “The implication of Brexit for the EU’s Common security and policy”: https://www.ceps.eu/publications/implications-brexit-eu%E2%80%99s-common-security-and-defence-policy
European Commission Site “Budget Financial Report”: http://ec.europa.eu/budget/financialreport/2015/annex/2/index_en.html
Observer Site “Understanding Brexit’s Security Implications”: http://observer.com/2016/06/understanding-brexits-security-implications

sabato 10 settembre 2016

L'anarco individualismo di Stirner che trova le sue radici nel pensiero politico di Hobbes

L'anarco individualismo di Stirner che trova le sue radici nel pensiero politico di Hobbes


L’anarco-individualismo è una corrente filosofica che ripone al centro di tutto l’individuo singolo. Questo è assorto nel suo individualismo e mosso da un egoismo che lo porta all’interesse esasperato per se stesso a discapito dell’altro. 

Max Stirner fu il più importante teorico di tale corrente. L’impostazione della sua filosofia, molto spesso vittima di un’errata interpretazione, gli costò molte accuse. Venne definito un anarchico senza logica poiché l’errata interpretazione della sua opera non mise in risalto il fatto che all’interno fossero riposti dei precetti etici che potessero perfettamente rispecchiare il mondo terreno. 

L’egoismo stirneriano , conosciuto anche come “egoismo etico”, rappresenta una sponda per lo sviluppo della critica mossa a tutto ciò che sta al di fuori dell’egoista ,ovvero l’individuo di Stirner, e a tutto ciò che può ledere alla sua persona. 

La sua opera “l’unico e la sua proprietà”, rappresenta esattamente questo scenario in cui “l’unico” rappresenta l’individuo e “la sua proprietà” si identifica con la sua libertà. Quest’ultima non può e non deve essere lesa da niente e il suo nemico principale è rappresentato da quell’insieme di Stato, Chiesa, Liberali e quant’altro che Stirner non si priva di criticare e contro cui muove, con violenza e tenacia come fosse un' arma, il diritto di esistere da parte dell’individualismo del singolo. E’ all’interno della sua autentica filosofia con il martello che il singolo con le sue qualità, doti, caratteristiche ha il diritto di essere libero di agire nel modo migliore in cui crede. Stirner si scaglia anche contro società di stampo comunista che invece cercano di abolire il concetto di singolo, poiché in contrapposizione al loro sistema, autoritario e repressivo, dovrebbero far fronte allo sviluppo di una dissidenza. Però Stirner non fa distinzioni per ideologia o per fazioni politiche ed è proprio in questa sua caratteristica che si riscontra la funzione morale della sua speculazione. 

Se dovessimo ritrovarci a fare una storia di quest’idea di egoismo , che muove l’individuo verso la sopravvivenza e la difesa della propria persona nella sua totalità, salterebbe subito alla mente il concetto di uomo analizzato da Thomas Hobbes all’interno dello Stato di natura. 

Hobbes giunge alla conclusione che la condizione che vive l’individuo, nello stato di natura, sia quella dell’ <<homo homini lupus>>. Letteralmente : “l’uomo è un lupo per l’uomo”. In questa constatazione, da contestualizzare all’interno dell’ottica della sua politica, il filosofo spiega come la natura dell’individuo sia fondata sull’istinto di sopravvivenza e sopraffazione sull’altro. Però se da un lato vi è un istinto aggressivo che porta l’uomo a distruggere l’altro per arrivare ai propri fini, allo stesso tempo vi è di fondo il timore di essere vittima dello stesso trattamento. Dunque l’animo umano in Hobbes si trova ad oscillare, contraddittoriamente, tra il sentimento di aggressione e la paura di essere aggredito che fa forza, che muove. E’ un continuo “bellum omnium contra omnes”, “guerra di tutti contro tutti”, in cui conta principalmente il concetto di “mors tua , vita mea”. 

I due egoismi filosofici in questione sono da un punto di vista ontologico differenti . Il fine delle due concezioni è il medesimo, ciò che cambia è il mezzo attraverso il quale si giunge a tale fine. Mentre in Stirner vi è di fondo un’etica da seguire che potrebbe presupporre anche un atteggiamento stoico nei confronti dell’altro purchè sia protetta la libertà propria, in Hobbes vi è quel sentimento di aggressività che porta l’uomo, infatti, ad essere un lupo verso l’altro. Se in Hobbes lo stato di guerra che l’individuo vive nei confronti dell’altro può trovare la sua conclusione attraverso la costituzione dello Stato, in Stirner tale costituzione porrebbe fine alla conclusione della libertà individuale. 

Queste due concezioni filosofiche e politiche la cui genesi abbraccia due periodi storici differenti, rispettivamente l’Ottocento con Stirner e il Seicento con Hobbes, potrebbero trovare attraverso una corretta analisi un terreno fertile in ciò che è stato il conseguente mondo formatosi con il Postmodernismo. Termine che nel ‘900 venne usato per vari ambiti culturali ma che sta ad indicare quelle società in cui il capitalismo e l’alta finanza si sono estese a livello globale e hanno pervaso ogni struttura e sovrastruttura ricercando soltanto il fine utilitaristico nell’attività del singolo. 

Il fine utilitaristico è l’accumulo di denaro e per tale accumulo l’uomo non può che essere un lupo per l’altro uomo. L’ambizione, che porta alla corruzione, genera il sentimento di aggressività di cui Hobbes parla. Ma in questo scenario in cui la competitività genera il vuoto attorno ai singoli, Stirner potrebbe trovare il suo terreno fertile all’interno di quegli individui che vivono una condizione di sottomissione da parte di quelle società che negano il libero arbitrio e recintano il campo d’azione del singolo. Emblematica è la differenza stirneriana tra “rivoluzione” e “ribellione”, in cui la prima rappresenta un modo per capovolgere un sistema e impiantarne un altro e la seconda consiste in un' azione mossa da un impeto egoistico determinato dall’insoddisfazione del singolo. Nel concetto di ribellione risiede la morale stirneriana che oggi dovrebbe essere l’identità di quella forza hegeliana che muove il tutto. 
Maurilio Ginex

mercoledì 7 settembre 2016

G-20 in Cina, poco più che un rituale formale

G-20 in Cina, poco più che un rituale formale



Il 4 e 5 Settembre hanno visto la Cina protagonista del summit globale, di cui è stata fondatrice nel 1999, comunemente conosciuto come G20. Si tratta dell'undicesimo summit a cui hanno preso parte l'Unione Europea, gli Stati Uniti, Germania, Russia, Regno Unito, Italia, Francia, Canada, Australia, Giappone, Cina, Sud Africa, Argentina, Brasile, India, Indonesia, Messico, Arabia Saudita, Turchia e Corea del Sud, e che si è tenuto presso la città “fortificata”, per l'occasione, di Hangzhou. Per i cinesi è stata una grossa opportunità per ben figurare di fronte ad una platea di stati rappresentante il 90% del prodotto interno lordo globale, l'80% del commercio ed i 2/3 della popolazione mondiale. Ed effettivamente l'evento a livello formale non ha avuto falle, ma data la rilevanza politica di un tale evento, che a seguito della crisi finanziaria del 2008 ha acquisito ancora più rilevanza, le aspettative erano piuttosto alte.

Uno dei “goal” raggiunti dal summit, senza dubbio quello che ha avuto maggiore risonanza, sono gli accordi sul clima sino-statunitensi, rispettivamente i primi due paesi per emissioni di Co2. “Un accordo storico ed uno sforzo fondamentale”, così lo ha definito il presidente Obama. Tali accordi consistono nella ratifica dei negoziati sul clima raggiunti nel dicembre scorso a Parigi durante il summit Cop 21. L'accordo diventerà giuridicamente vincolante per gli stati qualora verrà ratificato da 55 stati produttori del 55% delle emissioni, per cui la firma di Washington e Pechino che insieme producono il 38% delle emissioni globali si attesta come un risultato importante per la lotta al “climate change”. Senza voler però sminuire l'importanza di un tale accordo, che sembrava difficilmente raggiungibile, ad onor del vero diverse personalità nel campo scientifico tra cui Netuatua Palesikoti, direttrice della divisione sul cambiamento climatico della Sprep (Secretariat of the Pacific Regional Enviromental Program), affermano che il contenimento del clima sotto i 2 gradi, così come previsto dai negoziati del Cop21, non sarebbe però sufficiente ad evitare gli irreversibili danni dovuti al cambiamento climatico. Sarebbe invece necessario fin da subito un contenimento sotto gli 1,5 gradi, che significherebbe portare a zero l'asticella delle emissioni di Co2, una prospettiva al momento più che improbabile. Sopratutto perché si andrebbe ad ostacolare l'obiettivo numero uno del summit, il leitmotiv che ha caratterizzato i due giorni di Hangzhou: la crescita economica.

“La crescita economica è stata troppo bassa per troppo tempo”, questo il mantra ripetuto anche dal Direttore Operativo del Fondo Monetario Internazionale (IMF) Christine Lagarde, che è intervenuta sostenendo poi che “è necessario fare in modo che la globalizzazione funzioni a beneficio di tutti”. Per conseguire questi due principali obiettivi, crescita economica e benefici della globalizzazione, che sembrano mettere tutti e venti stati d'accordo, tanto da poter parlare di un “Hangzou Consensus”, non è stato però siglato alcun accordo scritto né sono stati messi in agenda degli impegni precisi. Si è molto genericamente parlato della necessità di una nuova ventata di innovazione che guidi il globo verso una "nuova rivoluzione industriale", ed un impegno maggiore per combattere l'evasione fiscale internazionale, implementare le misure anti-corruzione, e promuovere il libero commercio e l'attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Tutti impegni sottolineati con una forte carica retorica, come la ripetizione di un rituale religioso con la finalità di ricordare ai fedeli quali sono i valori fondanti delle loro vite, ma in fin dei conti ben poca sostanza.

E seppur sia stato riconosciuto, quasi all'unanimità, che questi mantra, che sono poi i valori fondanti dell'unica ideologia rimasta in vita, siano gli stessi che hanno riportato nello scenario politico globale la ribalta dei nazionalismi, che non ha risparmiato nemmeno il paese madre della promozione dei valori globalizzanti, nessuno sembra disposto a rinunciarvici.

Nel corso del meeting c'è stato poi spazio anche per un ennesimo incontro tra Obama e Putin per cercare di arrivare ad una conclusione nel conflitto siriano, a cui purtroppo non crede più nessuno. Un summit definito “costruttivo ma non conclusivo”. Tra i problemi trattati anche l'apertura di un corridoio umanitario per Aleppo. Ma ancora una volta tra i negoziatori russi e quelli americani anche qualora sembri, almeno a parole, esserci una volontà comune poi si fatica ad arrivare ad una formula di reciproco gradimento. Troppe tensioni ed un “gap di fiducia” che porta ancora una volta ad un nulla di fatto.

Allora tanta formalità, un grande show, ma molta poca sostanza a caratterizzare questo G20. Tanto che la scena se la prendono una serie di gaffe capitate al presidente americano, come l'assenza del “red carpet” al suo arrivo e l'intraducibile “son of a whore!”con cui viene appellato dall'esplosivo leader delle Filippine Rodrigo Duterte. Comunque segnali del cambiamento della percezione di Washington nell'immaginario politico globale, e del declino dell'unipolarismo a stelle e strisce.
Giovanni Tranchina