martedì 26 aprile 2016

Tradite dalla liberazione: le vittime delle marocchinate dimenticate dalla storia

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Tradite dalla liberazione: le vittime delle marocchinate dimenticate dalla storia


Nella primavera del 1944, quando Italia e Germania, erano ancora alleate durante la Seconda Guerra Mondiale, lo scenario che si profilava agli occhi di chi la guerra l’ha vissuta o solo studiata è quello di paesi martoriati, dalla fame, dalla paura, la popolazione civile era schiacciata fra due fuochi. Il governo guidato da Hitler immaginava la creazione di un Lebensraum e la guerra era lo strumento necessario al raggiungimento di questo obiettivo. Fu combattuta da Stati stretti attorno alla Germania, all'Italia e al Giappone da un lato, e alla Gran Bretagna e poi (a partire dal 1941) agli Stati Uniti e all'Unione Sovietica dall'altro. Le cause vanno ricercate nella politica aggressiva, espansionistica e militaristica che la Germania nazista, l'Italia fascista e quindi il Giappone imperiale misero in atto negli anni trenta in Europa e in Asia. Questa politica maturò, con l'Asse Roma-Berlino (ottobre 1936), con il Patto anti-Comintern (novembre 1936) e con il Patto d'acciaio (maggio 1939) che riuscì a rinsaldare definitivamente l'alleanza con l'Italia e il Giappone.[1]

Il corpo di spedizione francese sbarcato in Sicilia prima, e a Salerno poi, intraprese la risalita dello stivale nella primavera del 1944[2]. Tale esercito era composto da centodieci mila soldati tra marocchini, algerini, tunisini e senegalesi; essi si chiamavano “Goumiers” perchè erano organizzati in “Goums” o plotoni composti da una settantina di uomini, in genere legati da qualche grado di parentela. Le marocchinate trovarono lo zenit del loro consumarsi a seguito dell’Operazione Diadem, conosciuta anche come la quarta battaglia di Montecassino, in cui gli Alleati avviarono un’operazione per sconfiggere le truppe tedesche durante la campagna di liberazione dell’Italia. Come premio ai Goumiers, viene concessa libertà di comportamento, come si evince nel proclama del generale francese Alfons Jouenne:

“oltre quei monti, oltre quei nemici che questa notte ucciderete, c’è una terra larga ricca di donne di vino di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea senza lasciare vivo un solo nemico il vostro generale vi promette, vi giura, vi proclama, che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro. A vostro piacimento e volontà per cinquanta ore. E potrete avere tutto, fare tutto, distruggere tutto, distruggere e portare via, se avrete vinto, se ve lo sarete meritati. Il vostro generale manterrà la promessa se voi obbedirete per l’ultima volta fino alla vittoria.”[3]

Riguardo questa affermazione, ci sono due scuole di pensiero, chi come lo storico Jean Christophe Notin afferma che tutto ciò possa trattarsi di un’invenzione degli italiani o degli americani e che, il Generale Jouenne preoccupato dei suoi uomini e delle sorti della gente del luogo non abbia potuto affermare ciò.[4] Altri invece affermano il contrario, a riprova delle ferocia famelica e assassina dei Goumier. Le donne divennero bottino di guerra, ma l’escalation di violenza non risparmiò neppure bambini e individui di mezza età di ambo i sessi. Chi aspettava i liberatori trovò i carnefici e si abbatte un altro mito della guerra giusta, dell’alleato sempre amico e solo liberatore. 

“Tutti aspettavano cose straordinarie da questi alleati appunto come dai Santi, e tutti erano sicuri che al loro arrivo la vita sarebbe tornata normale ma anche molto migliore del normale" così raccontava Alberto Moravia nel romanzo “La Ciociara”.

Erano in tanti, vestiti con abiti scuri, alcuni avevano i capelli lunghi e gli orecchini al naso e ai lobi delle orecchie, erano in cerca di acqua e donne. Più si facevano vicini più la loro pelle scura li distinse dagli americani e li, fu viva la coscienza che coloro i quali avevano davanti non erano americani ma marocchini. Tantissimi padri o mariti venivano legati ad alberi o pali e assistevano alla violenza sulla moglie o sulla famiglia e, in alcuni casi i soggetti stuprati, che siano donne o uomini, venivano poi uccisi o altrimenti lasciati liberi di tornare nelle loro abitazioni a conservare dentro se il ricordo di questo martirio. I Goumier razziavano, rubavano soldi, oro, cibo, la biancheria intima di donne e bambini distruggevano le abitazioni e colpivano con i bastoni di ferro chiunque gli capitasse a tiro.[5] 

Diverse le città laziali della provincia di Frosinone colpite, tra cui Esperia, Castro dei Volsci, Vallemaio, Sant'Apollinare, Ausonia, Patrica, Morolo , mentre nella provincia di Latina si segnalano le cittadine di Lenola, Roccagorga, Priverno, Maenza e Sezze. Oltre alla Regione Lazio, anche Sicilia, Umbria, Toscana, Campania e alcuni casi anche in Sardegna sono stati soggetti di questo drammatico fenomeno come ci racconta Emiliano Ciotti nel documentario a cura di Rai Storia “L’altra faccia della Liberazione”. Una madre di Poggibonsi violentata, il figlio di otto mesi al momento dell’accaduto strillava in continuazione, venne preso e lanciato dalla finestra. Altre donne si sono buttate dalla finestra di un treno in corsa per sfuggire da Goumier. La signora Antonina racconta, in un filmato dal titolo “Marocchinate, interviste alle donne violentate nel 1944 in Ciociaria dal CSF”, di come le sono stati strappati i vestiti, le torture, le umiliazioni e le violenze a cui è stata soggetta e di come, tenendola stretta per i capelli i Goumiers la portassero in giro. 

Salvo Palombo abitante di Esperia (Fr) nel documentario “Bottino di Guerra” a cura di Marina Liuzzi per la Rai, racconta che le urla sentite quella notte erano paragonabili ad un inferno dantesco, sembravano delle belve che sbranavano gli animali in mezzo ai boschi. Resistere ai Goumier era pericoloso. Amanda Colozzi, anche lei abitante di Esperia, racconta (sempre nell’omonimo filmato) di come sua sorella avesse del sangue fra le gambe e ne chiese a sua madre il motivo; “è caduta”, questa è stata la risposta. Forte era il senso del pudore che accomunava tali vicende, sia che le vittime fossero uomini che donne, lo stupro era motivo di vergogna e le vittime si sentivano colpevoli.

Le violenze sessuali furono ampiamente documentate dai Carabinieri. Il Capitano Umberto Pittali riportò diversi casi di violenza ai danni di uomini e molti di questi vennero taciuti, neppure Don Alberto Terilli, parrocco di Esperia, venne risparmiato. Prima legato ad un albero viene fatto assistere alle violenze e queste, in seguito, verranno anche consumate su di lui finché non ne morirà. Cinquanta ore di premiato inferno, belve che sbranano gli animali per suggellare la gloria della loro vittoria contro i nemici, banchettando sul corpo dei civili. A parte le sessanta mila donne violentate ci furono mille persone uccise ad opera di stupro, non solo donne ma anche bambini. La maggior parte degli stupri è seguita da una gravidanza e nella maggior parte dei casi anche da aborti clandestini. Lo Stato italiano ha mandato delle commissioni mediche a verificare le condizioni della popolazione a seguito di questa invasione. Hanno trovato condizioni disastrose date dalla povertà ma anche da malattie. I mariti erano a conoscenza delle violenze a cui la moglie era stata soggetta o perché questa era stata stuprata davanti a loro oppure perché l’evento era stato raccontato per conto della moglie.
Lo Stato diede centocinquanta mila lire, il prezzo di una vacca, come rimborso alle donne vittime di stupro e dopo questo non si curò di nulla, alcune dovettero pagare di tasca loro le spese di cure mediche a seguito di stupro, alcune, come testimonia sempre Antonina “avevano le malattie dei marocchini”. Spesso le cose che turbano non fanno parte della storia ed è bene nasconderle. Nel 1945 il Tribunale militare di Norimberga ignorò lo stupro e la violenza sessuale come crimine perseguibile, solo nel 1949 la Convenzione di Ginevra incluse la prima norma internazionale contro la pratica dello stupro. Bisognerà aspettare il 1993 e il 1994 quando negli statuti del Tribunale Penale Internazionale per la Ex Jugoslavia e per il Ruanda, viene menzionato lo stupro come crimine contro l’umanità. Oggi le vittime si sono costituite in un’associazione per mantenere viva la memoria, “Associazione nazionale vittime delle marocchinate[6]”. 

Maria Martina Bonaffini

Note:
[1] http://www.treccani.it/enciclopedia/seconda-guerra-mondiale
[2]https://culturafrusinate.wordpress.com/2013/11/28/la-violenza-e-gli-stupri-come-premio-maggio-44-le-marocchinate-in-ciociaria/
[3]Goumiers violenze sulle popolazioni del centro Italia www.youtube.com/watch?v=Cx1qV3oRkjk
[4]Goumiers violenze sulle popolazioni del centro Italia www.youtube.com/watch?v=Cx1qV3oRkjk
[5] L’altra faccia della liberazione https://www.youtube.com/watch?v=wU2aPNZyWr4
[6] vittimemarocchinate.blogspot.it



lunedì 25 aprile 2016

La resistenza taciuta delle donne

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

La resistenza taciuta delle donne


Il 25 Aprile di ogni anno l’Italia ricorda uno dei momenti più importanti della sua storia, il momento in cui riuscì a liberarsi dall'occupazione straniera e dal giogo nazi-fascista nel contesto del secondo conflitto mondiale. La “Festa della Liberazione”, dichiarata festa nazionale con la legge 260/49, assume un valore fortemente simbolico: essa è festa del popolo italiano, un popolo che ha lottato strenuamente per difendere e riscattare la propria terra e che per questo si autocelebra. La liberazione rappresentò infatti l’acme dell’azione delle forze partigiane d’Italia, forze nate dal basso e forse per questo ancor più dirompenti. Proprio perché ne rappresenta l’acme, la liberazione non fu che una delle tappe di un lungo processo, un processo che continuò anche dopo la data, puramente convenzionale, del 25 Aprile, ma che soprattutto nacque assai prima di quel giorno, quando ancora un’Italia libera era solo un miraggio.

Non è un caso che si parli di guerra di liberazione o persino di “secondo risorgimento”, i cui protagonisti furono, come già accennato, i partigiani. Questa è la resistenza di cui tutti parlano, quella che viene ricordata costantemente e che assurge a esempio di valore e amor di patria; esiste tuttavia un’altra resistenza, una “resistenza taciuta”, una resistenza tutta al femminile. Oggi, a distanza di molti anni e in seguito ad una più attenta riflessione sul tema delle pari opportunità, il ruolo delle donne italiane nella lotta al nazi-fascismo è stato notevolmente rivalutato, alla luce anche delle innumerevoli testimonianze dirette raccolte da alcuni studiosi di questo periodo storico. Proprio su questo tema, inoltre, sono incentrati molti degli eventi di stampo culturale che si svolgeranno in tutta Italia nella giornata del 25: di questo si parlerà, ad esempio e in primis, a Torino, una delle città che, insieme a Milano, fu liberata proprio il 25 Aprile del 1945 e a Varallo Sesia, cittadina piemontese insignita della medaglia d’oro al valor militare, dove si recherà in visita il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che qui terrà peraltro il suo discorso ufficiale ai cittadini italiani. Di politica al femminile e lotta per i pari diritti si parla anche in vista dell’ormai vicino settantesimo anniversario dell’istituzione in Italia del suffragio universale, atto che consentì anche alle donne italiane, per la prima volta, di andare alle urne. 

Parlare della resistenza come fenomeno anche femminile non vuole essere una manifestazione femminista fine a sé stessa, né vuole in qualche modo sminuire le azioni di tutti quegli uomini che difesero con valore la propria patria; può invece rivelarsi estremamente interessante capire come un evento storico di tale portata abbia fatto emergere chiaramente le differenze di genere secondo modalità assolutamente nuove e particolari. Per comprendere le prime iniziative delle donne in questo contesto non si può affatto prescindere dalla concezione, qui estremamente esemplificata, che della donna aveva reso manifesta la propaganda fascista: la donna, forte e sana, deve assicurare il rinnovo generazionale, dedicarsi alla cura della casa e della famiglia e rimettere il potere decisionale al proprio marito, il capofamiglia. A tal fine tra l’instaurazione del Fascismo e lo scoppio della guerra furono promulgate una serie di leggi assai limitanti della libertà femminile, prima fra tutte quella che riduceva al 10% le assunzioni femminili da parte dei datori di lavoro, senza che peraltro questa esigua percentuale di impiegate potesse accedere a ruoli dirigenziali, riservati unicamente agli impiegati di sesso maschile. 

Dagli anni 40 in poi tuttavia, allo scoppio del conflitto, il regime dovette fare i conti con l’esodo maschile, che dalle proprie case condusse gli uomini al fronte e costrinse per forza di cose le donne a prendersi carico di responsabilità nuove, ora a livello familiare, ora a livello lavorativo: i provvedimenti legislativi varati fino a quel momento furono momentaneamente, e in via del tutto provvisoria, sospesi. Se da un lato dunque nuove libertà erano state concesse alle donne in linea teorica, la realtà offriva un’immagine assai triste della società, una società infiacchita e impoverita dalla guerra. Fu proprio la fame a creare le prime proteste, tutte femminili: gruppi di donne assaltavano, infatti, i camion del pane per dare da mangiare alle proprie famiglie o scendevano in piazza per protestare, come avvenne a Parma nell'Ottobre del 1941. Le prime iniziative politiche o pseudo tali della compagine femminile della popolazione italiana non nacquero dunque in virtù di rivendicazioni ideologiche, bensì per forza di cose, per far fronte a necessità pratiche.

Quando poi nel 1943 venne firmato l’armistizio le cause di forza maggiore rivelarono ancora una volta il volto femminile del processo di liberazione: alla sua firma infatti una folla di prigionieri e militari si riversò in Italia, trovando accoglienza presso le donne italiane, che aprirono loro le proprie case, offrendo alloggio e rifugio. L’aspetto forse più interessante di questi avvenimenti è la capacità propria di queste donne di rielaborare un modello educativo, loro imposto dal Fascismo, che le vedeva madri e mogli devote nonché regine del focolare, per asservirlo al contesto storico di necessità. Non a caso proprio a tal proposito, la storica Anna Bravo parlerà di “Maternage di massa”: le donne, infatti, si presero cura dei prigionieri come si sarebbero prese cura dei propri mariti e figli. Da qui il concetto, tanto caro agli storici, di Resistenza civile, la resistenza di chi combatte pur senza imbracciare il fucile.

La vera svolta, di tipo politico, avverrà via via negli anni successivi: dallo sciopero e i boicottaggi della produzione bellica nelle fabbriche, alla partecipazione attiva con i ruoli più disparati, dalla staffetta al capo di unità, tra le fila partigiane, all'adesione ai Gruppi di Azione partigiana o alle Squadre d’Azione partigiana, tutto farebbe pensare alla nascita di una sorta di “politica al femminile”, definita tale perché fatta da e per le donne. Conferma questa teoria l’intensa attività politica svolta dai Gruppi di difesa della donna fin dal 1943, in seno ai quali si discusse animatamente di progetti politici futuri, che permettessero alle donne di mantenere i diritti acquisiti anche dopo la fine della guerra. Eppure questo progetto restò in buona parte lettera morta; è vero che le donne ottennero una nuova consapevolezza della propria posizione all'interno della società, consapevolezza che peraltro permise loro di ottenere il diritto di voto solo qualche anno dopo, eppure per molto tempo il ribaltamento delle gerarchie verificatosi nel periodo bellico rimase ad esso strettamente confinato.

Alle fine dell’Aprile del 1945, infatti, quando tutto sembrava indicare l’inizio di un lento ma inesorabile ritorno alla normalità, con il Comitato di Liberazione Nazionale al potere in seguito alla resa tedesca e i partigiani che sfilavano acclamati per le principali strade delle città italiane, nessuna o quasi delle donne che avevano avuto un ruolo attivo nel periodo della resistenza fu vista sfilare per le strade. Erano presenti, è vero, ma la maggior parte di esse restò ai lati della strada, di nuovo mogli, madri, figlie e sorelle devote pronte ad acclamare i loro uomini vittoriosi. Perché, viene da chiedersi? Perché rischiare la vita, sopportando in alcuni casi torture atroci da parte del nemico, senza prendersene il merito? Non si tratta certo di virtù o di modestia. Semplicemente il Comitato di Liberazione Nazionale ritenne poco decoroso lasciare che le donne sfilassero insieme agli uomini, che ammettessero pubblicamente di aver passato tanto tempo con uomini combattenti, molti dei quali estranei o di aver accolto uomini che non fossero i propri mariti nelle loro case per proteggerli. E così dei circa due milioni di donne che ebbero un ruolo attivo nel processo di liberazione, solo uno sparuto gruppo poté prendersene i meriti. Eppure il circolo virtuoso dell’emancipazione era stato avviato, e non si è più fermato, sino ad oggi, 25 Aprile 2016, data in cui possiamo liberamente ricordare che la Liberazione è anche un po’ donna, donna come quelle che l’hanno resa possibile.
Alessia Girgenti

sabato 23 aprile 2016

Come sconfiggere il terrorismo?

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Come sconfiggere il terrorismo?
Incontro con il professore Alessandro Orsini nel corso della presentazione del suo ultimo libro, “Isis”.



Alessandro Orsini, oltre a essere docente di Sociologia dei Fenomeni Politici e del Terrorismo presso l'Università Luiss Guido Carli, ricopre il ruolo di Direttore del Centro per lo Studio sul Terrorismo dell’Università Tor Vergata, nonché di Research Affiliate al MIT di Boston. Orsini conta numerose pubblicazioni sulle maggiori riviste scientifiche internazionali specializzate in studi sul terrorismo, peraltro annoverate in fascia A secondo la classifica di Anvur. Uno dei suoi masterpieces, Anatomia delle Brigate rosse, è stato definito “un libro di alto prestigio intellettuale” dalla rivista di Harvard “Journal of Cold War Studies”: oltre ad essersi aggiudicato il Premio Acqui 2010, gli è stato riconosciuto il posto tra i libri più importanti del 2011 da “Foreign Affairs”. Orsini è al momento impegnato con la casa editrice Rizzoli per la quale sta pubblicando il suo nuovo libro, “Isis. I terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli”. Ma in che senso sono i più fortunati del mondo?

Questo è uno dei nodi che si è cercato di sciogliere ieri, durante l’incontro. Due i dati di fatto: in primis, l’Isis non è l’unica organizzazione terroristica internazionale esistente al mondo, e questo è un dato che occorre evidenziare. É tuttavia la più fortunata perché le potenze occidentali che avrebbero dovuto combatterla si sono trovate piano piano sempre più paralizzate, fino ad arrivare oggi, a percepirsi come bloccate nell'insidiosa ragnatela della paura. La paura di fare passi falsi, di rompere gli ormai consolidati – ma allo stesso tempo delicatissimi - schemi dell’anarchia internazionale. Ciò d’altro canto permette a Daesh – come sarebbe più giusto definirlo, privandolo della sua matrice religiosa - di continuare ad esistere e a espandersi. Altro grande punto di forza dell’organizzazione terroristica è il lento ma pervasivo fenomeno della radicalizzazione: come spiegare la trasformazione di tutti questi giovani che pur partendo da condizioni di vita normali, si ritrovano in pochissimo tempo assoldati per la “Jihad”?

Studi psicologici accurati sui percorsi biografici dei terroristi permettono di poterli separare dalle persone comuni e poi classificare attraverso il modello DRIA, acronimo per Disintegration, Recostruction, Integration e Alienation. Il percorso formativo della personalità del neonato terrorista consisterebbe, infatti, in una sua iniziale spersonalizzazione, seguita dalla costruzione di una mentalità manichea, dalla propria integrazione in un gruppo settario, per finire con la completa alienazione dalla realtà circostante. 

E l’Italia, che ruolo potrebbe ricoprire nell'eventualità di una discesa in campo in territorio libico? 

L’Italia trovandosi al punto di dover decidere se spiegare o meno le proprie forze nel territorio dell’ex colonia, dovrebbe chiamare in suo sostegno anche gli altri paesi facenti parte dello scacchiere internazionale, puntando giocoforza sui più potenti Stati Uniti. Da questi non mancherebbe certo una pressione orientata in senso positivo, ma è ben noto come il nostro paese non avrebbe alcuna convenienza nell'affrontare un rischio simile. L’ammontare della perdita sarebbe troppo esoso e, oltre tutto, interesserebbe non solo numerose vite umane ma anche dei costi di guerra inimmaginabili. Occorre aggiungere che, in questo preciso momento storico, l’Italia di tutto potrebbe permettersi fuorché le spese per sostenere un intervento armato. Come se non bastasse, l’effetto boomerang sarebbe alquanto schiacciante, considerando che la Libia si ritrova allo stato dei fatti priva di un governo stabile: motivo, questo, che potrebbe invogliare le forze di Daesh, lì stabili, a prendersela con le potenze occidentali di cui l’Italia rappresenterebbe, mutatis mutandis, il solito capro espiatorio.
Giulia Guastella

venerdì 22 aprile 2016

Perù: i riverberi del fujimorismo sull’esito delle elezioni

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Perù: i riverberi del fujimorismo sull’esito delle elezioni


Il nome di Fujimori, in Perù, va pronunciato con circospezione. E la vittoria di Keiko al primo turno delle presidenziali, ha riesumato lo spettro del decennio (1990-2000) di democrazia pencolante, durante il mandato del padre Alberto. Alle elezioni del 10 Aprile, ad insidiare la candidatura della leader di Fuerza Popular, c’erano, tra tutti, i liberali del PKK di Pedro Pablo Kuczinski (con cui il duello si rinnoverà al ballottaggio del 5 Giugno), e il Frente amplio -coalizione dei partiti di sinistra- di Veronica Mendoza. Una campagna elettorale piuttosto sismica, ha preceduto il verdetto parziale delle urne. A tenere banco, sono state soprattutto tre questioni: la legge elettorale, parecchio ondivaga; l’esclusione di due candidati dalla corsa alla presidenza; la firma del ‘Compromiso de Honor’ di Keiko Fujimori. 

Secondo la delegazione dell’Osservatorio elettorale dell’UE, nel primo caso l’anomalia è riconducibile alla modifica tardiva della legge sui criteri di accesso agli scranni parlamentari, promulgata a competizione elettorale già inoltrata. Nondimeno, carente di regolamenti attuativi, la norma ha dovuto essere applicata con ampi margini di discrezionalità dal ‘Jurado Nacional de las Elecciones’, il comitato istituzionale incaricato di vigilare sulla regolarità delle elezioni. Attenendosi ai dettami della Costituzione, tra il diritto di ogni partito di presentarsi alle elezioni e l’obbligo di rispettare le procedure democratiche per la selezione interna, questi ha dato rilevanza al secondo criterio. Da qui l’esclusione di Julio Guzman, e del partito “Todos por el Perù”. 

L’accusa di voto di scambio, al contrario, è costata la candidatura a la “Aleancia para el progreso” di Cesar Acuña. Quanto al ‘Compromiso de Honor’, esso ha rappresentato il tentativo di schiodare l’elettorato più bigio, e dunque, di snellire il partito dell’astensionismo. Nello specifico, si tratta di un decalogo che la candidata si è impegnata a sottoscrivere. Il fine è di fugare ogni timore, solcando una linea di cesura tra la deriva autoritaria della decade di governo paterno e il suo potenziale mandato. Tra i punti: il rispetto della libertà di stampa e dei diritti umani, dell’ordine democratico e l’impegno per un’austera lotta alla corruzione. Mossa del tutto pantomimica secondo i più, per altri il documento funge da maquillage ad un programma politico piuttosto scarno. Tra i critici, difatti, alberga la convinzione che il documento abbia poco di suggestivo, e che glissi su questioni salienti. Non vi è alcun cenno, per esempio, ad un possibile divieto di concessione dell’amnistia al padre ex caudillo. D’altro canto, la marcia del 5 Aprile, anniversario della svolta golpista, rammenta che l’antifujimorismo è ben instillato nella coscienza civica. Non a torto. Lo stesso giorno di ventiquattro anni prima, nel 1992, Alberto Fujimori, attraverso una serie di misure legislative, divelleva via via le fondamenta democratiche della nazione. 

Lo scenario politico, rievoca quello del Cile degli anni ‘70 di Pinochet, solo sfalsato di vent’anni. La minaccia dei gruppi guerriglieri di sinistra, l’autogolpe e la violazione sistematica dei diritti umani costituiscono l’esecrabile trait d’union tra i due contesti. Eletto nel 1990, sconfiggendo al ballottaggio lo scrittore Mario Vargas Llosa, Alberto Fujimori riuscì, pagando ingenti costi sociali, a ridurre l’iperinflazione che angariava il paese. Con risolutezza inusitata, mirò a neutralizzare il raggio d’azione del gruppo maoista ‘Sendero Luminoso’, promuovendo l’azione di gruppi paramilitari. La strage di la Cantuta, ed i massacri di Barrios Altos e di Santa perpetrati dal ‘Grupo Colina’, propaggine del servizio di intelligence nazionale, rientrano nella ratio del conflitto a bassa intensità. Scontratosi con l’opposizione del Congresso, l’allora presidente realizzò un autogolpe (o fujigolpe ), di fatto dissolvendolo, e sospendendo le attività della magistratura. Instaurò un ‘Governo di emergenza e ricostruzione nazionale’ per la lotta ai gruppi armati, erodendo, così, parte delle libertà civili garantite costituzionalmente. 

L’anno successivo, nel 1993, promulgò una nuova Costituzione, che successivamente nel 1996 tentò di manomettere con la ‘Legge di Interpetazione Autentica’: un escamotage per rimuovere l’unica pastoia giuridica alla sua terza candidatura alle elezioni del 2000: il limite dei due mandati presidenziali. Sottoposto alla gogna dall’opinione pubblica per uno scandalo di corruttela, diede le dimissioni in circostanze inusuali. Dopo aver preso parte alla riunione della ‘Asia-Pacific Economic cooperation’, decise di non fare ritorno in Perù. La cortina di fumo attorno alle stragi andava dissolvendosi, e temeva responsabilità penali. Si trasferì dunque in Giappone, da dove rassegnò le dimissioni via fax. Su pressione anche di molte ONG, (Amnesty International nel 2001 pubblicò un reportage, richiedendone il riconoscimento delle responsabilità penali), l’ex capo di governo, nel 2009, venne condannato a 25 anni di prigione dalla Corte Suprema di Giustizia di Lima, una volta accertato il legame con il ‘Grupo Colina’. E dunque la connivenza ai massacri. La portata storica della sentenza è data dall’unicità dell’evento: per la prima volta un capo di stato venne processato dal proprio paese per violazione dei diritti umani. Come per la prima volta, ora, l’acrimonia verso la famiglia potrebbe essere sopita. Appuntamento al ballottaggio.
Federico Mazzara

lunedì 18 aprile 2016

L'anno dell'Arabia Saudita

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

L'anno dell'Arabia Saudita


 a cura di S.E. Armando Sanguini, già Ambasciatore d'Italia a Tunisi e Ryiad


Sono passate poche settimane da quando le usuali Cassandre occidentali tornavano a preconizzare una declinante deriva politica sociale ed economica dell’Arabia saudita. E puntualmente, anche in quest’occasione, sono state smentite piuttosto seccamente. Non intendo certo sostenere che questo paese non soffra di contraddizioni e non sia confrontato da sfide cruciali sulle quali anzi è opportuno e necessario tenere ben acceso il faro dell’attenzione più puntuale, ma solo osservare come in questo momento risulti guidata da una leadership alla quale non fa difetto né assertività né visione di futuro. 

A sostegno di questa valutazione vorrei portare alcuni esempi concreti. Iniziando dalla politica interna con l’annuncio fatto dal giovane figlio del re Salman, 30anni, vice Principe ereditario, Ministro della Difesa e Presidente del Consiglio per l’economia e lo sviluppo: il varo di una strategia ventennale di ristrutturazione e diversificazione dell’economia saudita volta a renderla sempre meno dipendente dal petrolio sostenuta finanziariamente dalla creazione di un Fondo di oltre 2 trilioni di dollari sulla quale far confluire anche i proventi della probabile messa sul mercato di una quota azionaria di Aramco (attorno al 5%) la compagnia petrolifera saudita il cui valore è stimato pari a diversi trilioni di dollari. Strategia comprensiva anche di misure del tutto innovative in materia fiscale, di spending review resa inevitabile anche a prescindere dalla stretta imposta dal basso livello del prezzo del petrolio e di prudenti, anzi prudentissime, riforme interne. 

Sul versante della politica internazionale sarà sufficiente ricordare l’allargamento e rafforzamento del suo ventaglio di partenariati e alleanze: con particolare riferimento all’Asia e all’Estremo oriente: dal Giappone alla Cina, al Pakistan e da ultimo all’India con la visita in Arabia saudita del Premier Modi che ha rinsaldato e rilanciato la valenza strategica dei rapporti tra i due paesi. Tutto ciò a servizio del suo ruolo di global player non solo nel cruciale campo energetico mondiale, ben rappresentato dalle ripercussioni del crollo del prezzo del petrolio – dagli USA al Venezuela alla Russia, etc. - di cui Riyadh è stata in buona misura protagonista, come del resto lo è stata con la mini-svolta del congelamento del gennaio scorso; ma anche all’interno della massima istanza islamica, cioè l’Organizzazione della Conferenza islamica il cui vertice è in agenda dal 14 al 15 aprile in Turchia. 

A dispetto poi di una vulgata non priva di qualche fondamento, l’Arabia saudita ha imbracciato il vessillo di campione dell’anti-terrorismo, non tanto e non solo attraverso la sua partecipazione alla coalizione a guida americana quanto e piuttosto ponendosi alla testa di una coalizione di ben 36 paesi musulmani puntata contro ogni forma di terrorismo, dalla Siria all’Iraq, dall’Egitto alla Libia all’Afghanistan; ricevendo anche una riconoscente menzione al riguardo dalle Nazioni Unite. E sposta poco il fatto che questa esibizione di forza, come del resto l’iscrizione di Hezbollah libanese nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, avallata dalla stessa Lega araba, costituisca anche un robusto monito rivolto all’Iran, suo contendente per la supremazia regionale condotta sotto le insegne dello scontro sciita-sunnita. Nella stessa logica entra del resto la poderosa esercitazione militare - la “North Thunder” come è stata chiamata – che ha visto impegnate sul territorio saudita le forze di terra, mare ed aeree di oltre 20 paesi arabi e musulmani (dall’Egitto al Marocco, dal Sudan al Senegal, dal Pakistan alla Giordania, etc.) nell’emblematico richiamo retorico della pace e della stabilità nella regione. 

Già la regione, quella medio orientale dove, dopo essersi intestato l’indubbio risultato positivo della composizione della delegazione delle forze di opposizione nel negoziato sulla Siria, testè ripreso in un’incertezza carica di ambiguità, ha ri-annodato le fila di una tregua col gruppo Houthi, auspice l’ONU, che sembra reggere sia pure faticosamente e poter aprire uno spiraglio nell’auspicata apertura di un processo di riconciliazione tracciato in conformità con la Risoluzione ONU del 2015 e sollecitato dalla crescente minaccia di al Qaeda e dell’ISIS. 

Una sfida importante sia in termini di quel ruolo tutorio che Riyadh si è dato da tempo in considerazione del posizionamento strategico dello Yemen che rispetto a questa eclatante guerra per procura tra l’Iran e la stessa Arabia saudita e che l’ha spinta a intervenire militarmente in concorso con altri otto paesi arabi in una guerra che ha già fatto oltre 6mila morti ed è entrata in un uno stallo potenzialmente devastante per tutte le parti in causa. 

Il versante sul quale Riyadh ha segnato un vistoso punto a suo favore, sempre in questi giorni, lo troviamo però in altri due eventi: il primo è costituito dalla visita in Turchia del re saudita Salman che sanziona un formale passo in avanti nel riavvicinamento ad Erdogan iniziato subito dopo la successione ad Abdallah – che lo aveva tenuto a distanza per il suo sostegno all’invisa Fratellanza musulmana - in chiave di ricompattamento dell’intero fronte sunnita della regione in funzione anti-Iran e anti-Bashar al Assad, ma anche di aiuto al superamento del suo attuale (e colpevole) isolamento. 

Il secondo, più importante, è dato dalla visita di ben 5 giorni al Cairo che ha messo il sigillo ad un’alleanza in cui l’Arabia saudita ha accentuato la sua posizione di supremazia, avviata all’indomani della defenestrazione di Morsi con un pacchetto di aiuti di 5 miliardi di dollari (gli Emirati ne aggiungeranno 3 e altrettanti il Kuwait). Vi ha infatti sommato un Fondo di investimenti di oltre 16 miliardi di dollari – una manna per le disastrate condizioni dell’Egitto – cui si sono aggiunti accordi per 1,7 miliardi; la restituzione alla sovranità saudita di due isolette di certa importanza strategica e patriottica e soprattutto il varo di un progetto di ponte sul Mar Rosso tra Arabia saudita ed Egitto destinato a mettere in comunicazione fisica e quindi anche geopolitica l’Asia e l’Africa. 

Superfluo sottolineare l’enfasi retorica che ha accompagnato il lancio di questo progetto che indubbiamente serve anche alla magniloquenza di un Al Sisi che forse non ha capito quanto fosse nel suo stesso interesse, proprio in quei giorni, dar prova di essere troppo arrogante (verso un’Italia che lo aveva troppo in fretta sdoganato dal colpo di stato del 2013) o troppo pavido (verso i suoi servizi). Così come non ha forse compreso che facendo sponda proprio con Riyadh e per suo tramite con Ankara e Qatar – senza cedere alle lusinghe neo-colonialiste di Parigi - potrebbe contribuire a sbloccare quel segmento della crisi libica legato a Tobruk e al generale Haftar dove il gioco degli interessi prevale su quello delle ideologie. 

In questo scorcio d’anno l’Arabia saudita esibisce dunque un profilo di forte assertività mescolata con un altrettanto forte contrapposizione con l’Iran, ma non può pensare che questa sia la chiave di lettura e pratica geopolitica dei futuri equilibri mediorientali. Lo stesso dicasi per l’Iran che rischia di porre a repentaglio il successo della profonda svolta politico-economico-sociale e culturale di cui Rouhani si vuole rendere protagonista, con iniziative implicanti instabilità sul piano regionale e sfide alla sicurezza internazionale. 

L’andamento del negoziato sulla Siria ancora avvolto nella nebbia delle agende dei suoi protagonisti, regionali e internazionali, sarà un’interessante cartina di tornasole.

sabato 16 aprile 2016

Il G7 Hiroshima: quali prospettive per il mondo?

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Il G7 di Hiroshima:  quali prospettive per il mondo?


Si è svolto nelle giornate di Domenica e Lunedì, rispettivamente 10 e 11 Aprile, presso la città giapponese di Hiroshima, il vertice dei ministri degli esteri del G7. Durante l’incontro sono stati discussi temi estremamente importanti e di grande rilevanza a livello internazionale, tra cui il terrorismo e la minaccia dello Stato Islamico, l’immigrazione e la condizione dei rifugiati, la minaccia nucleare, la sicurezza in mare e la libertà di navigazione e la questione della tutela ambientale; non sono mancati poi i riferimenti a tutti quei paesi che costituiscono oggi una seria minaccia nei confronti della pace e dell’equilibrio globali. Bisogna considerare che l’incontro di Hiroshima, il Foreign Ministers’ Meeting, rappresenta un lavoro di preparazione in vista del G7 Summit, che si svolgerà il 26 e 27 Maggio a Shima. È interessante però notare come proprio dal meeting scaturisca quel lavoro di selezione e discussione dei temi che permette di capire quali siano gli argomenti che maggiormente potrebbero esercitare un’influenza forte sull’intero sistema internazionale.

Cosa è il G7- Il G7, inizialmente G6, nasce a metà anni 70 al fine di coordinare le politiche economiche dei paesi con il più alto grado di industrializzazione, cioè Giappone, Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Italia e Francia, al fine di far fronte alla dilagante crisi economica all’indomani dello shock petrolifero e della riforma del sistema monetario che aveva stabilito, tra l’altro, l’abbandono della convertibilità del dollaro in oro. Era pertanto essenzialmente economica, inizialmente, la natura degli incontri tra le sei potenze; con il passare degli anni, tuttavia, l’agenda è andata sempre più arricchendosi di nuove importanti tematiche e, benchè le dichiarazioni dei Capi di Stato e di Governo elaborate durante gli incontri non abbiano carattere vincolante, esse assumono ad ogni modo una grande importanza, poiché rendono note delle linee guida comuni in materie estremamente delicate e complesse e rappresentano un impegno politico notevole di fronte alla comunità internazionale. Il G6 divenne G7 nel 1976, con la partecipazione del Canada e, in seguito, G8, con la partecipazione della Russia. Perché quindi oggi parliamo di G7 piuttosto che di G8? La risposta a questa domanda è direttamente connessa ad uno dei temi caldi di questo vertice, ovvero la questione Ucraina. Da quando infatti la Russia si è trovata direttamente coinvolta nella crisi in Crimea, è stata sospesa e non ha più partecipato agli incontri. Persino dai documenti ufficiali rilasciati dopo il meeting è emersa una dura condanna nei confronti del paese, cui viene ricordata la grave violazione del diritto internazionale perpetrata al momento dell’annessione della penisola; malgrado infatti il Protocollo di Minsk abbia imposto un cessate il fuoco immediato, la situazione non sembra ancora essersi stabilizzata, come dimostra peraltro la proroga delle sanzioni e delle misure restrittive imposte alla Russia proprio in virtù del suo ruolo in questa vicenda. Dal meeting è emersa anche una condanna nei confronti della gestione delle informazioni da parte della Russia, che sembrerebbe influenzare i media per favorire processi di disinformazione e di pressione sull’argomento. Il ruolo chiave per un’eventuale risoluzione della crisi in Ucraina è pertanto attribuito proprio alla Russia, nei confronti della quale intanto resta ferma la condanna dei paesi del G7.

Perché Hiroshima? La scelta di Hiroshima come sede del vertice non è affatto casuale: altro tema centrale discusso dai ministri degli esteri è stata infatti la minaccia nucleare, le cui conseguenze si riscontrano in maniera forte e inequivocabile proprio nella città giapponese.
“We emphasize the importance of our meeting in Hiroshima seventy one years after World War II, which unleashed unprecedented horror upon the world. The people of Hiroshima and Nagasaki experienced immense devastation and human suffering as a consequence of the atomic bombings and have rebuilt thei cities so impressively” Sono queste le parole che aprono la “G7 Forign Ministers’ Hiroshima Declaration on Nuclear Disarmament and Non-Proliferation”, uno dei documenti più importanti scaturiti dal vertice. Il ruolo delle armi nucleari e del loro possesso ha infatti ridefinito numerosi equilibri, soprattutto in tempi recenti: a partire dal ritiro delle sanzioni all’Iran, che oggi diviene partner economico conteso da numerosi paesi, Italia compresa, fino ad arrivare alla preoccupante posizione della Corea del Nord, che viene citata in termini negativi nella dichiarazione per i test nucleari e i lanci missilistici condotti negli ultimi mesi, solo alcune delle numerose provocazioni di Pyongyang. Malgrado misure estremamente severe gli fossero state imposte già dalle Nazioni Unite, per mezzo della risoluzione 2270 del Consiglio di Sicurezza, egli starebbe infatti preparando, secondo quanto reso noto proprio in concomitanza con il G7 dall’agenzia Yonhap, il lancio di missili balistici a medio raggio. La Dichiarazione di Hiroshima auspica pertanto una implementazione delle misure internazionali contro la proliferazione dell’energia nucleare, attraverso un rafforzamento dell’International Atomic Energy Agency in determinate aree particolarmente calde; necessaria si reputa anche, alla luce del Treaty on the Non-Ploriferationon Nuclear Weapons, un utilizzo responsabile e soprattutto pacifico dell’energia nucleare.

Terrorismo, quali soluzioni? Altro tema fondamentale inserito in agenda è il terrorismo, e in particolare la minaccia dello Stato Islamico, definito come un pericolo per la sicurezza globale e che pertanto richiede misure drastiche e urgenti. Si parla persino di un “G7 Action plan”, che con ogni probabilità sarà ulteriormente passato al vaglio durante il summit di Shima. Le linee guida restano tuttavia piuttosto vaghe: si esalta il lavoro fino ad ora condotto dalla “Global Coalition to counter Isil”, coalizione, composta da 66 paesi, promossa dagli Stati Uniti per neutralizzare la minaccia dello Stato Islamico, e si auspica la promozione di valori fondamentali quali il pluralismo, la moderazione, la tolleranza, la parità di genere e il dialogo tra culture e religioni. Si tratta sicuramente di ottimi input; resta tuttavia da stabilire in che modo favorire questo processo virtuoso e in che modo i singoli stati sapranno recepire le suddette linee guida al fine di elaborare una politica efficace contro la minaccia terroristica.
Importanti si rivelano altresì i riferimenti alla situazione della Libia, il cui Governo di Unità nazionale viene riconosciuto come il solo legittimo, e quindi unico interlocutore a livello internazionale, e alla Siria, in merito alla quale viene ribadita l’importanza del cessate il fuoco e la necessità per il paese di avere un nuovo governo, più stabile e rappresentativo. Piuttosto lacunosa è invece la trattazione del tema, oggi più che mai attuale, della condizione di immigrati e rifugiati. Largo spazio viene invece concesso al tema ambientale: già prima dall’ultimo incontro del 2014, infatti, i ministri avevano commissionato uno studio indipendente per calcolare le ricadute dei cambiamenti climatici sulla stabilità degli stati e, nel corso del 2015 il “Working group on climate and fragility” ha intensificato il proprio lavoro, per redigere un report, consegnato proprio in occasione dell’incontro a Hiroshima. Tenuto conto dello stretto nesso esistente tra fattori ambientali e stabilità degli stati, soprattutto quelli fragili, è emersa la necessità da parte degli stessi di implementare le proprie politiche ambientali, in molti casi inadeguate, anche attraverso un dialogo con gli altri stati, in particolare gli stati membri del G7, e di adeguare le politiche di gestione dei rischi legati a conflitti o situazioni di instabilità. Oltre alla rilevanza dei temi trattati, un altro fattore ha contribuito ad accrescere l’interesse dell’opinione pubblica su questo meeting: si tratta della prima visita a Hiroshima di un segretario di Stato Americano. Kerry è infatti volato in Giappone in occasione del G7, anticipando, sembrerebbe, un’imminente visita del presidente Obama. Che la tanto attesa visita si svolga proprio a Shima in occasione del summit?

Alessia Girgenti

giovedì 14 aprile 2016

Consiglio Nato - Russia 20 aprile 2016: presupposti per un accordo

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Consiglio Nato - Russia 20 aprile 2016: presupposti per un accordo

Dopo un periodo di apparente distensione, l’occupazione russa della Crimea nel 2014 ha inasprito i rapporti con la NATO, la quale aveva deciso di sospendere ogni cooperazione pratica con la Russia nell’aprile dello stesso anno in risposta alle azioni aggressive della Russia in Ucraina. Tuttavia la NATO ha continuato a mantenere un dialogo politico con la Russia al fine di monitorare l’evoluzione della crisi in Crimea. Infatti, due importanti riunioni si sono tenute per tenere sotto controllo la questione. 

La prima è stata fatta il 14 marzo 2014, durante la quale l’ex Segretario Generale della NATO, il danese Anders Fogh Rasmussen, aveva affermato che intendeva continuare a seguire gli sviluppi in Ucraina con grande preoccupazione. Il cosiddetto referendum di Crimea, previsto per il 16 marzo sarebbe stato interpretato dalla NATO come una diretta violazione della costituzione ucraina e del diritto internazionale: dunque nessun effetto legittimo e legale, almeno per i paesi dell’Alleanza. Infatti durante la riunione dei 50 membri del Partenariato per la Pace nel Consiglio di partenariato euro-atlantico, molti partners si sono associati alle preoccupazioni della NATO. L’esortazione, in quel giorno, si fondava sulla speranza di una reazione responsabile da parte della Russia, fondata sul rispetto dei suoi obblighi secondo il diritto internazionale e rispettare i principi del Consiglio NATO-Russia e del Partenariato per la Pace. Tuttavia, giorni dopo il Cremlino attuò la sua politica offensiva inviando l’esercito al confine della Crimea.

La seconda riunione si è svolta l’11 marzo 2015, durante la quale anche il nuovo (e attuale) Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha ripreso la questione. L'incontro, durante il quale h partecipato anche l'ambasciatore russo presso la NATO, è avvenuto quasi un anno dopo l'annessione illegale e illegittima della Crimea da parte della Russia, che gli alleati della NATO non riconoscono. Durante il Consiglio di Partenariato Euro-Atlantico (EAPC) le nazioni hanno espresso profonda preoccupazione per il conflitto in corso in Ucraina orientale, sollecitando la Russia di ritirare le sue forze e il suo sostegno ai separatisti. Tutti i membri della EAPC avevano concordato sul fatto che la piena attuazione dell'accordo di Minsk fosse l'unica strada per una soluzione duratura e pacifica. Tuttavia, il Segretario Generale Stoltenberg aveva sottolineato che il cessate il fuoco sancito dall’accordo era fragile e le violazioni continuavano a perpretarsi. Egli aveva sottolineato che tutte le parti avrebbero dovuto attuare pienamente l'accordo di Minsk in buona fede, compresa la Russia, il cui sostegno per i separatisti alimentava ulteriormente il conflitto. Come primo passo, la NATO aveva esortato il ritiro delle armi pesanti dalla linea di contatto in modo trasparente e verificabile, e con pieno accesso agli osservatori dell'OSCE. Inoltre, in quella occasione, Stoltenberg aveva confermato che la stabilità di tutta la regione euro-atlantica era stata indebolita a causa delle politiche russe, che avevano messo in dubbio i valori della sovranità nazionale. Il risultato di questa riunione ha portato alla stesura di un documento di impegno da parte di tutte le parti. Tuttavia, un anno dopo, la situazione non è ancora radicalmente cambiata. 

Inoltre, nuove sfide internazionali si sono sovrapposte alla questione russo-ucraina, in particolare l’incremento della guerra indiretta sul fronte siriano. Infatti, il sostegno politico della NATO alla Coalizione americana anti-ISIL, e la condanna degli interventi russi a favore di Bashar al-Assad, hanno inasprito i rapporti tra NATO e Russia. Il 7 aprile 2016, in un lungo discorso al Consiglio Atlantico, a Washington, il Segretario generale della NATO Stoltenberg ha fatto il punto sul ruolo dell’Alleanza nelle diverse dinamiche globali: un terzo incontro con la Russia è necessario. Le questioni all'ordine del giorno per il prossimo incontro programmato per il 20 aprile saranno centrate sulla crisi in Crimea, l’Afghanistan e le minacce regionali. Dalle dichiarazioni disponibili traspare un chiaro messaggio di Stoltenberg “la NATO non vuole una nuova guerra fredda”. 
Maria Elena Argano

Per saperne di più:
Statement by the Secretary General on NATO-Russia Council meeting: http://www.nato.int/cps/en/natohq/news_129818.htm

Sito della NATO “Secretary General statement on the so-called referendum in Ukraine’s Autonomous Republic of Crimea:http://www.hq.nato.int/cps/en/natohq/news_108021.htm?selectedLocale=en

Sito della NATO “Allies and partners discuss Ukraine crisis”:http://www.hq.nato.int/cps/en/natohq/news_118114.htm?selectedLocale=en

Sito del Il fatto quotidiano “Ucraina, cessate il fuoco dal 15 febbraio – i 13 punti dell’accordo di Minsk”: http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/02/12/ucraina-dal-15-cessate-fuoco-i-13-punti-dellaccordo-minsk/1420251/

Sito de Il Giornale “La NATO apre alla Russia e fornirà aerei radar contro l’ISIS”http://www.ilgiornale.it/news/nato-apre-russia-aerei-radar-contro-lisis-1243299.html

lunedì 11 aprile 2016

Referendum 17 Aprile: analisi per una scelta consapevole

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Referendum 17 Aprile: analisi per una scelta consapevole
Domenica 17 Aprile, dalle ore 7:00 alle 23:00, verranno allestiti i seggi in occasione della consultazione elettorale sul referendum abrogativo in merito alle trivellazioni per l‟estrazione di petrolio e gas metano nelle acque territoriali italiane. Il corpo elettorale chiamato al voto sarà di 47.212.590 elettori ai quali vanno aggiunti i 4.029.231 elettori residenti all'estero. Come espresso dall'articolo 75 della Costituzione “La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi”. Lo scrutinio dei voti inizierà alle ore 23 di domenica 17 aprile, subito dopo la chiusura delle operazioni di voto. Coloro che prenderanno parte alla votazione dovranno presentarsi al seggio con Documento di Identità e, naturalmente, Tessera Elettorale. Se siete Italiani all'Estero o Fuori Sede potete comunque votare. Dal momento che si tratterà di un referendum abrogativo bisognerà votare SI qualora l‟elettore volesse cambiare parte della legge ed invece votare NO qualora volesse che la legge rimanga tale. Con questa analisi si vuole mettere a fuoco le problematiche principali che ultimamente hanno acceso il dibattito in merito al sopracitato referendum, l'obbiettivo è quello di analizzare la questione e i relativi dati nel modo più razionale possibile, in modo tale da fornire al lettore gli opportuni strumenti utili al fine di prendere una posizione propria che sia frutto, quindi, non di campagne propagandistiche bensì di una disamina attenta e puntuale in merito al tema oggetto del referendum. Prendendo in esame le argomentazioni „cardine‟ di entrambi gli schieramenti.

COME SI E’ ARRIVATI AL REFERENDUM?
A fine 2015 dieci regioni (Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto ed Abruzzo, quest'ultimo ritiratosi a Gennaio dalla lista dei promotori), tramite i propri Consigli Regionali, avevano promosso sei quesiti referendari aventi per oggetto la ricerca e l'estrazione degli idrocarburi in Italia. In un primo momento, precisamente alla fine di Novembre, la Corte di Cassazione, cui spetta il vaglio dal punto di vista della legittimità, aveva dichiarato l'ammissibilità di tutti e sei i quesiti. A ciò seguiva l'intervento del governo che, giocando d'anticipo, nella Legge di Stabilità, modificava alcune delle norme contestate. In particolare si è stabilito che nuove operazioni di perforazione (ossia nuove concessioni) sono vietate “nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l'intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette”, tuttavia si fanno salve le concessioni già rilasciate che, seconda la normativa vigente, avrebbero una durata pari all'intera vita del giacimento. Così la Suprema Corte, l'8 Gennaio, dichiarava in un secondo momento l'inammissibilità di 5 dei 6 quesiti referendari. Ma su 2 dei 5 quesiti dichiarati inammissibili, le suddette Regioni hanno sollevato un conflitto di attribuzione di poteri, giudicando i temi ad oggetto delle modifiche della Legge di Stabilità di loro esclusiva competenza (in conformità con l'art. 117 della Costituzione). Tuttavia poco dopo, l'8 Gennaio 2016, anche la Corte Costituzionale si era definitivamente espressa confermando l'inammissibilità dei rimanenti quesiti, non per una questione di merito ma piuttosto di metodo. Rimane così ancora valido solamente il quesito riguardante la durata delle concessioni entro le 12 miglia dalle coste nazionali.

L’OGGETTO DEL REFERENDUM Il testo dell'unico quesito rimanente che andremo a votare il 17 Aprile, indetto dal Presidente della Repubblica il 15 Febbraio 2016 sarà il seguente: Volete voi che sia abrogato l'art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale“? In realtà, traducendo dal linguaggio giuridico, ciò che viene chiesto ai cittadini italiani, è: “volete che, a scadenza delle concessioni, vengano bloccati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche nel caso in cui ci sia ancora gas o petrolio?”

In Italia, infatti, vi sono piattaforme per l'estrazione di idrocarburi sulla terraferma in Basilicata, Emilia-Romagna e in mare nell'Adriatico, Ionio e Mar Mediterraneo al sud della Sicilia. A meno di 12 miglia marittime dalla costa, che equivalgono a 22,2 km, si è ancora in Acque Territoriali Italiane, ossia, secondo la Convenzione internazionale di Montego Bay del 1994, in quella porzione di mare in cui è piena la sovranità statale. Ed è in queste aree che, in caso di vittoria del SI, si bloccherà l'estrazione di petrolio e gas naturale. Allo stato attuale, su 69 concessioni per coltivazioni di idrocarburi in mare, sono in totale 21 le piattaforme attive nelle operazioni di estrazione entro le 12 miglia dalla costa. Il referendum quindi non avrebbe alcun effetto sulle rimanenti 48. In caso di vittoria del SI verrebbero chiusi i rubinetti delle sole piattaforme interessate, ma non immediatamente, bensì solo allo scadere delle concessioni attualmente in vigore, di norma di durata trentennale, che quindi non verrebbero rinnovate anche se la vita del giacimento non fosse completamente esaurita.

LA QUESTIONE AMBIENTALE
Diverse associazioni ambientaliste ed esperti, a partire da Greenpeace passando dal comitato NO TRIV, fino a WWF, si sono da subito attivate nella battaglia a sostegno del SI, fondando la propria campagna principalmente su questioni legate all'impatto ambientale e di carattere economico. In particolare viene sottolineato il pericolo costante di incidenti al quale si è sottoposti a causa della presenza di piattaforme dedicate all'estrazione di combustibili fossili. A sostegno di tale argomentazione, diversi sono gli esempi legati a disastri ambientali derivanti dall'attività estrattiva: a partire dal disastro della piattaforma petrolifera "Deepwater Orizon" (British Petroleum) nelle acque del Golfo del Messico nell'aprile 2010, definito con l‟espressione “marea nera” viste le ingenti quantità di greggio disperse al largo della costa della Louisiana in seguito ad un incendio causato da un'esplosione avvenuta durante operazioni di routine sulla piattaforma, provocando quello che è stato il peggior disastro ambientale della storia Statunitense. Ma anche più recentemente è possibile menzionare la fuoriuscita di petrolio avvenuta lo scorso 13 Marzo su di una piattaforma al largo delle isole Kerkennah (Tunisia) a soli 7 Km dalla costa a causa di una lesione della provetta di controllo, un tubo con un diametro di circa 10 mm, ad oggi non sono ancora disponibili i dati relativi alle conseguenze di questo incidente. Od ancora il disastro avvenuto lo scorso 5 Aprile in Francia, dove, sull'estuario della Loira, è esplosa una conduttura di greggio di proprietà della Total, che ha provocato il riversamento di 380mila litri di idrocarburi che potenzialmente potrebbe aumentare a circa 550mila litri. Ad aggravare il possibile scenario, si aggiungono le caratteristiche proprie del Mar Mediterraneo, un mare chiuso collegato a bacini più ampi solo attraverso gli stretti di Gibilterra (che lo collega all'Oceano Atlantico), dei Dardanelli (che lo collega al Mar Nero) e al Canale di Suez (che lo Collega all'Oceano Indiano). Inoltre, essendo anche poco profondo, le correnti marine risultano essere molto deboli. Sarebbero quindi devastanti le conseguenze per la flora e fauna marittima che si ripercuoterebbero su tutta catena alimentare fino all'essere umano.Peraltro alcuni geologi avvertono sui pericoli derivanti dalle procedure di estrazione nel caso specifico del Canale di Sicilia, un tratto interessato sia da fenomeni di vulcanesimo attivo sia da fenomeni di pseudo-vulcanesimo sedimentario il quale provoca periodicamente esplosioni sottomarine che scatenano terremoti indotti, ciò potrebbe causare numerosi problemi e a dirlo sono numerosi rapporti scientifici indipendenti, della Nato e dell‟Unione Europea. Di contro, non sono mancate le associazioni e i gruppi di esperti che si sono dichiaratamente espressi a favore del NO, attraverso campagne di promozione del “non voto”: una massiccia astensione, infatti, garantirebbe il mancato raggiungimento del Quorum. Ad esempio il gruppo “Ottimisti e Razionali”, fondato dal politico italiano Gianfranco Borghini, ha più volte sottolineato come una possibile vittoria del SI non scongiurerebbe i pericoli derivanti da disastri ambientali, in quanto al di là delle 12 miglia marine sarà comunque possibile continuare a condurre attività estrattive ed iniziarne di nuove. Inoltre, data la minore quantità di combustibile fossile estratto e l'attuale impossibilità di soddisfare il fabbisogno energetico nazionale tramite fonti rinnovabili, sarà dunque necessaria l'implementazione delle importazioni via mare. Dal loro punto di vista, il conseguente aumento del traffico di navi cisterna rappresenterebbe un pericolo maggiore rispetto alla presenza delle piattaforme stesse. Un'altra delle ragioni poi addotte riguarda l'oggetto delle estrazioni: in Italia la maggior parte dei giacimenti contengono per lo più Gas Naturale, di per sé meno inquinante del petrolio. In ultimo, bisogna considerare che tra tutti i paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo l'Italia non è l'unica in cui è consentita l'estrazione di idrocarburi, dunque un'eventuale vittoria del SI limiterebbe i potenziali rischi ma non potrebbe scongiurare il pericolo di disastri ambientali in maniera assoluta.

LA QUESTIONE ECONOMICA
Per quanto riguarda le argomentazioni di materia economica, uno dei cavalli di battaglia del fronte del NO riguarda il dato occupazionale, in particolare l'ingente perdita di posti di lavoro dovuta alla chiusura degli impianti interessati. Un esito positivo del referendum avrebbe un impatto devastante sull'economia di alcune regioni, si pensi per esempio alla sola Emilia Romagna in cui perderebbero il lavoro circa 6000 persone in 2 anni. In Italia sono circa 11.000 le persone che lavorano direttamente nelle attività estrattive ed oltre 21.000 coloro che lavorano nell'indotto.In realtà i dati mostrano una situazione non così catastrofica, dal momento che soltanto il 10% del totale degli occupati lavora entro le 12 miglia, il dato da prendere in considerazione è quello di 3.200 posti di lavoro che però potrebbero essere facilmente riassorbite dalle stesse compagnie nelle piattaforme off-shore (oltre le 12 miglia) le quali verranno comunque implementate al di là dell'esito referendario, dal momento che anche in caso di vittoria del SI, all'esaurimento del giacimento, tutte le piattaforme poste all'interno delle 12 miglia verranno smantellate. Un dato economico di cui tener conto riguarda gli introiti diretti alle casse dell'erario derivanti dalle cosiddette "royalties‟, ossia i diritti che lo Stato detiene e che concede alle imprese che si occupano dell'estrazioni in acque territoriali. Secondo la legislazione fiscale italiana in materia, le società sono tenute a versare delle imposte equivalenti al 7% del valore dell'estrazione del petrolio e il 10% del valore dell'estrazione del gas, ma non tutta la quantità estratta è soggetta a tassazione: infatti, per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di m3 di gas estratti ogni anno, a questo sistema si aggiunge anche un particolare meccanismo di incentivi ed agevolazioni fiscali tra le più favorevoli in Europa. Se dovesse vincere il SI, l'Italia rinuncerebbe a questo introito. Nell'intero 2015 sono stati soltanto 352 i milioni incassati dallo Stato italiano, di cui la quota delle piattaforme entro le 12 miglia è stata di soli 38 milioni. Per di più è stato stimato dal Ministero per lo Sviluppo Economico che considerando la totalità delle risorse petrolifere presenti nel sottosuolo marino italiano, queste sarebbero sufficienti a soddisfare il fabbisogno nazionale di greggio per appena 8 settimane. Partendo da questo presupposto, i fautori del SI ritengono che rinunciare a queste "royalties‟ non sarebbe un sacrificio rilevante in termini economici, invece sarebbe opportuno, oltre che economicamente vantaggioso, valorizzare altri comparti dell‟economia nazionale, come:

- il turismo che contribuisce ogni anno al 10% del PIL, dà lavoro a 3 milioni di persone, per un fatturato di circa 160 miliardi di euro;

- la pesca che si esercita lungo i 7.456 km di costa entro le 12 miglia marine, produce il 2,5% del PIL e dà lavoro a quasi 350.000 persone;

- il patrimonio culturale che vale 5,4% del PIL e che dà lavoro a circa 1,5 milioni di persone, con un fatturato annuo di 40 miliardi di euro;

- il comparto agroalimentare, che vale l'8,7% del PIL, dà lavoro a 3,5 milioni persone e nel 2014 ha esportato prodotti per un fatturato di 34,4 miliardi di euro;

- la piccola e media impresa, che conta circa 4,2 milioni di aziende, cioè il 99,8% del totale delle industrie italiane, che costituisce il motore del sistema economico nazionale, che fattura 230 miliardi di euro l'anno e contribuisce al totale delle esportazioni del “MADE IN ITALY” per il 53,6%."

CONCLUSIONI
In conclusione, alla luce dei fatti esposti riteniamo che dall'esito del referendum, qualunque esso sarà, dal punto di vista ambientale, le conseguenze derivanti non produrranno degli effetti rilevanti, in quanto non si escluderebbe in maniera assoluta il rischio di disastri. Così come dal punto di vista economico le eventuali perdite potrebbero essere facilmente riassorbite nel breve-medio periodo, sia a un punto di vista meramente economico che da un punto di vista occupazionale. Dunque se sul piano fattuale le conseguenze del referendum, a prescindere dall'esito, non dovrebbero essere né del tutto positive, né del tutto negative, è indubbio il valore ed il peso politico che assume questa votazione: i cittadini italiani hanno la possibilità di esprimere un parere in grado di lanciare un messaggio circa le politiche statali presenti e future in merito di strategia energetica nazionale, così da potere influenzare il sistema decisionale italiano, che sarà costretto a tenere conto della volontà dell'elettorato anche a distanza di anni, così come già accaduto nel caso del referendum sul nucleare del 1987. 
 Simone Cacioppo
 Lorenzo Gagliano
 Giovanni Tranchina

FONTI
 www.greenpeace.it;
 www.sviluppoeconomico.gov.it;
 ottimistierazionali.it;
 “Referendum sulle trivelle, 10 domande (e risposte) per capire” , Jacopo Giliberto, Il Sole 24 Ore, 20/01/216;
 Greenreport.it;
 Statistiche, Nov. 2015, Unione Petrolifera

sabato 9 aprile 2016

#indueminuti

#indueminuti

"2007 financial meltdown: la crisi economica in pillole




Il disastro finanziario del secolo raccontato in  pochi minuti

martedì 5 aprile 2016

Dove va l'Italia? E l'Europa?

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Dove va l'Italia? E l'Europa?

L’Italia e l’Europa si trovano al centro di due scenari di crisi - quello nordafricano-mediorientale e quello ucraino - che non si possono considerare separatamente. In entrambi Mosca è presente in prima linea e c’è il rischio di un acuirsi dell’attrito Nato-Russia (è utile ricordare che il golpe di Majdan è scoppiato poco dopo l’accordo sull’arsenale chimico siriano). In Medio Oriente implode l’ordine derivante dagli accordi scritti a tavolino dai plenipotenziari Mark Sykes e François Picot nel 1916 e riemergono le crisi post-ottomane; in Ucraina si è ravvivata la mai sopita contesa Nato-Russia che aveva avuto nella guerra di Georgia e nel riconoscimento del Kosovo le ultime manifestazioni. E’ utile rispolverare “La Grande Scacchiera” (1997) di Brzezinski per comprendere come la questione ucraina, all’interno della più grande partita eurasiatica, non sia nata oggi; le previsioni del politologo statunitense sono state in buona parte sconfessate dalla convergenza sino-russo-iraniana (che ha trovato una conferma geopolitica in Siria nelle recenti parole di Assad[i]) ma il dibattito sulla necessità del contenimento della Russia, oggi molto diversa rispetto agli anni novanta, è molto attuale e Brzezinski (rinnovato) non passa mai di moda. In Siria, con la liberazione di Palmyra, si cominciano ad avvertire gli effetti dell’intervento russo e appare chiaro che i bombardamenti senza operazioni di terra concordate sono inutili. I bombardamenti della coalizione a guida Usa hanno concluso ben poco a differenza del più recente ma efficace intervento di Mosca che ha saputo cavalcare anche il malcontento dei curdi siriani, in particolare dopo l’abbattimento del jet russo da parte della Turchia (componente della Nato). In Libia regna il caos e restano molto vaghe le prospettive di un accordo stabile e duraturo fra i tre governi, i poteri informali tribali e le varie milizie armate.

Mentre si discuteva di una nuova campagna libica con un ruolo forse “determinante” dell’Italia (parzialmente frenata dall’azzeccata cautela italiana), indiscrezioni provenienti dal quotidiano francese “Le Monde”[ii] ci informavano su un ruolo attivo di militari francesi sotto copertura in Libia e un articolo del “Telegraph” faceva riferimento alla presenza di forze speciali britanniche e statunitensi a Misurata[iii]. Una riedizione del ruolo franco-britannico in terra libica in occasione della guerra contro Gheddafi – questa volta con obiettivi diversi – ma che testimonia l’estremo interesse delle due potenze ex-coloniali per il paese nordafricano. La Francia nutre interesse per le zone confinanti con la Françafrique (in particolare nel Fezzan libico) ed è stata il principale sponsor della guerra del 2011. Fatto certamente curioso è che nel 2011 i militari francesi operavano in complicità con le milizie ribelli ai danni di un governo avverso al fondamentalismo, mentre adesso si intestano la campagna anti-jihadista. D’altra parte, il Mali, la Siria e la Libia ci hanno ben illustrato l’ambigua politica francese dai doppi standard nei confronti del cosiddetto jihadismo. 

La (soltanto presunta) “potenza mediterranea” italiana vuole adesso preservare la sua porzione di interessi energetici localizzati in Tripolitania (parte occidentale). A cent’anni dalla campagna di Libia del 1911 (che ha contribuito anche ad accendere la miccia per lo scoppio del primo conflitto mondiale), il nostro paese ha contribuito alla destabilizzazione del proprio fronte Sud con la partecipazione alla guerra contro Gheddafi nel 2011, agendo anche contro i propri interessi. Durante la guerra civile del 2011 i ribelli libici venivano spesso dipinti come agguerriti liberal magari con il “Saggio sulla libertà” di John Stuart Mill tra le braccia, ignorando due tra le componenti fondamentali della guerra civile: tribalismo e islamismo. Una guerra dagli esiti catastrofici, in particolare per l’Italia (oltre che per i libici), viene presentata comunemente come uno “sbaglio”, come se non fosse stata pianificata e condotta con cura. Parole ragionevoli sono state recentemente espresse da Romano Prodi che, interrogato sulla partecipazione italiana alla guerra in Libia, ha risposto così: «Non uno sbaglio, ma un errore tragico! Non ho mai visto un paese pagare per una guerra fatta contro se stesso»[iv]

La politica mediterranea italiana, che molto ha puntato sui rapporti con il Generale al-Sisi, viene adesso messa in crisi anche nel fronte egiziano: si vorrebbe (giustamente!) reclamare la verità per il nostro connazionale brutalmente ucciso e contemporaneamente mantenere le buone relazioni con l’Egitto dove, insieme alla lotta al terrorismo, gli apparati di sicurezza non esitano a reprimere con forza movimenti sociali e opposizioni di ogni sorta e lo “stato profondo” non è facilmente controllabile dal potere centrale. L’Italia non può certamente arrendersi di fronte alle contrastanti verità di comodo fornite dall’Egitto e la ricerca della verità sull’uccisione del nostro connazionale deve essere una priorità inderogabile. L’Egitto è anche invischiato nel conflitto libico dove nutre forti ambizioni egemoniche in Cirenaica (sostiene il generale Haftar). 

Per gli alleati euro-atlantici siamo più una base logistica che un attore geopolitico. Abbiamo contribuito alla destabilizzazione del nostro fronte Est balcanico (con il conseguente aumento di traffici criminali) e poi del fronte Sud libico. Geograficamente al centro del Mediterraneo, geopoliticamente secondari e subalterni. Vorremmo inoltre provare a distendere le relazioni con la Russia ma i nostri margini di manovra sono minimi e abbiamo dovuto accettare le sanzioni contro Mosca (e le conseguenti controsanzioni russe), pur essendo nocive per la già non brillante economia italiana, lasciando decidere ai paesi della “nuova Nato” dell’Est il futuro delle relazioni euro-russe. Dal prossimo anno centinaia di carri armati e veicoli militari saranno schierati lungo i confini orientali della Nato come deterrente contro “l’aggressività russa”: è certamente scontata l’opposizione di Mosca all’ennesima manovra accerchiante di contenimento ma non devono stupire le proteste dei paesi più oltranzisti all’interno della Nato – Polonia in primis – che vorrebbero “precauzioni” militari ancora più forti e stabili contro la Russia[v]

In Siria ci siamo accodati per anni a rimorchio delle ambizioni turco-saudite salvo poi renderci conto che forse un altro Stato fallito, punto di snodo per jihadisti di ogni sorta, non era la soluzione migliore. Oggi con abbondante ritardo e con le doverose cautele del caso (non bisogna indispettire troppo gli “alleati”) anche l’Italia riconosce il fondamentale ruolo della Russia nel tentativo di risoluzione della crisi siriana. 

Per quanto riguarda gli equilibri dell’Eurozona, la “lezione” greca è stata istruttiva per chiunque osi mettere in discussione l’attuale assetto europeo e il dogma dell’austerità; forse Tsipras sperava in un più marcato impegno anti-austerity dell’Italia che però non è arrivato. “In questa partita si è meglio profilata la geopolitica dell’Eurozona. Al centro, la Germania, dominante ma non egemone, con attorno un ambiguo corteo nord- e mitteleuropeo, nel quale si sono stavolta segnalati per vocazione satellitare slovacchi e baltici. Un paio di gradini sotto, la Francia, cui i tedeschi concedono, con rattenuta insofferenza, di apparire loro legittima associata”[vi]; così Lucio Caracciolo, direttore di “Limes” ha descritto la geopolitica dell’Eurozona a seguito dall’esito delle vicende greche. 

Se volessimo provare a definire chiaramente la politica estera e la proiezione geopolitica dell’Italia, probabilmente non ci riusciremmo. Parte di un’Europa inesistente dal punto di vista politico (e in cui contiamo poco), ci troviamo schiacciati dalle ambizioni di egemonia geoeconomica tedesca e siamo contemporaneamente incapaci di rappresentare gli interessi del cosiddetto Sud Europa. A livello globale gli Stati Uniti provano a rilanciare la loro centralità geoeconomica e geopolitica con la formazione di due aree di scambio: TTIP (per rinsaldare i legami euro-atlantici) e TPP nel Pacifico: la prima senza la Russia, la seconda in ottica anticinese. Su questo il dibattito europeo è ridotto al minimo e in Italia – dove ci si anima per ben altre cose – è sostanzialmente inesistente. “Cose troppo più grandi di noi”, qualcuno è certamente portato per istinto a pensare. Se da un lato è consigliabile armarsi sempre di un sano realismo politico (ma questo andrebbe consigliato soprattutto ai promotori di un intervento italiano in Libia), d’altra parte sarebbe catastrofico rinchiuderci in un approccio deterministico – in base al quale possiamo agire soltanto nei limiti imposti da chi ci sta sopra (o pretende di starci) – rifiutando di contare alcunché in Europa e nel mondo. Continueremo per il resto a chiedere il contentino di turno, che sia la diga di Mosul o un qualche ruolo in Libia, rinunciando totalmente a una visione di lungo periodo. Figure come quella di Enrico Mattei – che non era un politico – appartengono davvero a un altro secolo. 
Federico La Mattina

Note
[i] http://rbth.com/international/2016/03/31/syria-to-lean-on-russia-china-iran-for-rebuilding-assad_580591.
[ii] N. Guibert, La guerre secrète de la France en Libye, “Le Monde”, 24/02/2016, https://t.co/pNP5ENNxYT.
[iii] R. Sherlock, British ‘advisers’ deployed to Libya to build anti-Isil cells, “The Telehraph”,27/02/2016
[iv] R. Prodi, Missione incompiuta, intervista su politica e democrazia, a cura di Marco Damilano, Bari, Laterza, 2015, p. 128.
[v] Si veda G. Lubold, J. E. Barnes, Pentagon Readies More Robust U.S. Military Presence in Eastern Europe, “The Wall Street Journal”, 30/3/2016. Vedi anche J. R. Deni, Poland Wants More Than NATO Can Give, “The National Interests”, 10/02/2016.

[vi] L. Caracciolo, Grecia, il protettorato in maschera, “la Repubblica”, 14/07/2015