martedì 29 marzo 2016

Srebrenica, un sacrificio necessario

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Srebrenica, un sacrificio necessario

«Quante volte piangendo abbiamo detto le nostre ardenti preghiere per la pace? Se ne infischia la Morte della lacrima della ragazza, se ne infischia la Morte delle preghiere dell’uomo».
(Abdulah Sidran, Pianeta Sarajevo) 

Alla fine il verdetto ha deluso sia le vittime che i carnefici. Radovan Karadžić è stato riconosciuto e condannato a 40 anni per almeno 10 capi d'accusa tra cui genocidio, persecuzione e sterminio per il massacro di Srebrenica. "Vergognosa e offensiva la condanna a 40 anni e non all'ergastolo" questa la dichiarazione di Vasvija Kadić, dell'associazione Madri di Srebrenica. Il presidente dell'Associazione dei veterani della Repubblica Serba, Milomir Savičić, ha invece definito il verdetto "ingiusto". Oltre a Karadžić, ormai condannato, sono sotto processo anche il generale serbobosniaco Ratko Mladić, e i due principali responsabili dei servizi segreti serbi, Jovica Stanišić e Franko Simatović, per i quali la procura del Tpij ha richiesto la riapertura del procedimento dopo una prima sentenza di assoluzione. Ma cerchiamo di capire attraverso un'analisi, nei limiti del possibile, dettagliata i motivi di questa apparentemente ovvia polarizzazione, che in questi anni non ha fatto altro che allontanare le diverse narrazioni sugli anni '90 in un paese in cui tutto è diviso. Durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina, nel '95, la popolazione dell’enclave di Srebrenica era cresciuta in seguito all’afflusso di rifugiati che, per sfuggire alla “pulizia etnica” in corso in Bosnia orientale, erano giunti lì poiché la città era stata designata “zona protetta” dalle Nazioni Unite. 

I caschi blu olandesi presiedevano la zona, quando le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Mladić, con l'appoggio del gruppo paramilitare degli “Scorpioni", dopo un’assedio all’enclave durato tre anni entrarono a Srebrenica. I caschi blu olandesi decisero di non voler rischiare la vita per dei civili inermi. Uomini e ragazzi tra i 15 e i 77 anni vennero allora separati dalle donne e dai bambini, con "l'ausilio" delle truppe Onu, portati fuori città, fucilati e sepolti con delle ruspe in fosse comuni. Ci vollero 5 giorni per ucciderli tutti. « In Bosnia ed Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, poiché vi sono implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali e sulla Bosnia ed Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio. » (Kofi Annan, Report of the Secretary-General, p 503) Come è potuto succedere? Perché gli squadroni della morte serbobosniaci riuscirono ad uccidere più di ottomila persone in pochi giorni senza che nessuno li fermasse, e sotto il naso dei soldati delle Nazioni Unite ufficialmente tenuti a proteggere quelle vittime? Chi consegnò la "zona di sicurezza" di Srebrenica agli squadroni, e perché? Le critiche alla comunità internazionale incaricata di proteggere Srebrenica, sono state mosse principalmente nei confronti del generale Bernard Janvier, comandante delle forze delle Nazioni Unite nella regione, perché non ordinò i raid aerei che avrebbero potuto fermare l'avanzata serbobosniaca, mentre i caschi blu olandesi non solo stavano a guardare ma cacciavano via i civili che cercavano rifugio nel loro quartier generale. Da una ricerca su una gigantesca quantità di documenti, prove e testimonianze è emerso che la perdita di Srebrenica era prevista. Le tre potenze - Regno Unito, Stati Uniti e Francia - erano d'accordo nel raggiungimento di una pace a qualsiasi costo, la così detta endgame strategy. Sicuramente le tre potenze non erano consapevoli della portata del massacro, ma erano a conoscenza dell'intenzione dichiarata da Mladić di far "sparire completamente" la popolazione bosniaca musulmana dalla regione.

La Bosnia Erzegovina è stata una delle repubbliche federali della Jugoslavia socialista dal '45 al ’92, abitata da bosniaci musulmani (44%) serbi (31%) e croati (17%) secondo l’ultimo censimento prima della guerra, che risale al 1991. Nella primavera del 1992, dopo che la Bosnia multietnica aveva votato per l'indipendenza dalla Jugoslavia, nel tentativo di costruire un mini stato etnicamente puro, le truppe serbobosniache scatenarono un'ondata di violenza infierendo particolarmente sulla Bosnia orientale. All'inizio di aprile scoppiò la guerra, che nelle prime fasi vide croati e musulmani combattere insieme contro i serbi. Il 5 aprile cominciò l'assedio di Sarajevo (appoggiato dal presidente jugoslavo Slobodan Milošević). Nell'ambito di quella che Karadzić chiamava "pulizia etnica" distrussero e incendiarono interi villaggi e uccisero o misero in fuga un'intera popolazione verso le tre enclave orientali in cui l'esercito repubblicano bosniaco riuscì a resistere: Srebrenica, Gorazde e Zepa. La popolazione di Srebrenica, a causa delle persecuzioni, era cresciuta da novemila a 42mila. L'ONU dichiarò "Siete sotto la protezione delle Nazioni Unite. Non vi abbandoneremo mai". Una risoluzione approvata dalle Nazioni Unite nell'aprile del '93 avrebbe dovuto "prevedere il ritiro dai territori occupati con l'uso della forza e attraverso la pulizia etnica" pena la "possibilità di un massacro che potrebbe costare 25mila vittime", mentre Karadzić promise, e purtroppo mantenne, "sangue fino alle ginocchia". Nel '95 mentre l'ONU, l'Unione europea e i cinque paesi del gruppo di contatto (Francia, Regno Unito, Russia, Germania, Stati Uniti) contrattavano la pace, Srebrenica era ancora sotto assedio. Nello stesso anno il gruppo di contatto abbandonava la risoluzione contro la pulizia etnica, intanto Mladić, emetteva la Direttiva 7 che oltre a inasprire il "lento soffocamento delle enclave" ordinava azioni di combattimento per "incutere terrore". In una nota della CIA, nel frattempo desecretata, le zone di sicurezza orientali erano definite "una spina di pesce nella gola dei serbi".

Vent'anni dopo la fine della guerra 
I serbi non accetteranno mai l’uso della parola “genocidio” come si vede dalle dichiarazioni del presidente dell'associazione serba dei veterani, Savičić. Eppure è questo il nome con il quale i bosniaci musulmani vogliono chiamare il massacro dei loro fratelli. Ed è proprio questo il motivo per cui, durante la cerimonia di commemorazione per il ventennale dalla strage, nel luglio 2015, alcuni musulmani bosniaci hanno cominciato a tirare sassi costringendo il servizio di sicurezza a trascinare via in fretta e furia il premier serbo Aleksandar Vucić. Si è trattato di un atto vergognoso quanto indicativo, per il quale le autorità musulmane bosniache si sono comunque scusate. Il conflitto si concluse con gli accordi presi a Dayton, in Ohio, e firmati a Parigi il 14 dicembre 1995. L’ordine politico costituzionale dello Stato di Bosnia ed Erzegovina, uscito fuori dall’Accordo di Dayton, si presenta come una bizzarra commistione tra stato unitario e decentramento amministrativo. Il paese è a sua volta diviso in due principali entità: la Federazione croatomusulmana e la Repubblica serba. Le criticità che lo Stato così istituzionalizzato presenta sono molteplici. Secondo la costituzione di Dayton il concetto di stato-nazione attribuito alla Bosnia ed Erzegovina è da considerarsi sotto un profilo “civico”. Se dovessimo però considerare il concetto di nazione nella sua interpretazione “classica” come una comunità di individui che condividono alcune caratteristiche comuni (lingua, territorio, storia tradizioni, etnia…), la Bosnia-Erzegovina non poteva e non doveva essere costituzionalmente concepita come una nazione, bensì come un aggregato di “etno-nazioni”. L’ipotesi delle etno-nazioni, nel lungo termine, avrebbero potuto evitare l’attuale critica alla Federazione nonché all’Accordo stesso. Movimenti nazionalisti croati criticano la Federazione, in quanto L’Accordo consentì ai serbi la costituzione di un’Entità-Stato Nazione, costringendo loro alla convivenza con i bosniaci musulmani. 

La nuova costituzione bosniaca prevede che l'assegnazione della carica di presidente è valida solamente nel caso in cui "l'eletto" faccia parte dei "tre popoli costitutivi": croati-cattolici, serbiortodossi e bosniaci-musulmani. Chi non fa parte di questi tre gruppi ( ebrei, rom, gli "jugoslavi" del censimento del 1991, gli appartenenti a matrimoni misti, ormai scomparsi assorbiti dalle etnie maggioritarie ecc) è escluso dalla politica attiva, salvo rinnegando la propria appartenenza etnico-religiosa. Dervo Sejdić, presidente della comunità rom, dichiara che i rom di Bosnia sono più di 100mila su 4 milioni di abitanti e per costituzione non posso essere rappresentati politicamente né a livello locale né nazionale, pur essendo presenti da secoli nella regione, anche prima dei popoli costitutivi. "Vogliamo solo le stesse opportunità" dichiara. Proprio alla luce di questi fatti, Dervo Sejdić (Rom) e Jakob Finci (Ebreo) fanno ricorso alla corte europea dei diritti dell'uomo. Nel 2009 il tribunale di Strasburgo, condanna la Bosnia per violazione dei principi di non discriminazione dei popoli. Secondo alcuni l'applicazione di tale sentenza potrebbe portare a nuove violenze nella regione. L'ultimo censimento (pilota) risale al 2013 e rivela che il 35% dei bosniaci si è dichiarato "altro", né croato, né musulmano, né serbo. I risultati ufficiali non sono ancora stati pubblicati. Dopo la guerra si decise che i popoli costitutivi dovessero corrispondere alle etnie più numerose del paese, in base però al censimento del '91, l'ultimo prima di quello del 2013. Pubblicare i dati del censimento “pilota" sarebbe come scoperchiare un vaso di Pandora. Saneva Besić, membro dell'Associazione di tutela dei diritti dei rom dichiara a TVSvizzera: "la separazione tra serbi, croati e musulmani è considerata normale da queste parti" e aggiunge, “a Mostar c'è una scuola in cui, nello stesso edificio, ci sono classi e ingressi separati per musulmani e croati”.

Anche il sistema scolastico è diviso, agli scolari è stata imposta la segregazione etnica, dei tre gruppi maggioritari, con un insegnamento altrettanto diversificato. Ed è chiaro quanto questo avveleni le nuove generazioni, negando a priori la possibilità di sviluppo del pensiero critico. Sembra di stare a parlare delle due Coree. Nazionalismo, cittadini discriminati, corruzione a tutti i livelli, disoccupazione giovanile al 60%. Dalle rivolte del febbraio 2014, questo è il cocktail socioeconomico ancora in voga. Si potrebbe pensare, data l'attuale situazione in Europa, che questa violenza "dormiente" possa essere tranquillamente sfruttata dal fondamentalismo islamico. Durante la guerra migliaia di mujahidin da Arabia Saudita, Afghanistan e Cecenia, hanno combattuto a fianco dei musulmani di Bosnia. Molti si sono stabiliti adottando un Islam radicale (wahabita), diverso dalla tradizione islamica locale. Ci sono comunità wahabite "chiuse": Gornja Maocha, Potocanski, Kalesija, Znenica, Dubnica. Da qui, uomini e donne di tutte le età, per la maggior parte giovanissimi, partono per andare a combattere in Siria o i Iraq. Non vedono speranza per il loro futuro e il biglietto aereo viene acquistato per loro direttamente dalla Siria. Vogliamo abbandonarli un'altra volta al loro destino? I risultati, come hanno dimostrato Parigi prima e Bruxelles poi, non sembrano tanto promettenti.
Daniele Minore

domenica 27 marzo 2016

Il programma Erasmus pilastro di valori europei

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Il programma Erasmus pilastro di valori europei

Il tragico incidente stradale di Terragona, in Spagna, dove hanno perso la vita tredici ragazze - di cui sette italiane - tutte studentesse Erasmus, ha posto l’attenzione sul valore di questo programma di scambio in seno all’Unione Europea.

Il programma Erasmus, dal nome dell'erudita Erasmo da Rotterdm, il noto umanista che aveva viaggiato in lungo e in largo per l’Europa, nasce in Francia nel 1987 quando il presidente dell’associazione studentesca EGEE, Franck Biancheri convinse l’allora Presidente della Repubblica francese François Mitterand ad investire su un programma che prevedeva la mobilità incoming ed outgoing di studenti universitari negli atenei d’Europa.

Anche Umberto Eco, ha tesso le lodi di questo programma, considerandolo propedeutico alla nascita e al conseguente rafforzamento dell’identità europea. L’intellettuale natio di Alessandria, parlava di una vera e propria rivoluzione sessuale riferendosi al programma Erasmus in questo modo: «un ragazzo catalano va a studiare in un’università lontana dalla Spagna, conosce una ragazza fiamminga. I due s’innamorano e fanno dei figli. Quei figli che sono nati sono europei».

Quest’anno il programma Erasmus ha compiuto ventinove anni e qualche anno fa è stato addirittura ampliato, allargandosi a sportivi, tirocinanti, docenti, personale amministrativo, e volontari cambiando il proprio nome in Erasmus + (plus). Oltre a permettere lo studio all’estero per un periodo che va dai tre ai dodici mesi, il programma Erasmus si fa sano portatore di quei valori che sono alla base dell’Unione Europa ovvero dialogo, tolleranza e cooperazione.

Valori fondamentali da consolidare, anche alla luce dei recenti attacchi terroristici rivendicati dall'IS, che hanno insanguinato l’Europa. Tolleranza, dialogo e cooperazione devono imperativamente fungere da collante per rafforzare la nostra identità di cittadini europei e per poter far fronte, tutt’insieme, ad un nemico comune: il terrore. Anche il padre di Elisa Scarascia Mugnozza, giovane studentessa romana che ha perso la vita nel tragico incidente di Terragona, che di mestiere fa il docente universitario ha detto che nonostante la terribile tragedia che ha sconvolto la sua famiglia, il progetto Erasmus deve continuare a vivere per permettere alla meglio gioventù di continuare a costruire un’Europa migliore. Quella che le sfortunate tredici ragazze, forse sognavano.
Francesco Messina 

sabato 26 marzo 2016

C'eravamo tanto odiati... la visita di Obama a Cuba

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

C'eravamo tanto odiati... la visita di Obama a Cuba


 a cura di Rosario Fiore Cultore di diritto pubblico comparato Unipa e 

Segretario generale I.Me.Si



Molti hanno definito, con enfasi e retorica, la recentissima visita del Presidente statunitense Barak Obama a Cuba “storica”; ciò è vero, solo nella misura in cui l'ultimo Presidente Usa a mettere piede in suolo cubano fu il repubblicano Calvin Coolidge, accolto nel febbraio 1928 dall’omologo Gerardo Machado per partecipare alla sesta conferenza panamericana tenutasi all’Avana. Non voglio ripercorrere le fin troppo note tappe della contrapposizione tra il regime filosovietico di Fidel Castro e gli Stati Uniti, il cui acme, come noto, venne raggiunto nel 1962 con la famosa “crisi dei missili di Cuba” e la cui soluzione, evitando al mondo una guerra nucleare, passò attraverso un memorabile intervento di Papa Giovanni XXIII, che il 25 Ottobre dello stesso anno, con un appello rivolto al Presidente americano Kennedy ed a quello sovietico Chruscev per mezzo della Radio Vaticana così si espresse: “ Alla Chiesa sta a cuore più d'ogni altra cosa la pace e la fraternità tra gli uomini; ed essa opera senza stancarsi mai, a consolidare questi beni. A questo proposito, abbiamo ricordato i gravi doveri di coloro che portano la responsabilità del potere. Oggi noi rinnoviamo questo appello accorato e supplichiamo i Capi di Stato di non restare insensibili a questo grido dell'umanità. Facciano tutto ciò che è in loro potere per salvare la pace: così eviteranno al mondo gli orrori di una guerra, di cui nessuno può prevedere le spaventevoli conseguenze. Continuino a trattare. Sì, questa disposizione leale e aperta ha grande valore di testimonianza per la coscienza di ciascuno e in faccia alla storia. Promuovere, favorire, accettare trattative, ad ogni livello e in ogni tempo, è norma di saggezza e prudenza, che attira le benedizioni del Cielo e della terra”.

Cosa c'è di storico nella visita di Obama a Cuba? A parte la retorica, ben poco. Oggi il mondo è cambiato; la guerra fredda è finita da un bel po'; l'Unione Sovietica non esiste più e la sua erede, la Russia, non è quella potenza, economica e militare, rappresentata dal blocco sovietico. Oggi Cuba non rappresenta una minaccia per gli USA: l'Avana non può contare più sugli aiuti sovietici e il nuovo faro del comunismo mondiale è rappresentato dalla Cina, la cui potenza economica è tale da costringere gli USA ad un doppiopesismo: criticare le violazioni cubane sui diritti umani e tacere spudoratamente su quelle cinesi.

L'economia cinese si sta aprendo sempre più verso modelli tipicamente capitalistici ed occidentali: le privatizzazioni, sempre più consistenti di ampi settori dell'industria pubblica – fenomeno noto come socialismo di mercato – hanno determinato una forte espansione e crescita dell'economia cinese soprattutto nelle esportazioni estere e nel controllo di ampie fette di mercato internazionale. La differenza, tuttavia, è che la Cina è una superpotenza, mentre Cuba è una piccolo isola, poco distante geograficamente dagli USA, in cui le privatizzazioni, seppur ancora assai timide, tuttavia potranno avere come possibile risultato una sempre più apertura del Paese verso il modello politico e di libertà rappresentato dagli Stati Uniti. Si tratta di un processo lungo, ancora alla fase iniziale, ma il cui esito non può che essere quello poc'anzi delineato: una americanizzazione, in termini politici, di Cuba.

La visita di Obama, pertanto, ha poco di storico – certamente meno storica del concerto dei Rolling Stones – e serve esclusivamente a ricordare negli annali una presidenza che, celebrata fin dalla nascita come rivoluzionaria per il fatto di avere portato il primo uomo di colore afroamericano alla Casa Bianca, tuttavia non si è assolutamente distinta rispetto alle precedenti amministrazioni.

venerdì 25 marzo 2016

Da Parigi a Bruxelles: un'analisi degli attentati dello Stato Islamico

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Da Parigi a Bruxelles: un'analisi degli attentati dello Stato Islamico



"E' inutile negarlo, siamo in guerra". Poco importa la qualità di queste parole e se a pronunciarle sia stato il Premier francese Manuel Valls. Il dato più eclatante è che l'Europa è già in guerra, probabilmente sin dalla sua creazione. Dall'Iraq all'Afghanistan, dalla Libia alla Siria, senza dimenticare la guerre cachée nel corno d'Africa e i colonialismi del passato. L'Europa è un Albero piegato dal Vento della ipocrita democrazia da esportare, stile americano, che ad un certo punto tende a spezzare il suo tronco. Avevamo già assistito alle dolorose ferite di Madrid, Parigi e Londra adesso Bruxelles. L'Alberto Europa, ecco, si è spezzato. Dobbiamo chiederci come mai una città come Bruxelles possa aver subito un grosso smacco a livello di sicurezza. Si pensava che la capitale del delle istituzioni europee, Commissione, Consiglio, Parlamento e della Organizzazione di Difesa, la NATO, potesse rappresentare un fortino sicuro dove poter prendere un aereo, recarsi al lavoro o all'università in piena sicurezza, sembrava la normalità. Invece no, oggi rappresenta il cuore del terrorismo Europeo, ciò che emerge dalle rovine di quell'albero spezzato. Non è mia intenzione criticare, in un momento così delicato, bensì analizzare perché il Belgio sia diventato il covo dei jihadisti.

Potrebbe sembrare scontato, ma bisogna partire dal sistema di integrazione nazionale che ogni Paese applica ai suoi immigrati-cittadini. Per giungere al Belgio bisogna partire dalla Francia. Come non ricordare le rivolte del 2005 nelle Banlieue parigine, frutto di una politica interna concentrata sui pregiudizi ed errori di strategia per l'integrazione della popolazione, per la maggior parte algerina e marocchina, con scarse possibilità economiche. La popolazione arabo-francese chiedeva rispetto e uguale dignità al resto dei francesi e un diritto alla casa. In Francia le abitazioni popolari rappresentano meno del 2,5% delle abitazioni totali, mentre la legge impone un 20%[1]. Ma d'altronde sono problemi presenti nella maggior parte dei paesi Europei, un'integrazione che oggi ha portato ad un maggiore disequilibrio interno. Il modello assimilazionista francese ha creato uno stereotipo di integrazione in cui il migrante è tenuto a conformarsi completamente alla cultura e alla società francese, muovendosi all'interno di uno stato laico che garantisca l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti la legge. All'interno di questo sistema, però, esistono malcontenti generati dai pregiudizi e discriminazioni. I giovani di discendenza extraeuropea sono spesso vittime di particolari disagi che si traducono in diversi modi: difficoltà di inserimento lavorativo e condizioni abitative piuttosto disumane. La conseguenza più ovvia è l'emergere di conflitti etnici che pone in discussione il principio secondo cui la cittadinanza politica e l'uguaglianza di fronte la legge siano sufficienti a garantire l'integrazione socio-culturale dei migranti nella società francese.[2] Gli attentati di Parigi, quindi, possono essere analizzati da una prospettiva etnica-religiosa, e appaiono come l'incontro inevitabile tra la marginalità sociale ed economica delle banlieues e i valori anti-sistema proprio dell'islam radicale, che sembra aver generato un modello nuovo di inclusione all'interno di una comunità di eguali che va oltre alle appartenenze nazionali, ovvero quel modello di eguaglianza sostanziale che il sistema francese di integrazione non sia riuscito a realizzare effettivamente.

Dalla Francia al Belgio, le similitudini sono diverse e numerose. Due nazioni che parlano la stessa lingua, condividono la stessa cultura europea e gli organi istituzionali dell'Unione Europea. Oggi Bruxelles è ritenuta uno dei punti di maggior concentrazione di jihadisti, paragonabile, quasi, ad una provincia dell'IS. Per spiegare come tutto questo è stato possibile occorre procedere di passo in passo. A partire dagli anni cinquanta del '900 in Belgio è stata costruita un'importante rete fondamentalista che ha potuto evolversi nel tempo senza alcun disturbo da parte delle autorità federali belghe e dei servizi di intelligence. Stiamo parlando di un movimento radicale che trae origine dalla grande Moschea del parco del Cinquantenario che sorge nel pieno centro di Bruxelles, finanziata e arricchita nel tempo dallo sceicco franco-siriano Bassam Ayachi. L'evoluzione "salafita" dell'islam belga non si è limitata solamente alla capitale, ma come una ragnatela ha coinvolto le principali città del Paese. Da Anversa alle Fiandre ha creato un sistema estremista ben sviluppato che ha visto la creazione di una vera e propria organizzazione, la Sharia4belgiu che nel 2010 ha iniziato ad invocare all'interno dei suoi consociati, terroristi potenziali e giovani emarginati dal sistema ghettizzante belga, la legge della sharia e la pena di morte per gli omosessuali. Il suddetto gruppo, soppresso nel 2015, ha costituito per molti anni un punto di riferimento importante affinché il jihadismo belga maturasse e captasse l'attenzione di tanti giovani, per essere inviati come messaggeri di Allah a combattere in Iraq e in Siria per poi far ritorno in terra belga. Un altro punto, non di poco conto, è sicuramente la posizione geografica di Bruxelles e del Belgio. Il cuore del continente Europeo, rappresenta una posizione privilegiata per una organizzazione terroristica. E' situato a poche ore di tragitto da aeroporti strategici, come ad esempio l’aeroporto di Düsseldorf in Germania, ben collegato, con voli economici, con i maggiori aeroporti della Turchia, crocevia strategico verso la Siria. Proprio in Belgio il terrorismo jihadista è stato abile nel crearsi una rete interna, una sorta di alleanze strategiche, con le diverse criminalità organizzate del Paese. Pensiamo alla mafia albanese e cecena, una delle prime finanziatrici di armi clandestine. Lo stesso autore dell’attacco jihadista ad un supermercato kosher di Parigi, nel gennaio del 2015, si sarebbe procurato le armi da esponenti della microcriminalità balcanica presente a Bruxelles. Attuare un piano di intelligence locale e di sorveglianza, proprio per stanare le reti interne e internazionali, appare molto difficile, così come la creazione di una strategia dettagliata per far fronte al terrorismo. Questo viene complicato maggiormente se ci troviamo di fronte ad una realtà come Bruxelles, in cui sono presenti 19 municipalità e ogni sindaco ha poteri di polizia, un vero rompicapo poliziesco-amministrativo che provoca rivalità interne in un momento in cui bisogna agire sotto un'unica veste investigativa. La stessa Bruxelles è divisa in più zone di competenza della polizia federale e questo sistema di certo ha impedito lo scambio di informazioni e bloccato molte inchieste. Alcuni sindaci oggi non conoscono, proprio per tale motivo, la lista delle persone a rischio di radicalizzazione che vivono nel territorio di loro competenza. In questa maniera è più facile creare nuove forze jihadiste e una rete di protezione a favore dei terroristi, e la cattura di Salah avvenuta dopo molto tempo è una prova lampante. Il problema, più che belga, è sicuramente europeo, in quanto è necessario un maggior coordinamento delle forze di intelligence di ciascun Paese dell'Unione. Infine, la politica di integrazione deve essere rivista. E' vero che esistono casi in cui un immigrato non vuole integrarsi, ed è vero pure che bisogna analizzare il problema di fondo e chiederci perché. La risposta appare scontata, ma è necessario riflettere. Oggi, in Belgio, un turco o un marocchino ha, ad esempio, tra il 20% e il 30% in meno di probabilità di trovare un lavoro rispetto ad un europeo. Certo, la non integrazione non giustifica il terrorismo e qualsiasi altra forma di criminalità organizzata. Oggi non c'è tempo per fermarsi, bisogna ripartire e riflettere, non solo in termini di unità e coordinamento di intelligence, ma in nuove e innovative politiche di integrazione.
Davide Daidone


Per saperne di più:
Internazionale, Giovanni De Mauro "Colombe", 24 Marzo 2016.
http://www.economist.com/news/europe/21695308-europe-must-confront-possibility-such-attacks-regular-basis-brussels-attacks-show




[1] SRU, loi de solidaritè et renouvellement urbain, 13 dicembre 2000.
[2]  Laura Zanfrini, Sociologia della convivenza interetnica, Laterza, Milano, 2010, pp. 29-55


giovedì 24 marzo 2016

Fosse Ardeatine, il ricordo di un efferato eccidio

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Fosse Ardeatine, il ricordo di un efferato eccidio




24 Marzo 1944 - Sul finire del Secondo conflitto mondiale, durante l’occupazione tedesca di Roma, 335 civili italiani vengono fatti radunare da militari della Polizia di Sicurezza e SD presso le grotte artificiali site in via Ardeatina, a Roma, per essere ivi fucilati subito dopo. Il triste avvenimento, oggi noto ai più come il Massacro delle Fosse Ardeatine, costituì la rappresaglia della polizia tedesca ad un attentato partigiano, risalente al giorno precedente al massacro, durante il quale 17 partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica fecero esplodere, nel corso di una parata militare, un ordigno in via Rasella, uccidendo 42 militari, per lo più tedeschi, e ferendo alcuni civili.


Il tenente colonnello H. Kappler, di concerto con il generale K. Mälzer, stabilirono che per ogni militare ucciso sarebbero dovuti morire dieci italiani, prelevati dai carceri romani tra i detenuti condannati a morte. Il progetto omicida fu messo in atto dai capitani delle SS Erich Priebke e Karl Hass, i quali non solo selezionarono un numero di vittime maggiore rispetto a quello inizialmente stabilito (335 anziché 330), ma, non riuscendo a reperire un numero tanto alto di condannati a morte, selezionarono un ulteriore e nutrito gruppo di prigionieri tra i condannati per reati politici o per aver preso parte, direttamente o indirettamente, a azioni della Resistenza, nonché 57 prigionieri ebrei. In seguito alla fucilazione dei prigionieri, avvenuta singolarmente e a distanza ravvicinata, l’entrata delle fosse fu fatta saltare con l’esplosivo, in modo da chiudere definitivamente ogni accesso alla zona del massacro. 

Al termine della guerra, i responsabili dell’eccidio furono, secondo tempi e modalità diverse, assicurati alla giustizia. Mälzer, nel 1945, fu processato da un tribunale inglese e morì in prigione poco tempo dopo; Kappler, inizialmente condannato all’ergastolo presso un tribunale italiano, riuscì a evadere e a rifugiarsi in Germania, da dove non fu estradato per gravi motivi di salute. Morì di cancro poco tempo dopo. Ben nota, soprattutto in Italia, è la vicenda giudiziaria di Priebke, il quale fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello solo nel 1998, dopo un primo processo svoltosi nel 1996 presso un tribunale militare che aveva giudicato il reato estinto, suscitando lo sdegno dell’opinione pubblica; morì nel 2013 scontando gli arresti domiciliari.  

Dal 1949 presso il luogo dell’eccidio sorge un monumento nazionale dedicato alla memoria delle vittime; qui, ogni anno, si celebra un momento commemorativo alla presenza delle più alte cariche dello stato. Oggi più che mai, alla luce dei recenti avvenimenti che hanno terrorizzato l’Europa, veritiere e toccanti risultano le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, durante la sua prima visita alle Fosse Ardeatine, dove si è recato subito dopo il suo insediamento, ha affermato: “L’alleanza tra nazioni e popolo seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso. La stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore.”
Alessia Girgenti

sabato 19 marzo 2016

Decrescita economica globale: criticità e risposte del dopo G-20 di Shangai

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Decrescita economica globale: criticità e risposte del dopo G-20 di Shangai



Nel novembre 2012, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) esprimeva le proprie inquietudini circa la crescita dell’economia mondiale, nel suo insieme e in particolare nei 34 paesi membri OCSE. Nel rapporto “Looking to 2060: long-term global growth prospects”, si evidenziava come il tasso di crescita dei paesi OCSE fosse destinato a rimanere invariato, stabilizzandosi intorno al 3%. Contrariamente, il rapporto 2012 sottolineava l’impennata dell’economie emergenti (+7% PIL), soggette anch’esse a una frenata a partire dal 2020. E in effetti, se consideriamo lo stato attuale della Cina, assistiamo a una decrescita del PIL che passa dal 7,8% nel 2013 al 6,8% nel primo semestre 2016. Tale arresto, di quella che dagli anni ‘90 risulta essere una crescita rapida (con punte di anche il 10%), mette in guardia il governo cinese che procede svalutando la moneta nazionale, lo Yuan, per rilanciare la domanda e le esportazioni. Il deprezzamento dello Yuan minaccia l’andamento delle altre economie, provocando delle ripercussioni sul piano della competitività internazionale. A tal fine, in occasione del G20 finanziario di Shangai, l’OCSE ha invitato la Cina ad adottare delle riforme strutturali, dal lato dell’offerta più che della domanda, senza manipolazione dunque dei tassi di cambio. Lavorare sul fronte dell’offerta e delle riforme strutturali appare tra le raccomandazioni del rapporto finale “Going for Growth”, approvato dai Ministri delle finanze e dai Governatori delle Banche Centrali, riunitisi a Shangai il 26-27 febbraio 2016. Tale rapporto, risulta perfettamente in linea con la strategia “Europe 2020-Europe growth’s strategy” (adottata nel 2010 dalla Commissione e valida per i successivi 10 anni) nonché con il Programma di lavoro 2016 della Commissione Juncker. Quest’ultimo, elenca in maniera dettagliata le riforme strutturali da avviare nelle economie avanzate, così come ripreso dal successivo rapporto OCSE. Il Programma 2016 della Commissione europea si propone di:

Rilanciare il mercato del lavoro e in particolare l’occupazione giovanile: la Youth Employment Iniziative punta alla riduzione della disoccupazione che colpisce il 20% dei giovani in età 18-25 appartenenti all’UE-28, aiutando le regioni dove il tasso di disoccupazione della suddetta categoria supera il 25% (Grecia, Spagna, Italia) e riducendo così la disparità interregionale. Tale iniziativa, è stata trasposta in Italia attraverso il “Piano Garanzia Giovani”, che tuttavia ha garantito un’occupazione reale soltanto per il 15% degli giovani iscritti. Occorre inoltre ricordare che solo il 17% dei giovani NEET (Not engaged in Education, Employment or Training) si è iscritto al programma occupazionale promosso dal Governo, risultando così fallimentare rispetto al numero dei beneficiari potenziali;

Rilanciare gli investimenti: The Investment Plan for Europe si pone come obiettivo quello di rilanciare l’economia reale mobilizzando circa 315 milioni di euro in 3 anni. Attualmente la maggior parte degli investimenti, il 17%, è stata destinata al rilancio delle azioni in materia ambientale, anche in vista della COP21 tenutasi a dicembre 2016;

Rivedere la politica climatica ed energetica dell’UE: Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development. Approvata dai Paesi della COP21, la nuova agenda si propone la riduzione delle emissioni di carbonio nonché di gas a effetto serra, al fine di limitare l’aumento della temperatura terrestre. Parallelamente, vi è l’obiettivo di puntare sulla resilienza dei sistemi socioeconomici ed ecologici, attraverso la diversificazione economica e la gestione durabile delle risorse;

Promuovere l’accesso libero ai mercati e nuovi business models: The single market strategy si propone di rendere più libero e accessibile il mercato dei beni e servizi in Europa stimolando la competitività europea, finora limita a livello regionale e con notevole disparità tra centro e periferia in Paesi come Francia e Italia. 

Correggere le tendenze economiche negative e allo stesso tempo riformare la governance economica europea, tramite l’istituzione di meccanismi per la gestione e la prevenzione degli squilibri micro e macroeconomici, tale appare dunque la priorità della Commissione Juncker per l’anno in corso. Nello stesso tempo, prevenire il deprezzamento della valuta cinese, i cui effetti colpiscono non soltanto il settore dell’export europeo, ma anche il potere d’acquisto dei cinesi sui mercati esteri, penalizzando dunque alcuni dei settori trainanti l’economia europea quali quello del lusso.
Laura La Scala 

Bibliografia: 


Programma di lavoro 2016 Commissione, http://ec.europa.eu/atwork/pdf/cwp_2016_en.pdf

Rapporto OCSE “Going for growth”, http://www.oecd.org/eco/growth/goingforgrowth.htm

giovedì 17 marzo 2016

Why the NATO is in the Aegean? What is European reaction? Waiting for the European Council answer on 17 Mars

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Why the NATO is in the Aegean? What is European reaction? Waiting for the European Council answer on 17 Mars


The European Union has promptly responded to Turkey requests for the migrant question. Since 2014, two European naval operations have taken place in the Mediterranean in order to deal with human trafficking. However, two European countries have asked NATO for help in the Aegean, and even Turkey, despite the planned aid, didn’t hesitate to plaid for NATO assistance. Is the EU ineffective according to Turkey? This article wants to explore the European weakness, analysing at the same time the issue of NATO presence in the Aegean.

The main challenges of future Europe
According to Stephen M. Waltz, professor of International Relations at Harvard University, the EU suffers from growing tensions and several self-inflicted wounds. For this reason, the EU is facing five challenges:
·      Over-expansionism: EU member states are independent nationals with their own internal politics and their government. Expansion has made the EU more divided and less popular. Indeed, in 2014 a lot of European citizens believed that their voice didn’t count in EU decision-making and didn’t understand the importance of being Europeans citizens.
·      The fall of the Soviet Union: the absence of an external danger encouraged European leaders to focus more on selfish national concerns and seeing the EU as a way to limit and constrain German dominance. Furthermore, the recent events in Ukraine and the incoherent European response to it have shown the lack of consensus on basic security issues.
·      The economic crisis: the 2008 financial crisis exposed the EU weakness. Seven years have passed since the crisis hit and the EU lacks the political institutions and personalities needed to sustain it. EU member states such as Greece and United Kingdom are taking advantage by this difficult period to justify their desire to leave the Union.
·      The internal nationalism: the economic stagnation, high youth unemployment and concerns about immigration have also incited a resurgence of Eurosceptic nationalist parties that reject the core principles on which the EU is built.
·      The tensions in the neighbour areas: state failures in Libya, Syria, Yemen and sub-Saharan Africa have produced a flood of refugees seeking to get in, while the emergence of the Islamic State. The EU has been unable to agree on new measures to address any of these challenges, however, further underscoring its dysfunctional decision-making process.
These problems represented a problem for the future of Europe, particularly for the Neighbourhood Policy: concretely, the question of relations with Turkey for control of migration flows. On 7 August 2015, the Foreign Policy Journal wrote that it was vital to reset and revitalize the relationship between Turkey and the West in all areas, including cooperation in combating the Islamic State in Syria. European officials emphasized the distance Turkey needed to travel to be “good enough” for EU membership — rather than the distance it had come. Turkey and the EU already agreed in May 2015 to renew talks on the Customs Union in early 2016 and to discuss extending it to include services, government contracting and most agricultural goods. Both sides need to begin consulting internally and work to build confidence in its mutual benefits. At the theoretical level, this type of relationship is represented by the comprehensive and the multilateral approach, typical of the European Union (already analysed in previous articles like « Not About defence, not about Common »). However, the ideological, legal and institutional structures of the European Union requested the external assistance from NATO in the context of military operations. Here we will face the question of NATO presence in the Aegean.

The NATO in the Aegean
On Tuesday 9 February 2016, Jens Stoltenberg, NATO Secretary General, said that the aim of meeting (9 – 11 February) was the reinforcement of dissuasion and collective defence. In this occasion, the defence ministers of the alliance’s member countries wanted to speak about the political situation of the Alliance East Area. The major subjects were the situation in Georgia (about its political and security reforms), and the fight against ISIL. Consequentially, the Syrian crisis was tackled. That same day, the Defence Ministers of Turkey, Greece and Germany formally asked NATO’s military assistance in the eastern part of the Mediterranean, in order to manage the monitoring of migration flows. On Thursday 11 February, Jens Stoltenberg affirmed in his official speech that NATO would have supported the joint request of Germany, Turkey, and Greece in order to assist them in the management of the refugee and migrant crisis. The goals were:
·      To participate in the international effort to stem illegal trafficking and illegal migration in the Aegean,
·      To contribute critical information, surveillance, and reconnaissance at the Turkish-Syrian borders,
·      To provide tools and advice in specifics areas, thanks to collaboration with the European Union.
However, at the request of the United States, NATO also decided to send surveillance planes to patrol the Turkish-Syrian border: the official purpose is to degrade and destroy ISIL. However, it seems important to note that this operation can have two interpretations. The first is that this mission can be interpreted as an operation to dual purpose: on one hand, to deal with the issue of migration; on the other hand, to have an excuse for squeezing NATO ships close to Turkey to fight ISIS and to provide further « American support » to the Turkish domestic lawsuit against Russia. On the other hand, this mission is parallel to the Operation Sophia: the EU operation in the central Mediterranean.
Nevertheless, the EU has not been affected by the backlash at all: two European states have turned to NATO and not to the EU to resolve an issue that could be carried out within the framework of the EU defence policy and common security. In addition, until now, the European Union has not had a political reaction to the request made by Turkey to NATO, considering that Turkey will receive a large sum of money by Member States. Indeed, in the Conclusion on migration of the European Council on 18 and 19 February, the EU welcomed NATO decision to offer assistance in order to monitor and control the Aegean. Moreover, the High Representative (HR) Federica Mogherini, after the meeting with Jens Stoltenberg, said that the EU and NATO would have worked in coordination, and she informed NATO’s Secretary General of the decision to establish an EU cell to facilitate clear coordination arrangements and ensure effective cooperation with NATO at all levels. The HR underlined that the EU was ready to share with NATO the experience it has gained through Operation Sophia and that appropriate operational contacts will be established.
In 2014, the EU launched Operation Triton in the coastal waters of Italy. Both the Operation Triton and Operation Sophia were aimed at combating people smuggling between Libya and southern Europe, and their effectiveness in this area is still debated. It seems essential to point out that, according to the Foreign Affair Journal, NATO’s mission has a more limited scope than some of these earlier efforts. The Eastern Mediterranean routes that NATO will target are far less deadly for migrants than voyages over the central Mediterranean (where the EU ships are). The aim of NATO’s mission is similar to that of the EU’s Joint Operation Triton, which was launched (to monitor the people smuggling networks operating in the in the territorial waters of Italy). One difference between the EU’s naval operations in the Central Mediterranean and NATO’s deployment in the Aegean is that NATO will send rescued migrants to Turkey, rather than transport them to the EU. Although NATO will have fewer restrictions on its geographical area of operations, the scope of its mission will be more limited than that of Operation Sophia.
Why does the European Union accept the NATO presence? What are the real reasons of NATO presence? What will it be the European answer to Turkey?
Maybe the European Council in 17 – 18 Mars could give us an answer.

Maria Elena Argano

For further information:
Foreign Policy Journal Site “Does Europe Have a Future?”, Stephen Waltz July 16 2015: http://foreignpolicy.com/2015/07/16/does-europe-have-a-future-stephen-walt-testimony-house-foreign-affairs-committee/
Foreign Policy Journal Site “Turkey and the West — Getting Results From Crisis”, by Stuart Eizenstat, Sebnen Ozcan, August 7 2015: http://foreignpolicy.com/2015/08/07/turkey-and-the-west-getting-results-from-crisis-incirlik-islamic-state-nato/
Site du Conseil européenne « Conseil européen des 18 et 19 février 2016 – conclusions sur les migrations »: http://www.consilium.europa.eu/fr/press/press-releases/2016/02/18-euco-conclusions-migration/
EEAS Site “Press Release: Meeting between High Representative / Vice-President Federica Mogherini and Secretary General of NATO Jens Stoltenberg”: http://eeas.europa.eu/statements-eeas/2016/160212_05_en.ht
Council of foreign affair Site “NATO’s Mediterranean Mission”, by Yuri M. Zhukov: https://www.foreignaffairs.com/articles/europe/2016-02-21/natos-mediterranean-mission


mercoledì 16 marzo 2016

Sparatoria a Bruxelles: l'allerta resta al terzo livello

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Sparatoria a Bruxelles: l'allerta resta al terzo livello



Nell'ambito delle indagini da parte del procuratore federale a seguito degli attentati di Parigi, una ricerca è stata condotta nel pomeriggio di martedi, intorno 15h, in un appartamento di rue de Dries  a Forest (un comune situato nella parte sud di Bruxelles). Durante questa operazione congiunta delle forze belga e francesi, una o più persone immediatamente hanno aperto il fuoco sui poliziotti. Tre di loro sono rimasti lievemente feriti, un altro invece ha riportato delle ferite più importanti a seguito della seconda sparatoria. Poche ore dopo, alle 18h 15 uno degli uomini forniti di  kalashnikov è stato ucciso durante l'assalto strada, mentre gli altri due sospetti sono scappati passando tra i tetti.  

Due scuole e due asili si trovano nelle immediate vicinanze della scena della sparatoria. I bambini e il personale di tutte le scuole sono stati evacuati. La STIB (il servizio di trasporti di Bruxelles), aveva annunciato che le linee di tram 82 e 97 erano interrotte per rispettare il perimetro di sicurezza.  Le ricerche hanno persistito nella zona fino a notte fonda. I vicini dell'appartamento dov’è avvenuta l’irruzione sono stati anche ascoltati per determinare dove i due fuggiaschi possano essere andati. I due fuggitivi, sospettati di aver partecipato alla sparatoria sono stati arrestati: uno stanotte e l’altro stamattina. Khalid Ibrahim e El Bakraoui. Queste due figure di criminalità organizzata potrebbero essere le due persone che la polizia stavano ancora cercando la scorsa notte dopo l'assalto a Forest.

Questa mattina, le scuole e asili interessati vicini alla zona della sparatoria hanno aperto le loro porte. Secondo il sindaco Jean Marc Ghyssels, intervistato alla radio RTBF, "non vi era alcuna minaccia specifica di queste istituzioni o del pubblico. È solo una perquisizione andata male". Il movimento di autobus e tram ha anche ripreso normalmente. Il primo ministro Charles Michel, ha affermato che l’allerta resta al livello 3, esattamente come era ieri mattina. Il Consiglio di sicurezza nazionale si riunirà per i dettagli, e come organizzare le prossime tappe. Tuttavia, per il momento, niente allerte gravi.

Maria Elena Argano

Per saperne di più: