lunedì 30 novembre 2015

Gli attriti Nato - Russia si estendono in Medio Oriente

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Gli attriti Nato - Russia si estendono in Medio Oriente

Il golpe di Majdan, l’annessione della Crimea e la guerra civile ucraina hanno riaperto un mai realmente sopito scontro Est/Ovest che vede opposte la ‘nuova Nato’ rinvigorita dagli allargamenti post-89 e la Russia post-eltsiniana rialzatasi dai disastrosi anni novanta. Il golpe di Majdan scoppia poco tempo dopo l’accordo sull’arsenale chimico siriano e da allora la Russia è stata impegnata su due fronti. Nel primo, quello ucraino, Mosca vede messa a rischio la propria sicurezza nazionale e non mostra particolare apprezzamento verso l’accerchiamento della Nato: lo scontro tra le regioni ribelli del Donbass e il governo di Kiev va quindi inscritto in un più grande confronto tra Nato e Russia che qualche politologo in pieno impazzimento unipolare pensava si fosse concluso, decretando contemporaneamente la “fine della storia”. Il secondo fronte, quello siriano, vede in gioco gli interessi di molte potenze regionali e mondiali in una delle aree più calde del pianeta segnata da tribalismo, scontri politici, etnici e religiosi. Lungi dal voler ricondurre il tutto a paradigmi geo-religiosi che restano in superficie, il conflitto siriano va contestualizzato all’interno della partita iraniano-saudita nell’area del Golfo Persico/Arabico in un momento di riassetto degli equilibri globali e regionali. Tra i principali attori, oltre a iraniani, israeliani e sauditi, ci sono anche la Turchia e un (ultimamente meno) iperattivo Qatar. Non è più possibile leggere il mondo e gli scenari di crisi utilizzando la lente della guerra fredda e neanche il ritorno del confronto con la Russia deve spingerci in questa direzione. La storia – che non si ferma di fronte alle teleologie – ha deciso di procedere ugualmente: gli equilibri globali sono in mutamento ed  il progressivo declino della super-potenza statunitense si ripercuote in diversi scenari, non ultimo il subbuglio mediorientale. 

Come leggere la crisi tra Mosca e Ankara causata dall’abbattimento del jet russo? Da una parte c’è l’aspirante sultano Erdogan artefice di una rinascita islamista e propugnatore di una politica neo-ottomana volta a ricostruire l’influenza turca nei territori dell’impero perduto. Quale occasione più ghiotta di una guerra civile mediorientale? Dall’altra parte una Russia nuovamente attiva nello scenario mediorientale che non si identifica nella limitante definizione obamiana di “potenza regionale”: in Siria la Russia si sta giocando il proprio status di potenza. La crisi russo-turca minerà certamente le notevoli relazioni tra i due paesi in ambito economico[i] come ha preannunciato il primo ministro russo Dmitry Medvedev[ii]. E’ a rischio anche il progetto del “Turkish Stream” (a sua volta figlio della crisi ucraina), gasdotto che dovrebbe collegare la Russia alla Turchia attraverso il Mar Nero per poi arrivare in Europa passando per il territorio greco.
I due paesi in Siria seguono agende opposte: la Russia sta al fianco del governo e dell’esercito siriano mentre la Turchia è intenzionata ad estendere la propria influenza nel nord della Siria e a buttare giù Assad a qualsiasi costo. L’‘ambigua’ politica turca nei confronti dell’IS si spiega con l’incompatibilità della permanenza di Assad con i disegni neo-ottomani di Erdogan. Una lotta all’IS che al contempo legittimi il governo siriano per la Turchia non avrebbe senso ed è per questo che l’intervento russo ha fatto andare su di giri il leader turco, soprattutto se in gioco ci sono anche i “fratelli turcomanni”, fazione ribelle attiva nella Siria nord-occidentale, sostenuta apertamente dalla Turchia. Nella lotta contro l’esercito siriano, i turcomanni non si sono tirati indietro di fronte a convergenze sul campo con le formazioni jihadiste attive nell’area; in un’analisi della BBC si può leggere a tale proposito: «Reports say the brigades work with other opposition armed groups in the northern Latakia countryside, including the FSA, the al-Qaeda affiliated Nusra Front and the Islamist Ahrar al-Sham»[iii].
E’ difficile pensare che l’abbattimento del jet russo sia stato ‘casuale’. Al di là della discussa presunta violazione dello spazio aereo turco, non si abbatte un aereo di un paese amico o anche ‘non nemico’ per una violazione di pochi secondi che non rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale. Se lo si fa è evidente che si vuole lanciare un forte segnale (geo)politico, consapevoli delle gravissime ripercussioni che ne seguiranno; d’altra parte la Turchia ha visto svanire il piano della costituzione di una zona cuscinetto nel nord della Siria sotto il controllo dei ‘ribelli moderati’ e magari con il supporto di una no-fly zone a danno dagli aerei dell’esercito siriano. Come fa notare Alberto Negri[iv], non è forse un caso il fatto che l’aereo russo sia stato abbattuto poco dopo la visita di Putin a Teheran. Tra gli ‘eredi’ degli storici imperi russo, persiano e ottomano (caratterizzati nel corso della loro storia da rapporti di rivalità e competizione) si consolida l’intesa geopolitica russo-iraniana in opposizione alle aspirazioni di Erdogan che considera intollerabili le ingerenze nella ‘sua’ parte di Siria. Gli analisti si dividono tra coloro che mettono in primo piano il ruolo attivo indiretto della Nato (e quindi degli Usa) a cui la Turchia avrebbe reso un favore[v] e coloro che invece attribuiscono l’azione di Ankara ad una maggiore autonomia decisionale della Turchia, interessata a far peggiorare i rapporti tra Nato e Russia[vi].
La risposta russa è stata decisa ma controllata, evitando di fomentare una pericolosa escalation militare con una potenza regionale, componente fondamentale della Nato. La Russia però sta rafforzando notevolmente la presenza militare con il posizionamento dell’incrociatore Moskva lungo le coste siriane e con lo schieramento dell’avanzatissimo sistema antiaereo S-400, suscitando l’apprensione degli USA.
Non sono facilmente prevedibili i risvolti che la crisi tra Russia e Turchia avrà nella formazione della coalizione anti-Isis e in particolare nella recente inedita intesa russo-francese. E’ certo che l’abbattimento del Su-24 sta avendo come immediata conseguenza un maggiore coinvolgimento militare della Russia in territorio siriano con ciò che questo comporta in termini di rapporti di forza tra le parti in lotta. Si acuisce sempre di più il grande problema del futuro del “Syraq” che divide russi, turchi, potenze occidentali, curdi e i vari altri Stati che sono ‘presenti’ in Siria come committenti di proxy wars.
Federico La Mattina



[i]  Vedi J. Sapir, Impact économique sur les relations Russo-Turques http://russeurope.hypotheses.org/4502.
[ii] https://www.rt.com/news/323373-ankara-defends-isis-medvedev/
[iii] http://www.bbc.com/news/world-middle-east-34910389.
[iv] A. Negri, Due imperi e il terzo incomodo, http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-11-26/due-imperi-e-terzo-incomodo-073054.shtml?uuid=ACJdLfhB.
[v] Si veda ad esempio F.  Scaglione, La Nato alla guerra contro la Russia, http://www.fulvioscaglione.com/2015/11/24/la-nato-alla-guerra-contro-la-russia/.
[vi] Si veda in proposito D. Santoro, Erdoğan abbatte il jet perché vuole la crisi militare tra Nato e Russia http://www.limesonline.com/erdogan-abbatte-il-jet-perche-vuole-la-crisi-militare-tra-nato-e-russia/88146?prv=true.

venerdì 27 novembre 2015

Seminario "Mafie e diritti umani"

Seminario "Mafie e diritti umani"


L'Istituto Mediterraneo Studi Internazionali organizza il seminario "Mafie e diritti umani". Nel corso dell'incontro verrà affrontato il tema delle mafie in rapporto alla violazione dei diritti umani seguendo un approccio multidisciplinare che permetta di fornire un quadro completo del tema trattato e favorisca il coinvolgimento dei partecipanti al dibattito. 
L'incontro si terrà giovedì 3 dicembre alle ore 9:00 presso l'Aula Giovanni Falcone della Facoltà di Scienze Politiche di Palermo, via Maqueda 324

Per partecipare basta registrarsi compilando l'apposito modulo: 

Programma della giornata:

Ore 8.30 Registrazione dei partecipanti
 Ore 9.00 : Saluti
Dott. Gabriele Messina, Presidente di I.ME.SI
Prof. Alessandro Bellavista, Direttore DEMS Università degli studi di Palermo
Prof. Fabrizio Micari, Magnifico Rettore dell'Università degli Studi di Palermo
Ore 10.00 : Introduzione
Prof.  Antonio Sinesio , docente di diritto pubblico comparato e diritto internazionale presso l'Università degli studi di Palermo.
Prof. Nicola Romana, docente di diritto internazionale,  presso l'Università degli studi di Palermo.
Ore 11.00: Interventi
Prof. Antonino Blando, docente di storia contemporanea, presso l'Università degli studi di Palermo.
Dott. Rodolfo Ruperti, Capo Squadra Mobile della Questura di Palermo
Dott. Claudio Camilleri, Sostituto Procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo
Ore 12.30: Conclusioni
Dott. Leonardo Agueci, Procuratore Aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo
Modera:
 Dott. Rosario Fiore, Cultore di diritto pubblico comparato presso l'Università degli Studi di Palermo e Segretario Generale I.ME.SI
Domande dei partecipanti

giovedì 26 novembre 2015

Cause ed effetti del bipartisanship americano sullo scenario internazionale: dal 1776 al 1945

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Cause ed effetti del bipartisanship americano sullo scenario internazionale:
dal 1776 al 1945



L’eccezionalismo è un fenomeno che si spiega principalmente con lo sviluppo sociale ed economico di un paese che non ha bisogno del governo per facilitare la mobilità sociale, e costruire libere istituzioni. In politica estera, i principi alla base di tali istituzioni hanno sempre nutrito un sentimento di eccezione. L’imperialismo di George Bush, e l’attuale politica estera di Barack Obama sono il risultato di una evoluzione politica ed economica cominciata con la nascita della federazione americana, ed incrementata all’inizio della seconda guerra mondiale. Tuttavia, svelare i meccanismi del bipartisanship può rendere più chiare le scelte di politica estera fatte da amministrazioni diverse, e allo stesso tempo mostrare come delle false credenze possano stigmatizzare le strategie e i valori di due partiti politici apparentemente opposti. L'eccezionalismo americano ha sempre avuto importanti implicazioni per la politica estera. Storicamente, gli americani hanno visto le loro istituzioni non come adattate esclusivamente per il popolo del Nord America, ma come l'incarnazione di certi ideali e aspirazioni universali da estendere uno giorno nel resto del mondo. Oggi, è uso comune criticare i "neoconservatori" dell'amministrazione Bush per il loro progetto messianico di promuovere la democrazia nel mondo. Ma questa tendenza idealistica è presente nella politica estera americana sin dall'avvento della Repubblica. La loro auto-percezione si fonda sulle parole ereditate dall'era coloniale «novus ordo seclorum» ("il nuovo ordine dei secoli"), che riflette perfettamente la visione dei Padri Fondatori americani per il significato storico e universale della propria esperienza democratica. Nel XX secolo, i timidi sforzi idealistici di Woodrow Wilson per fondare la Società delle Nazioni, e la promulgazione delle quattro libertà di Franklin D. Roosevelt riflettono la convinzione condivisa degli americani nell'universalità delle loro istituzioni. In questo articolo l’obiettivo è spiegare il percorso che ha trasformato gli Sati Uniti da potenza isolazionista a forza intervenzionista, prendendo in considerazione le caratteristiche principali che hanno fondato la Repubblica. Successivamente sarà presa in considerazione l’era del consolidamento delle colonne portanti dello stato americano, mostrando la loro resistenza alle sfide economiche, politiche e finanziarie. Infine, verrà mostrato come dall’eccezionalismo è nato un sistema bipartisan all’alba della seconda guerra mondiale, e quindi le cause e le implicazioni.
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Maria Elena Argano

lunedì 23 novembre 2015

L'insostenibile bugia dell'Occidente

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

L'insostenibile bugia dell'Occidente



Al di là di ogni ipocrisia, je suis Bataclàn e Facebook con la possibilità di trasformare il nostro volto con i colori della bandiera francese, al di là dunque della dovuta solidarietà ai fratelli parigini, anche perché noi stessi possiamo essere i prossimi obiettivi e dunque oggetto noi stessi di solidarietà, al di là della ovvia e ferma condanna del terrorismo, dobbiamo tuttavia porci seriamente una domanda: quando l'Occidente la smetterà con l'assurda pretesa di esportare il suo modello di democrazia nel resto del  mondo ed in special modo in quello islamico?
L'Occidente ed il mondo islamico sono due civiltà culturalmente e politicamente assai differenti tra loro, ed è per questo sbagliato cercare di stabilire una prevalenza dell'una sull'altra: è sbagliata l'impostazione del fondamentalismo islamico, che vuole convertire gli “empi” ad ogni costo, fino alla uccisione; ma altrettanto sbagliato, anzi peggiore è il tentativo, atavico e non moderno, del mondo occidentale di “democratizzare” il mondo islamico, esportando in esso quelli che sono i valori tipici e fondanti dell'Occidente stesso, primo fra tutti il nostro concetto di “laicità dello Stato”.
In Occidente, la Pace di Westfalia (1648) non sancisce solo la nascita del moderno diritto internazionale, inteso come ordinamento della comunità degli Stati, liberi e sovrani, non superiorem recognoscentes; sancisce quanto il ben più importante principio della laicità dello Stato, ossia l'idea che ogni comunità politica non si conforma ai precetti della religione.
Il principio della laicità dello Stato è alla base del moderno costituzionalismo, che ha influenzato le istituzioni politiche dell'Occidente, europeo e nordamericano; esso rappresenta il punto cardine – insieme al principio dello Stato di diritto – del concetto occidentale di democrazia, riassumibile nell'assunto illuministico del “libera Chiesa in libero Stato”.
Volere esportare “democrazia” nel mondo islamico, vuol dire volere esportare anche il principio “ occidentale” di laicità dello Stato, che tuttavia ha un significato filosofico-concettuale europeo, giacché figlio di quel noto fenomeno culturale che è stato l'Illuminismo e che ha riguardato solo ed esclusivamente l'Europa del XVIII secolo; vuol dire in altri termini, l'assurda pretesa dell'Occidente di sostituire alla “laicità islamica” il proprio concetto di laicità.
Ma esiste una “laicità islamica”?
L'idea che nel mondo islamico non esista una separazione tra fede e politica, tra istituzioni religiose e istituzioni politiche, deriva da una grossolana visione storica delle cose che appiattisce le differenze e pretende di giudicare tutto secondo i modelli occidentali. In realtà, l'Islam - al pari dell'ebraismo - non conosce istituzioni religiose paragonabili alla Chiesa, ma soltanto associazioni, confraternite, comunità di preghiera o di vita ascetica, sodalizi che amministrano i beni materiali legati ai luoghi di culto.
Da parte loro, le istituzioni politiche islamiche si sono fin dal VII secolo sviluppate tenendo conto di modelli statuali come gli imperi bizantino e persiano. La «shari'a», la legge derivante dal Corano, ha fino a tempi recentissimi avuto dappertutto un valore rilevante sul piano del diritto privato ma non su quello pubblico: i sovrani emanavano la loro legge, in arabo «qanun», una parola derivante dal greco «kanon» (da cui l'aggettivo italiano «canonico») e indicante il complesso giuridico dipendente dal diritto giustinianeo. Che i sovrani islamici siano ricorsi più o meno spesso al consiglio degli «ulama», gli esegeti del Corano provvisti di un'autorità legittimata da una scuola, non ha mai minimamente configurato un «conflitto tra Stato e Chiesa»: l'autorità politica restava la sola a decidere; e sorvegliava anche l'attività degli «imam», i direttori di preghiera che ogni comunità («jama'a») all'interno della grande comunità generale dei credenti («umma») si sceglie liberamente.
Storicamente, dunque, la “laicità islamica” è antecedente a quella occidentale, e per certi aspetti più moderna di quest'ultima; l'arcaicizzazione dell'Islam, ossia l'instaurazione di regimi conservatori, integralisti e teocratici ( tra tutti, l'Arabia Saudita e l'Iran degli ayatollah) è una conseguenza del colonialismo occidentale, francese ed inglese in primis, nell'area oggi nota come Medioriente.
Nel suo secolare tentativo di dominare la civiltà islamica, l'Occidente ha sempre favorito la diffusione del fondamentalismo e dell'integralismo, anche col facilitare l'ascesa al potere di regimi teocratici e conservatori, in ragione del fatto che un mondo arabo moderno e non arcaico e non  conservatore avrebbe finito coll'essere in grado di potere concorrere ed essere antagonista con l'Occidente stesso.
Oggi, quindi, la pretesa occidentale di modernizzare l'Islam, esportando i nostri valori “democratici”, rappresenta , storicamente, una grande bugia, poiché l'Islam è già una civiltà “democratica”compiuta, forse composita, come la civiltà occidentale, culturalmente non subalterna ad essa; è una grande bugia in quanto  sottende ad una precisa strategia geopolitica – più o meno discutibile ed accettabile- di continuare a controllare “economicamente” il mondo islamico e i suoi ricchi territori di giacimenti naturali; strategia oggi resa ancora più pericolosa poiché gli attacchi terroristici dell'Isis hanno finito col danneggiare più il mondo islamico che l'Occidente stesso, ricreando una sinergia tra quest'ultimo e la Russia, che può soltanto comportare una ennesima “colonizzazione” del mondo islamico.
Dott. Rosario Fiore
Cultore di Diritto Pubblico Comparato e Diritto Internazionale Unipa
Segretario Generale IMESI

sabato 21 novembre 2015

Attentato a Parigi. Facebook e l'anestesia del Corano digitale

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Attentato a Parigi. Facebook e l'anestesia del Corano digitale

 a cura di Matteo M. Winkler e Federico Sbandi   


Come per gli attacchi di Charlie Hebdo (e più che in passato se solo si pensa all’11 settembre 2001 quando ancora Facebook non esisteva), ciò che colpisce nella serie di attacchi che hanno coinvolto Parigi una settimana fa è la sequenza di ritratti di eventi svoltasi, in parallelo rispetto alla realtà, su tutti i social network. Non saranno sfuggiti agli utenti più accorti le valanghe di condivisioni, status e conclusioni apodittiche, accompagnate dall’inaugurazione da parte di Facebook del servizio che consente di far sapere agli amici che chi viveva a Parigi in quel tragico momento stava bene. Alla voce confortante di una telefonata abbiamo sostituito un freddo click.

L’attentato a Parigi ci ha insomma ricordato che Facebook è come Wikipedia. Permette a tutti di contribuire a una comunità collettiva e interconnessa. La libertà di contribuire si traduce presto in dovere civico. La sola possibilità di poterlo fare spinge a contribuire anche persone non competenti. Fin quando l’ignoranza a-portata-di-click, però, posa il suo occhio pigro verso questioni secondarie, la comunità può accettarlo. Trasporre in Rete conversazioni da bar non incide negativamente sulla qualità della vita democratica. Perché si usano strumenti diversi per fare la stessa cosa, dopotutto.

Il problema sorge quando superficialità e gregarismo scavalcano il recinto di questioni complesse. Le strade si svuotano a tutto favore delle bacheche. L’abbiamo visto bene: ci si meraviglia della bellezza della gente che scende in strada in place de la République o nelle fiaccolate di paese, ma è una sensazione che molti si limitano a provare dalla propria scrivania o stravaccati sul divano con un tablet tra le mani. Il dibattito viene annullato dal cambio della foto profilo su Facebook. E la bandiera di turno non viene scelta a seguito di una riflessione interiore. Accade perché il Corano digitale ha suggerito di farlo.

Gli osservatori più attenti faranno notare che l’Occidente ha “scelto” di usare Internet, mentre la versione della realtà offerta dal Corano digitale viene imposta come unica. Eppure la possibilità di usare uno strumento si è presto tradotta in necessità compulsiva. E affermare che l’utilizzo di Facebook sia ancora oggi frutto di una scelta significa solo una cosa: non appartenere a questa epoca.

Qualcuno potrebbe sostenere la favola secondo cui esistano anche altri social network, oltre a Facebook. Ad esempio una delle vittime dell’attacco al teatro Bataclan ha usato Twitter per fornire dettagli sulla situazione e dirigere i soccorsi verso un luogo preciso dell’edificio, dove si trovava assieme a molti altri feriti. Ma sotto il profilo statistico i tempi di permanenza degli utenti parlano chiaro: Facebook è dove l’attentato nasce, cresce e muore. Nasce con le notizie, cresce con i commenti e muore con le foto profilo. Se per influenza intendiamo la capacità di guidare le idee e le azioni umane, l’accentramento di Facebook rende la sua influenza unica nella storia. Mai nessuno si è potuto rivolgere a così tante persone e in così poco tempo.

L’eco del dramma riecheggia però per massimo una-due settimane. Basta guardare quanti ancora oggi hanno la bandiera francese nel proprio profilo. Giusto il tempo di rimuovere acriticamente l’ennesimo dramma anestetizzato da Facebook. Un rapido test consente di validare questa stima. Basta domandare agli utenti dal cambio-di-foto-profilo-facile il senso della bandiera arcobaleno proposta da Facebook il 26 giugno di quest’anno o la nazionalità del bimbo morto sulla spiaggia turca. Molti non ricorderanno neanche più che la sede di Charlie Hebdo fosse proprio a Parigi.

L’incerta memoria di questi eventi fa da contraltare alla risolutezza con cui gli utenti si erano espressi su Facebook solo poco tempo fa. Sparisce intanto il punto di vista critico, perché non c’è più tempo per fermarsi a riflettere: bisogna commentare, ora. L’opinionismo massificato diventa la peggiore delle droghe. Spinge a commentare tutto-e-subito. Ma quando cala l’effetto della dose, e un evento non riveste più alcuna rilevanza nella propria rete sociale, dell’overdose digitale non resta più niente.

L’Homepage di Facebook viene inondata di articoli che ipersemplificano la comprensione della realtà – e indirettamente danno elementi minimi a tutti per commentare. Gli utenti vengono trattati come quei dodicenni che non sanno collocare la Siria e l’Iraq neanche sulla mappa, figurarsi in un assetto geopolitico. Tutti scoprono cos’è stato ieri, dunque possono commentare cos’è stato oggi. Ma nessuno capisce cosa sarà domani.

Il Corano digitale ha stabilito che se solo tutti avessero un profilo Facebook non ci sarebbero più guerre nel mondo, in quanto la connessione conduce alla pace. Interessante a riguardo l’asse Salvini-Fallaci, che ha palesato per l’ennesima volta quanto invece la connessione sia solo molto efficace nel diffondere l’odio.

In compenso gli utenti possono assistere e partecipare a questo spettacolo globale, comodamente dal proprio divano di casa. Stanno insieme, per non sentirsi soli. Commentano per avere il centro dell’attenzione e illudersi di riprendere quell’importanza che il mondo gli ha tolto. Esprimono la loro opinione convinti di darne una originale, oppure condividono quella di sconosciuti pensando che sia quest’ultima ad essere tale, anche se a sua volta è null’altro che un collage di frasi prese qua e là nella Rete.

Gli utenti continueranno a rispondere, quando chiamati all’attenzione, al loro Corano digitale. Ma alla fine della giostra non cambierà nulla. I dittatori resteranno al loro posto. Il gregarismo digitale delle foto profilo non sposterà di una virgola la coscienza delle persone. La Siria e l’Iraq resteranno al loro posto nelle mappe geografiche, che piaccia o no a Facebook. E la politica internazionale continuerà a essere decisa nei palazzi, lontano dai social network. I cinguettii digitali restano poca cosa rispetto alle conseguenze di atti tanto scellerati come quelli cui ormai assistiamo ogni giorno.

Si sospetta che Facebook sia una specie di religione solo perché lo è davvero. Come tutte le religioni causa anestesia intellettuale, perché chiede di accettare una visione delle cose senza fare troppe domande. La vera differenza? L’illusione di aver scelto.

venerdì 20 novembre 2015

Oltre l'Eurocentrismo: un'interpretazione ai fischi di Istanbul

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Oltre l'Eurocentrismo: un'interpretazione ai fischi di Istanbul



Martedì 17 Novembre, sono passati appena quattro giorni dagli attentati che hanno sconvolto la Francia, due giorni dal primo bombardamento delle milizie francesi in Siria ed un solo un giorno dalla dichiarazione ufficiale di guerra. Nella stessa giornata si svolgono due avvenimenti sportivi che passeranno alla storia seppur in modo diametralmente opposto: alle ore 21,00 a Londra nell'impianto sportivo di Wembley inglesi e francesi si stringono cantando all'unisono la Marsigliese; circa due ore prima però al Başakşehir Fatih Terim Stadium di Istanbul la maggioranza dei turchi presenti allo stadio decidono di non rispettare il minuto di raccoglimento per gli eventi di Parigi con sonori fischi di disapprovazione. Scoppia la bufera mediatica, attraverso i canali di informazione mainstream d'occidente passa lo sgomento per un gesto inaspettato che smuove le coscienze gridando all'inciviltà ed alla vergogna. Tutto ciò è seguito dalla puntuale strumentalizzazione politica dell'evento, che facilmente si presta a chi fa propria la retorica che vorrebbe dimostrare, su basi alquanto discutibili, che dietro ad ogni persona fedele al “messaggio rivelato” del Corano si nasconderebbe un pericoloso terrorista. E' chiaro che è piuttosto semplice cadere nel tranello di chi ci propone letture di questo tipo, e che se volessimo provare a condurre un'analisi approfondita per cercare di comprendere le ragioni che stanno alla base di un simile comportamento, dovremmo per un attimo abbandonare le categorie “eurocentriche” con le quali siamo abituati a leggere la realtà, di certo non per una nostra faziosità intrinseca, ma per il semplice fatto che in Occidente ci siamo nati, secondo queste categorie siamo stati educati e sempre dall'Occidente attingiamo per l'acquisizione delle informazioni. Facendo allora questo sforzo che ci porta per un attimo ad invertire il nostro punto di vista, possiamo vedere allora che l'inizio dei bombardamenti francesi a Raqqa non ha fatto altro che fortificare l'ideologia fondamentalista del Daesh (o Isis che dir si voglia) sopratutto in quei paesi di forte matrice islamica come la Turchia, rinvigorendo la tesi secondo cui “il nemico occidentale” continua a mostrare la sua invadente presenza nella politica medio-orientale non tanto per la diffusione dei propri valori di libertà e democrazia, quanto piuttosto per accedere alle ingenti risorse presenti nel territorio. Eppure la stessa Turchia a livello istituzionale non si è mai tirata indietro quando si è trattato di schierarsi con l'Occidente, lo dimostra il fatto che in terra turca si è svolto il g20 dei giorni scorsi, il cui ordine del giorno era proprio la lotta al terrorismo. La Federazione calcistica turca però, costretta a prendere posizione rispetto a quanto successo ad Istanbul, anche perché il presidente Erdogan ha preferito non rilasciare (almeno fino ad ora) alcuna dichiarazione sull'accaduto, ci fornisce un ulteriore spunto di riflessione. Avrebbe infatti dichiarato che quello dei tifosi turchi non sarebbe stato un gesto spinto dall'odio anti-occidentale ma un segnale di protesta contro l'Uefa, che in occasione della strage di Ankara del 10 Ottobre, quando più di cento turchi persero la vita durante una manifestazione pacifista proprio per mano del gruppo fondamentalista islamico, non avrebbe mostrato la stessa sensibilità riservata ai caduti di Parigi. “Sembra che ci siano morti di Serie A e morti di Serie B e questo non è accettabile: bisogna rispettare i sentimenti di tutte le persone", avrebbe detto il presidente della Federazione. Un'ultima, ma non meno importante, considerazione da fare è che la modalità tramite la quale il governo francese ha deciso di rispondere agli attentati, quella dei raid aerei, aldilà dei dati ufficiali che sembrano tacere su questo versante, ha coinvolto e continuerà a coinvolgere la popolazione civile. Ed anche se storicamente tra turchi e siriani non c'è mai stato un forte legame amichevole,i primi sentiranno abbastanza vicine quelle bombe che esplodono a pochi chilometri dai propri confini e considereranno piuttosto reale una minaccia che potrebbe vederli coinvolti in quanto islamici. Per questo proprio dietro a quei fischi dietro i quali abbiamo letto un'offesa ed una minaccia, potrebbero invece più semplicemente celarsi quella stessa paura e quella stessa empatia che noi europei abbiamo provato per i vicini francesi. Una chiara dimostrazione che in guerra, aldilà delle giustificazioni politiche che una parte od un'altra possano credere di avere o degli esiti a cui questa possa giungere, esiste un solo sicuro e consapevole sconfitto: il popolo.
Giovanni Tranchina

domenica 15 novembre 2015

Parigi in fiamme: l'11 settembre dell'Europa

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Parigi in fiamme: l'11 settembre dell'Europa

Dedicato alla collega Valeria Solesin,
 per non dimenticare!


LA CRONACA. Gli spari, le urla, la paura e le lacrime nei volti dei francesi. Parigi ripiomba nel terrore e continua a grondare sangue. É il secondo atto di un copione andato in scena pochi mesi fa. L’Hexagone è ancora una volta sotto attacco e resta l’obiettivo privilegiato del terrorismo islamico. Per la Francia, il 2015, è l’annus horribilis. Dalla strage di Charlie Hebdo dello scorso gennaio agli attacchi di venerdì 13 novembre il terrorismo islamico ha continuato a farsi strada e a mietere vittime. Una storia lunga un anno che inizia il 7 gennaio con l’attentato, ad opera dei fratelli Kouachi e il loro fiancheggiatore Amedy Coulibaly, alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo in cui morirono dodici persone, mentre undici rimasero ferite. Nel mese di febbraio, un altro allarme. Questa volta ad essere aggrediti furono tre militari di servizio davanti a un sito della comunità ebraica di Nizza. Nelle settimane successive è la volta dell’attentato poi sventato alla chiesa di Villejuif nella periferia di Parigi che si è concluso con  l’arresto dello studente Sid Ahmed Ghlam in possesso di un arsenale di guerra e pronto ad attaccare. In giugno, un uomo veniva decapitato nella periferia di Lione da un malintenzionato di origini arabe con lo stesso modus operandi jihadista. Si scoprirà, poi, che in realtà il movente era di natura personale. Tuttavia l’estate non ha fermato le offensive del terrorismo islamico. Il 24 agosto su un Tgv, un treno ad alta velocità in viaggio da Amsterdam a Parigi, il silenzio dei passeggeri viene interrotto da colpi di kalashnikov. L’attentatore, un marocchino simpatizzante per l’estremismo islamico, viene però bloccato da tre soldati americani che si trovavano sul treno. La strage è sventata. Così come sventato è l’attacco contro i militari francesi in nome della jihad da parte di un uomo arrestato mercoledì scorso a Tolone, nel sud della Francia. Venerdì si scatena l’inferno. Parigi è sotto assedio. Prima uno scoppio nei pressi dello Stade de France, dove era in corso l’amichevole tra Francia e Germania. Un uomo che aveva tentato di entrare si fa esplodere davanti alla porta dell’ingresso D. Il boato risuona all’interno dello stadio, poi un’altra esplosione e il presidente François Hollande che stava assistendo alla gara viene portato via dalle forze di sicurezza. Tre kamikaze si fanno esplodere provocando tre vittime. La strage si consuma a pochi chilometri dallo stadio, tra il X e l’XI arrondissement. A pochi passi dal bar 'Le Carillon' e dal ristorante 'Petit Camboge' tre persone scendono da una Seat Leon di colore nero ed esplodono una serie di raffiche sui clienti dei due locali che si trovavano ai tavolini posti all'esterno. Muoiono 15 persone e altre 10 restano ferite gravemente. Passano pochi minuti e davanti alla pizzeria 'La casa nostra' si consuma un’altra tragedia. Alcuni uomini escono da un'auto Seat di colore nero, probabilmente gli stessi dell'attacco delle 21.25, e esplodono raffiche di fucili automatici. Il bilancio è di 5 morti e 8 feriti lievi. È, però, all’interno del teatro Bataclan, dove era in corso un concerto della band americana Eagles of Death Metal, che si consuma una vera e propria carneficina. I terroristi fanno irruzione all'interno della sala, uccidono decine di spettatori e ne prendono in ostaggio oltre un centinaio. Tre terroristi si fanno esplodere, uno viene ucciso subito dopo l’irruzione delle teste di cuoio francesi. Il bilancio è pesantissimo: i morti sono 89 e i feriti in modo grave restano tantissimi. Sparatoria anche davanti al ristorante 'La belle équipe', nel XI arrondissement. Un gruppo di uomini mitraglia i clienti seduti in terrazza. Nello stesso momento, un kamikaze si fa esplodere davanti al ristorante 'Le comptoir Voltaire' su Rue Voltaire. È un attacco alla civiltà e Parigi piange i suoi morti. 
I PRIMI PROVVEDIMENTI. Uno dei primi provvedimenti adottati, nella notte stessa dei fatti terroristici, è stata la deliberazione da parte del Governo dello stato di emergenza, misura di ordine e sicurezza pubblica che in Francia è stato adottato solo tre volte in passato e che non è stato adottato, ad esempio, ad inizio anno per la strage di Charlie Hebdo. Lo stato di emergenza è una misura eccezionale che consente al potere politico e, per esso, ai Prefetti, di adottare misure eccezionali in materia di ordine pubblico, tra cui provvedimenti fortemente limitativi della libertà personale, come limiti alla circolazione ( coprifuoco), divieti di adunanza e addirittura, su disposizione del Ministro dell’Interno, anche gli arresti domiciliari; misura tanto eccezionale da avere una durata temporanea di 12 giorni – al pari dello stato d’assedio – prorogabile dal Parlamento fino a sei mesi. Da notare che, inoltre, il Presidente della Repubblica francese, secondo quanto previsto dall’art. 16 della Costituzione della V Repubblica, può disporre di poteri eccezionali di carattere quasi “dittatoriale” che possono spingersi fino alla rottura o, meglio ancora, alla sospensione della Costituzione stessa, consentendo al Presidente di potere disporre della concentrazione di tutti i poteri dello Stato ritenuti necessari, tra cui dunque anche il potere legislativo ed il potere giudiziario.
LA POSIZIONE DELL’UNIONE EUROPEA.  Il 19 Gennaio 2015, i 28 ministri UE degli affari esteri hanno condannato senza riserve le atrocità, le uccisioni e violazioni dei diritti umani commesse da parte dello Stato islamico e altri gruppi terroristi in Siria, come in Iraq, e da parte del regime di Bashar al-Assad in Siria. Gli Stati membri dell'UE, durante la riunione all’EEAS (Europeanexternalaction service), era determinata a contribuire agli sforzi internazionali per sconfiggere questi gruppi terroristici, determinando sanzioni. L’EEAS, nata col trattato di Lisbona e creata nel 2010, è il servizio presieduto dall’Alto rappresentante, nonché vice-presidente della Commissione europea, organo esecutivo composto dai rappresentanti dei governi di ogni Stato membro. Il mese successivo, i programmi del nuovo Alto rappresentante Federica Mogherini, hanno comportato dei risvolti strategici inserendo la lotta al terrorismo all’interno del piano “Counter – Terrorism: International cooperation and Initiatives in 2015”. In questo senso, il piano dell’UE si vuole legare alle Nazioni Unite, mostrandosi come una entità regionale sotto il comando dell’organizzazione internazionale, e non come Unione di paesi sovrani. La risoluzione A/RES/68/303 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, segna la rotta della politica estera europea, richiamando ogni Stato alla mediazione, alla prevenzione e risoluzione pacifica del conflitti. In questo senso, l’Unione si presenta agli occhi dell’ISIL come un attore diplomatico, capace di dichiarazioni e sanzioni, che sono più un messaggio di buona intenzione per gli Stati membri più “virtuosi” e per gli alleati della NATO, che una minaccia per i destinatari. A questo punto, considerando la posizione assunta durante quest’anno contro lo Stato islamico, bisogna analizzare i due maggiori limiti autoimposti all’interno dell’articolo 42§1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in merito alla politica di sicurezza e di difesa comune:
La politica di sicurezza e di difesa comune (CSDP) costituisce parte integrante della politica estera e di sicurezza comune. Essa assicura che l'Unione disponga di una capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari. L'Unione può avvalersi di tali mezzi in missioni al suo esterno per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite. L'esecuzione di tali compiti si basa sulle capacità fornite dagli Stati membri.
In primo luogo, bisogna notare che questo articolo non vincola gli Stati a sviluppare in seno all’EEAS un programma di difesa, anche perché le azioni indicate non fanno neppure riferimento ad una politica difensiva/offensiva. Ciò è la conseguenza del fatto che l’Unione europea è composta da Stati sovrani, aventi differenti “mezzi civili e militari” da mettere a disposizione, ma soprattutto aventi differenti programmi di politica estera, motivo per cui pur assemblando i primi risulta improbabile mobilizzarli per esaudire un interesse che sia unico ai 28 paesi dell’Unione. In secondo luogo, l’articolo, lasciando ampio margine alle capacità dei singoli stati, il trattato esclude il concetto di comunità sul quale l’UE dovrebbe fondarsi. Il senso di “comune” viene aggirato per tre ragioni. Innanzi tutto, l’UE, componendosi di stati con diverse capacità, fonda la sua azione sul contributo volontario di ogni membro. Secondo, la Danimarca ha sempre affermato di non volersi direttamente vincolare agli accordi derivanti dalla CSDP, e i paesi scandinavi, seppur non dichiarandolo, da anni abbracciano questa posizione defilante. Terzo, gli Stati membri mostrano un impegno altalenante nel partecipare alla costruzione di un piano condiviso da tutti, preservando le forze militari per la difesa interna. Questo spiega le difficoltà al fine costruire una politica estera comune, e ancor di più a trasformarla in azione difensiva. L’Alto rappresentante ha il compito di mettere insieme tutte le voci e sintetizzarle in un programma comune. Il fatto che in svariate dichiarazioni ufficiali l’EEAS si sia schierato dietro la trincea delle Nazioni Unite è più un messaggio di impotenza che di etica. In queste ore Federica Mogherini, cosciente dei limiti presenti e imposti dai trattati, a Vienna ha affermato:
E 'un altro giorno triste. […]Parigi ieri, il Libano il giorno prima, Russia ed Egitto due settimane fa. Questo ci dice molto chiaramente che siamo insieme in questo. Europei, arabi, Est e Ovest, tutta la comunità internazionale è influenzata dal terrorismo.[…]La migliore risposta a questo è superare le nostre differenze, creando la pace in Siria.
Se in dieci anni non esiste in pratica una politica di difesa e comune, nei fatti riuscirci su scala internazionale sembra una esortazione. In Europa per il momento “no tabout defence, not about common”.

EVOLUZIONE DEL TERRORISMO: LA NASCITA DELLO STATO ISLAMICO. La crisi sociopolitica che a partire dal 2001 ha coinvolto Siria ed Iraq e le strategie, giuste o sbagliate, della coalizione internazionale, hanno creato le condizioni perfette per un ritorno in grande stile della formazione jihadista, una sorta di continuum tra il modello terroristico di Al-Qaeda e quello del nuovo Stato Islamico (ISIL). Successivamente al ritiro dei militari USA in Iraq, il gruppo terroristico (ISIL) iniziò la sua attività di ascesa diventando così uno dei maggiori gruppi jihadisti al mondo in grado di progredire militarmente e di condurre battaglie militari convenzionali su due fronti, quello siriano e quello iracheno, affermandosi come un gruppo militare militanteLa guerra civile in Siria è stato il primo test importante a cui lo Stato Islamico dovette sottoporsi, il quale inizialmente supportò i gruppi jihadisti in lotta contro Bashar al-Assad per poi successivamente prendere parte come protagonista principale alle azioni jihadiste, cambiando il suo nome in Islamic State of Iraq and the Sham, conosciuto, per l'appunto, come ISIL (Islamic State in Iraq and the Levant)Oggi, analizzare il problema del terrorismo, quello che ha colpito in Medio Oriente e che adesso colpisce il cuore dell'umanità, significa studiare a livello politico e geografico la sua evoluzione, differenziandolo dal terrorismo di Al-Qaeda sia per strategia che per obiettivi. Ma andiamo con ordine. Il "capolavoro" politico dell'ISIL è stato quello di "eliminare" dal suo acronimo il termine "IL" e diventare, così, Stato Islamico (IS) dando forma a quella utopia regressiva e sanguinaria insita nel suo codice deontologico, in modo da incitare a combattere non più per una causa messianica e qaedista, ma creare un vero e proprio "Stato" all'interno del quale poter governare secondo i dettami della shari'a. A differenza di Al-Qaeda, che ha sempre preferito una lotta al nemico globale e una forma di terrorismo di lungo termine dove non era importante il controllo di un territorio, questa prospettiva cambia totalmente, con l'idea di creare un Governo costituito da una propria sede centrale in Siria, precisamente a Raqqa, dotato di veri e propri uffici e distaccamenti, e un sistema di propaganda molto più efficace. L’IS è stato in grado di impadronirsi dei fondi della banca centrale di Mosul, applica tasse sulla popolazione che controlla, ha goduto dei beni confiscati ai cristiani e, non da ultimo, ha accesso all’acqua. Questa nuova prospettiva politica coinvolge attori provenienti da tutto il mondo, i cosiddetti foreign fighters desiderosi di essere parte integrante di uno "Stato" e lottare per un obiettivo presente. La maggioranza di loro arriva dall' Inghilterra e, appunto, dalla Francia dove circa 1500 giovani (su un totale di 5000 combattenti stranieri europei) provenienti dalle banlieue, vita di strada e piccole devianze, tra cui molte donne e minori, ricercano l'ideologia che dà forma a questa entità antagonista. La strategia visiva è un'altra componente importante del nuovo terrorismo: gli ostaggi, vestiti di arancione, non a caso lo stesso colore dei prigionieri di Guantanamo, vengono uccisi secondo tecniche ben precise e utilizzando i più comuni canali mediatici. La propaganda dell’IS ha una doppia funzione: una interna, con cui si mira a soggiogare la propria popolazione ed una esterna, con cui si vuole terrorizzare i nemiciIl progresso del nuovo terrorismo sta anche nel aver cambiando il modo di selezionare gli obiettivi; non più simboli del potere o dell'ideologia occidentale come avveniva in passato, dove le forti immagini delle Twin Towers crollate sono ancora parte integranti della nostre coscienze. Lo Stato Islamico ha lanciato un nuovo modus operandi che si concretizza in obiettivi precisi, considerati luoghi di eccesso, come ristoranti, teatri, musei, luoghi di vacanza e redazioni giornalistiche, tutti collegati con l'attentato all'aereo russo della Kogalymavia in Egitto, dove esercita la sua influenza il gruppo di Ansar Bait al-Maqdis che un anno fa ha cambiato il suo nome in "Provincia Islamica del Sinai". Dunque, dire "Parigi come Tripoli e Beirut" è un indice per spiegare che il terrorismo si è chiaramente trasformato ed è ancor più libero di agire incondizionatamente in quei territori dove si dovrebbe prevenire la sua espansione. Una politica programmata e globale che sorvoli i molti interessi in questione, cosi come un'intelligence coesa in scala internazionale possono determinare alcune delle soluzioni che seriamente contrasterebbero lo sviluppo dello Stato Islamico. O forse, al momento, è solo utopia.
CONCLUSIONI. Al di la degli aspetti di cronaca, pur tuttavia necessari a una corretta rappresentazione dell’ accaduto, si rendono necessarie alcune riflessioni. Nonostante le difficoltà argomentative (esasperate, com’è evidente, tanto da una partecipazione emotiva – a tratti imbarazzate – quanto dalle tuonanti conclusioni dei vari analisti politici improvvisati, dei sociologi in erba e degli strateghi coi denti da latte), è fuor di dubbio che gli atti terroristici, più che della volontà di Allah, siano espressione della volontà di uomini. Sono uomini ad aver pianificato e ad essersi adoperati, e non profeti. Tali uomini mangiano, dormono, hanno brama di donne e di potere e, quindi,  stuprano, fanno propaganda, distruggono i monumenti, odiano la storia e il diverso e, si badi, a poco varrà lo sdegno suscitato dalla loro appartenenza alla specie umana, perché, volenti o nolenti, siamo costretti a constatare la realtà della loro aberrante umanità. Ma un altro elemento connaturato all’ umanità – per parafrasare Aristotele, che ci ha insegnato la nozione di zoon politicon –  è la sua socialità, e, quindi, propensione alla politica: neppure i martiri della gloria di Allah contravvengono a tale dato di fatto, essendo essi stessi ascrivibili a un soggetto che si autodefinisce “Stato Islamico”. Cionondimeno, “politica” e “stato” sono considerate grandi conquiste della cultura occidentale, tant’è vero che, da Machiavelli a Kelsen, lo “Stato” viene considerato come la più grandiosa e perfetta espressione di “ comunità politica”.
Tuttavia, la storia può venirci in soccorso: all’ indomani della Grande Guerra, la disfatta e la conseguente dissoluzione dell’ Impero Ottomano furono salutati dai potentati locali di Siria, Iraq e Palestina come l’ occasione che la storia stava loro offrendo di costituire uno stato arabo unito, libero, esteso dal nord della Siria fino allo Yemen. Nulla di tutto ciò ebbe luogo: alla breve apparizione del Regno Arabo di Siria seguì un protettorato britannico ( su Palestina e Iraq) e un mandato francese su Siria e Libano. La République si era resa protagonista di un atto di imperio verso l’esterno insieme all’alleato britannico, come testimoniano gli accordi segreti di Sykes-Picot (conclusi invero tra il 1915 e il 1916, ben prima della fine delle ostilità in Europa). Tali accordi non sono nulla di più di una spartizione dell’area. La Francia lascerà definitivamente la Siria nel 1946. Seppur smorzata dalla forma di “protettorato” o “mandato della Società delle Nazioni” la “ promessa non mantenuta” è all’ origine della grave instabilità dell’ area, aggravata dal pesante risentimento suscitato dalla formazione dello Stato di Israele, nel 1948, presso quei potentati locali, arabi, per lo più di fede islamica.
Bisogna partire da qui, per capire gli errori dell’Occidente nell’area mediorientale; per capire che lo Stato Islamico, gli attacchi terroristici contro il “nemico lontano” non sono frutto di una contrapposizione ideologico-religiosa tra Islam radicale e Occidente, quanto più la conseguenza, o meglio ancora, l’effetto aberrante di una politica internazionale occidentale prevaricatrice, contraddittoria ed ambigua.
 Hanno collaborato:
Rosario Fiore, Cultore di Diritto Pubblico Comparato all’Unipa.
Gabriele Messina, Presidente Istituto Mediterraneo Studi Internazionali
Massimo Parisi, Davide Daidone, Maria E. Argano, ricercatori dell’Istituto Mediterraneo Studi Internazionali.

Contest fotografico #25novembrestopviolence

Contest fotografico
#25novembrestopviolence

In foto: Giulia Bellomonte e Giulia Vittoria Mariscalco, testimonial della campagna di IMESI

Alla luce dei drammatici accadimenti che hanno interessato la città di Parigi, l'Istituto Mediterraneo di Studi Internazionali ritiene di esprimere la propria solidarietà ai cittadini francesi direttamente e indirettamente coinvolti dalla brutale violenza; ritiene inoltre di affermare un principio di umanità: la violenza perpetrata ai danni di una comunità non lede soltanto quella comunità ma l'intera specie cui essa appartiene. A fronte dell' ampio ventaglio di reazioni emotive, di analisi e di riflessioni che i recenti fatti parigini hanno suscitato, l'Istituto Mediterraneo di Studi Internazionali pone un ulteriore spunto di riflessione: ricorre infatti il 25 novembre la Giornata Internazionale per l'Eliminazione della Violenza sulle Donne. Si tratta di una sistematica, costante e diffusa declinazione della violenza. IMESI intende promuovere una campagna a sostegno della Giornata Internazionale per l'Eliminazione della Violenza sulle Donne lanciando un contest fotografico per dire basta alla violenza. È possibile partecipare inviando il documento fotografico allo staff IMESI, secondo le modalità specificate nel regolamento. STOP VIOLENCE.
Clicca qui per scaricare il Regolamento

martedì 10 novembre 2015

Il trionfo di Aung San Suu Kyi: in Myanmar svolta democratica

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Il trionfo di Aung San Suu Kyi: in Myanmar svolta democratica


Un importante processo di cambiamento e democratizzazione potrebbe avere inizio da oggi in poi in Myanmar e l’esito delle ultime elezioni sembra esserne una prova evidente. Il Partito di opposizione “Lega Nazionale per la Democrazia” (Nld), guidato dalla carismatica Aung San Suu Kyi, ha infatti ottenuto una vittoria schiacciante sul “Partito dell’Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo” (Usdp), appoggiato dai militari. Alcuni timidi passi avanti erano già stati fatti tra il 2010 e il 2011 quando, in seguito allo scioglimento della giunta militare, si era insediato il governo guidato dal presidente uscente Thein Sein. Quest’ultimo, infatti, aveva liberato un discreto numero di prigionieri politici, tra i quali la stessa Aung San Suu Kyi e sembrava aver allentato, seppur leggermente, il giogo politico, permettendo così all’Nld di ottenere 43 seggi su 45 nelle elezioni del 2012 e di diventare il principale partito di opposizione in lizza alle elezioni di questo Novembre. Il risultato è stato sorprendente e sancisce la vittoria dell’Ndl con circa il 70-80% dei voti, tenuto conto che la soglia ammonta al 67% circa dei voti e che il 25% dei seggi è riservato alla giunta militare. Si ritiene pertanto che al partito spetterebbero 44 dei 45 seggi della camera bassa birmana assegnati a Rangoon e tutti e 12 i seggi della camera alta. La replica del presidente ad interim dell’Usdp Htay Oo non è tardata ad arrivare: “Abbiamo perso. -ha affermato- ma accettiamo il risultato senza alcuna riserva.”. Il popolo si è riversato nelle piazze per gioire del risultato e Aung San Suu Kyi ha più volte invitato i suoi sostenitori a mantenere un certo contegno e a non provocare i rivali sconfitti. La stessa Kyi non si è sbilanciata troppo riguardo i risultati ottenuti, limitandosi a dichiarare: “È ancora troppo presto per parlare del risultato, ma credo che ne abbiate tutti un’idea”. Questo risultato, in effetti, non è che il primo passo di un cammino tutt’altro che semplice da compiere. Prima di tutto, infatti, i problemi che dilaniano il paese sono numerosi e complessi. Le minoranze etniche, che durante le elezioni sembrano aver messo da parte le proprie differenze culturali e ideologiche in nome di uno scopo comune, potrebbero ben presto tornare a rivendicare maggiore autonomia, e questo non escluderebbe una repentina inversione di rotta rispetto all’appoggio sino ad ora garantito all’Nld; da non sottovalutare è anche la sempre maggiore insofferenza di matrice anti-islamica, che trova in partiti come il Movimento 969 e Ma Ba Tha una vasta rappresentanza, e che, unita a una profonda intransigenza religiosa da parte delle forze buddiste, ha costretto lo stesso Nld a non presentare candidati musulmani. Alla violenza e all’insofferenza razziale e religiosa si unisce la dilagante corruzione e criminalità, avallata dall’ancora potentissima élite militare e rappresentata da un capillare commercio di sostanze stupefacenti. Sul versante internazionale, infine, il paese si trova sempre più schiacciato tra India e Cina (la quota di popolazione cinese sul territorio birmano è notevolmente aumentata nel corso dell’ultimo decennio) e attira sempre di più l’attenzione dei paesi occidentali, interessati ad un suo possibile ruolo da tramite tra Est e Ovest. A tutte queste problematiche si accompagnano anche le difficoltà pratiche direttamente derivate da queste elezioni che, benché possano essere definite le prime elezioni libere dopo la dittatura, hanno presentato alcune limitazioni, tant’è che l’esercito non ha esitato a parlare di “democrazia controllata”: la polizia e i militari hanno infatti parzialmente influenzato le campagne elettorali, manipolando le liste, sabotando i comizi dei candidati dell’opposizione e impedendo a diverse minoranze etniche di votare, poiché non annoverate tra quelle di cittadinanza birmana. Le elezioni poi si collocano in un contesto politico-istituzionale particolare: bisognerà prima di tutto stabilire se un governo democratico potrà effettivamente formarsi. Il sistema elettorale sembra favorire questa possibilità. Le elezioni per la formazione dello Hluttaw (questo il nome del Parlamento del Myanmar), infatti, avvengono secondo un sistema maggioritario denominato “first-past-the-post”, ovvero un maggioritario uninominale secco per cui in ciascun collegio viene eletto chi ottiene la maggioranza dei voti e che favorisce dunque la formazione di ampie maggioranze. Resta fuori discussione che un governo democratico potrà instaurarsi solo qualora l’ Nld manterrà una maggioranza schiacciante in Parlamento, riuscendo anche a contrastare l’influenza politica dei militari che, secondo quanto stabilito dalla Costituzione, hanno diritto ad un quarto dei seggi parlamentari. Last but not least, si presenta la questione relativa all’elezione del Presidente. Sempre nella Costituzione, infatti, è espressa a chiare lettere l’impossibilità di accedere alla carica presidenziale per chiunque abbia marito o figli che siano cittadini stranieri e abbiano pertanto giurato fedeltà ad un altro paese. Questa norma sembra essere stata cucita proprio addosso ad Aung San Suu Kyi, vedova del professore inglese Michael Aris, da cui ha avuto due figli. Benchè dunque non possa allo stato attuale ottenere la carica la Lady continuerà a svolgere un ruolo di primissimo piano, giustificato dalla sua tenace e carismatica personalità. E chissà che, proprio in virtù di queste sue doti che l’hanno resa celebre in tutto il mondo come un’icona della libertà e della democrazia, non riesca ancora una volta a sovvertire l’ordine vigente e a governare infine il proprio paese, come tanti anni prima di lei fece suo padre.
Alessia Girgenti