giovedì 29 gennaio 2015

“L'istruzione occidentale è peccato”

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

“L'istruzione occidentale è peccato”

l'intervista a Emanuele Marino, Amnesty international


Cosa succede in Nigeria?
Ci siamo trovati spettatori degli spargimenti di sangue che hanno interessato la Nigeria ad opera di Boko Haram, locuzione Hausta dal significato: “l'istruzione occidentale è peccato. Si tratta di un'organizzazione terroristica jihadista diffusa nel nord della Nigeria che ha una visione dell'occidente come corruttore del credo islamico. Dopo la morte del leader fondatore del 2009 a prendere il suo posto è stato Abubakarf Shekau. Nei primi tre mesi del 2014 oltre 1500 civili sono stati assassinati, nel contesto di uno scontro armato che oppone le forze di sicurezza ai gruppi armati islamisti. Dopo l'ennesimo attacco mortale compiuto dalla setta armata Boko Haram nella città di Kano, Amnesty International ha sollecitato il governo federale della Nigeria a proteggere la popolazione e a istituire una commissione indipendente che indaghi sull'ultima ondata di attentati. La popolazione del nord della Nigeria è intrappolata in un ciclo di violenza, alimentata da orribili crimini compiuti da Boko Haram e dalle violazioni dei diritti umani causate dalle forze di sicurezza antiterrorismo. La risposta del governo non garantisce sicurezza alla popolazione. Donne e bambini non sospettati di alcun reato sono stati arrestati nel corso dei rastrellamenti e sottoposti a maltrattamenti per estorcere informazioni sui parenti maschi, sospettati di far parte di Boko Haram. Davanti  a questo scenario di guerra Amnesty International ha chiesto alla Commissione africana e alle Nazioni Unite di assistere la Nigeria nelle indagini su azioni che potrebbero costituire crimini di guerra e crimini contro l'umanità a carico sia di Boko Haram che delle forze di sicurezza nel nord-est del paese. La comunità internazionale, e in particolare, la Commissione africana sui diritti umani e dei popoli e il Consiglio Onu dei diritti umani devono assicurare con urgenza l'apertura di un'indagine esaustiva, imparziale e trasparente sulle denunce di crimini di guerra e crimini contro l'umanità in Nigeria . Amnesty International ha inoltre chiesto all'Unione africana, alla Comunità economica degli stati dell'Africa occidentale e al Consiglio per la pace e la sicurezza dell'Unione africana di fornire pieno e concreto sostegno per porre fine a questi atti di violenza contro i civili. A questi organismi, Amnesty International chiede infine di condannare i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità commessi da entrambe le parti.

Chi è il gruppo islamista di Boko Haram?
Boko haram è un gruppo di opposizione armata, un "attore non statale" cioè un gruppo non governativo che impiega la forza armata per fini politici, di stampo terroristico similmente ai singoli gruppi affiliati ad "Al Qaeda".

Qual è lo scopo di questo gruppo?
Nel 2011, gli attacchi di Boko haram, spesso diretti contro agenti di polizia e funzionari del governo, hanno provocato almeno 500 morti. Dallo scorso giugno sono stati presi di mira anche bar e locali pubblici. Alla fine dell'anno, la situazione è ulteriormente degenerata, con gli attacchi contro le comunità cristiane. In alcuni casi, si ritiene che gli attacchi siano condotti in rappresaglia per il presunto appoggio della popolazione all’esercito. 

 Perché stanno agendo proprio in questo periodo? 
Amnesty ha notizie su Boko haram, in realtà, già dal luglio del 2009, in cui più di 800 persone, compresi 24 agenti di polizia, sono morte nel corso di una settimana di scontri tra membri del gruppo e le forze di sicurezza negli stati di Borno, Kano, Katsina e Yobe. Il 26 luglio dello stesso anno, hanno attaccato una stazione di polizia nello stato di Bauchi. Il leader di Boko Haram, Muhammad Yusuf, è stato arrestato il 30 luglio a Maiduguri, stato di Borno. In seguito la polizia ha annunciato che era stato ucciso mentre tentava di fuggire. Successivamente Michael Kaase Aondoakaa, procuratore generale federale e ministro della Giustizia, ha dichiarato che Muhammad Yusuf era stato ucciso in custodia di polizia.

Qual è il motivo che li porta e seminare terrore?
L'obiettivo di Boko haram è quello di istituire uno stato a matrice islamica e fondamentalista nel paese. Non si tratta di una ragione che origina dall'odio, quanto più dal controllo politico e quindi economico della regione nigeriana. L'aggressività di Boko haram si è manifestata prepotentemente sulle comunità cristiane a partire dalla fine del 2011, a seguito del quale Amnesty International ha sollecitato il governo federale della Nigeria a proteggere la popolazione e a istituire una commissione indipendente che indaghi sull'ondata di attentati. La risposta del governo, oltre a non garantire sicurezza alla popolazione, ha anche comportato violazioni dei diritti umani.

Come sta agendo Amnesty International davanti a questo massacro? 
Amnesty International, da un lato, chiede a Boko haram di porre fine alle uccisioni di civili, dall'altro, chiede al governo nigeriano di prendere tutte le misure legittime per riportare sicurezza nel paese e assicurare la protezione dei civili. Nel caso delle studentesse rapite il 15 aprile 2014 a Chibok,  Amnesty International chiede a Boko haram di rilasciare immediatamente, senza condizioni, tutte le ragazze mentre chiede al governo nigeriano di adoperarsi per ottenere al più presto un rilascio sicuro delle ragazze e di garantire che i responsabili di questo attacco siano portati davanti alla giustizia. Il nostro lavoro, comunque, non si limita alla divulgazione di informazioni imparziali, ma si  estende anche ad attività di "lobby", cioè di pressione sui governi. Per questo una delegazione di Amnesty International Italia, guidata dal direttore generale Gianni Rufini, ha incontrato il 15 maggio 2014  S.E. Eric Tonye Aworabhi, ambasciatore della Nigeria in Italia. Rufini ha consegnato all'ambasciatore le 9200 firme dell'appello "Bring back our girls" raccolte sul sito dell'associazione, raccomandando al governo nigeriano di garantire una soluzione definitiva accettabile e sostenibile, nel migliore interesse delle vittime, alla vicenda del rapimento delle oltre 200 ragazze da parte di Boko haram, provvedendo a fornire a queste e alle loro famiglie tutta l'assistenza necessaria. Amnesty International ha, inoltre, realizzato un sito che indica gli attacchi di Boko haram a scuole, insegnanti e studenti negli stati del nord-est della Nigeria.

Cosa stanno facendo i civili per “difendersi” da questo massacro?
Migliaia di persone sono scappate verso il confine col Ciad o in altre parti della Nigeria, come a Maiduguri, capitale dello stato di Borno, aggiungendosi così alle centinaia di migliaia di profughi interni e di rifugiati che stanno mettendo a dura prova le comunità e i governi che li hanno accolti. Amnesty International ha chiesto ai governi di Nigeria e Ciad di garantire protezione e adeguata assistenza umanitaria a queste persone. Alcune comunità collaborano con le milizie della Task force civile congiunta, alleate del governo, ma queste hanno subito attacchi particolarmente brutali. La Task force era presente a Baga e un alto ufficiale dell'esercito ha confermato confidenzialmente ad Amnesty International che a volte i militari coinvolgevano la milizia civile in operazioni contro le postazioni di Boko Haram. Un testimone ha raccontato di aver sentito, durante l'attacco a Baga, dei combattenti di Boko haram dire che stavano cercando i membri della Task force e che, con questo obiettivo, hanno eliminato casa per casa gli uomini in età da combattimento.

Reclutano personale civile per rafforzare le loro truppe?
Boko Haram recluta civili soprattutto giovani, ma anche donne e i bambini. Ustaz Mohammed Yusuf, fondatore del gruppo tra il 2001 e il 2002, comincia la sua azione reclutando militanti, specialemente tra i giovani disoccupati, il gruppo  “giustifica e “motiva “ le insurrezioni violente come sintomo di malessere e di frustrazione sociale

Intervista a cura di Martina Bonaffini

lunedì 26 gennaio 2015

Grexit, tra mito e realtà

#Specialeelezioni

Grexit, tra mito e realtà


SYRIZA stravince, i Greci Indipendenti dovrebbero superare lo sbarramento, e la prospettiva di alleanze problematiche sembra essere scongiurata. La palla è in mano a Tsipras, che ora deve giocare in trasferta. La partita verterà sulle regole europee. Ma cosa chiede di preciso e che assi può schierare?
Metafore calcistiche a parte, è d’obbligo ricordare che il programma di SYRIZA non prevede assolutamente l’uscita della Grecia dall’Eurozona. In questi mesi  sia il responsabile economico del partito Yanis Varoufakis sia lo stesso Tsipras non hanno certo lesinato dichiarazioni volte a rassicurare i malpancisti, a Bruxelles come a Francoforte, rispetto a questo tipo di ipotesi.
Il programma economico del partito greco prevede in estrema sintesi di:
-Cancellare una parte (non esplicitata) del valore nominale del debito pubblico;
-Chiedere di indire una "Conferenza europea sul debito", volta appunto ad alleggerire il debito;  
-Includere una "clausola di crescita" nel rimborso della parte restante del debito pubblico in modo che il pagamento degli interessi sia finanziato dai progressi del Pil;
-Includere una moratoria al pagamento degli interessi per finanziare investimenti;
-Escludere gli investimenti pubblici dai vincoli del Patto di stabilità e di crescita;
-Avviare un “New Deal” europeo di investimenti pubblici finanziati dalla Banca Europea per gli Investimenti;
-Avviare da parte della BCE acquisti diretti di obbligazioni sovrane;
Contestualmente sul versante interno, SYRIZA promette politiche volte al sostegno della domanda attraverso un piano di investimenti pubblici (almeno 4 miliardi), diretti ad aumentare salari minimi e pensioni (che hanno perso il 30-40% del loro valore nominale dall’inizio della crisi), ripristinare lo stato sociale e aumentare le risorse destinate a ricerca, istruzione e innovazione tecnologica. La prima parte è naturalmente la più interessante, in quanto vede la totale rinegoziazione del Memorandum firmato con la Troika. Il significato strettamente economico di tali proposte, è però controverso. Il solo fatto di concentrarsi quasi esclusivamente sul problema del debito pubblico, rivela un notevole iato di analisi nei confronti delle cause alla base della crisi greca. Come studi scientifici di molti economisti, e la stessa BCE per bocca di Vitor Costancio (vicegovernatore) affermano, le radici della crisi dei debiti sovrani dei PIIGS nascono da una prolungata accumulazione di debito privato. Nei primi 7 anni di euro il debito privato è aumentato complessivamente del 27% nell’eurozona, solo in Grecia del 217%. In breve, la bilancia dei pagamenti nazionale (differenza netta tra import ed export di beni, servizi, ecc..), negli anni precedenti alla crisi, ha visto registrare una crescente posizione debitoria (importano più di quanto esportano) di questi paesi con l’estero. Lo scoppio della crisi finanziaria del 2007/2008 negli USA ha fatto il resto.  Le Banche creditrici del nord Europa, quelle più compromesse col terremoto statunitense, devono rientrare dai crediti esigibili. Le economie periferiche dell’eurozona si trovano nella situazione di dover remunerare il massiccio afflusso di crediti esteri di cui prima. Così con la crisi degli “Spread” 2010/2011, una crisi di finanza privata si trasforma in una di conti pubblici, gli stati dovranno garantire i creditori. Questi anni di austerità sono serviti in Grecia (ma anche in Italia) a “mettere a posto” proprio i conti con l’estero, contestualmente l’esposizione degli istituti bancari nord-europei in attività greche ad oggi è irrisoria, motivo per cui una improbabile uscita della Grecia dalla zona euro presenterebbe un bassissimo rischio di contagio. Il debito pubblico è invece continuato a salire, raggiungendo dal 129% sul PIL del 2009 il 175% odierno. Dunque, l’enfasi sul debito pubblico e sulle misure di austerity del programma di SYRIZA è rivolta sostanzialmente alle conseguenze anziché alle cause della crisi in corso. Per di più avere in mente di praticare politiche espansive, all’interno di un’UEM non dotata di meccanismi di riequilibrio, contribuirebbe a rimettere in crisi proprio la posizione debitoria netta con l’estero, l’elasticità delle importazioni greche rispetto al PIL è infatti di 1,8 (elaborazioni su dati Eurostat). La questione delle proposte economiche va però analizzata anche sul versante della loro praticabilità politica. Come si sa, la partita europea è una partita tra stati. L’UE non è un istituzione politica unitaria, e le richieste di un eventuale Governo Tsipras dovranno essere contrattate con gli altri esecutivi europei. Il leader greco questo lo sa bene, come sa di dover lottare per un compromesso. Lo scenario più probabile, è quello di un Governo greco che tenterà di trovare appoggi politici nei governi “social-democratici” del sud, Francia e Italia in primis, per tentare di dare un maggiore sostegno ad alcune sue rivendicazioni mal digeribili dalle elites nord-europee. Se Tsipras, smentendo la prudenza di questi mesi, di fronte a veti o dinieghi dei paesi forti ribaltasse il tavolo, non è escluso a priori che sotto la morsa dei mercati la Grecia sia costretta ad un abbandono non pianificato, ne indolore della moneta unica.  In ogni caso se di un uscita dall’euro si deve parlare, comincerei a prestare attenzione proprio alla Germania. Ma così si rischia di cadere nella divinazione.
Luca Scaglione

sabato 24 gennaio 2015

La sfida elettorale e il dopo voto in Grecia

#Specialeelezioni
La sfida elettorale e il dopo voto in Grecia

In queste ultime settimane i media nostrani e internazionali stanno trattando la questione delle elezioni in Grecia, se non in modo drammatico-catastrofista, molto spesso con toni scandalistici da tabloid britannico. Cerchiamo allora di mettere in chiaro le dinamiche elettorali del voto greco e le opzioni politiche sottese. I principali partiti che il 29 Gennaio si contenderanno il primato del voto popolare sono notoriamente SYRIZA e Nea Democratia. Gli ultimi sondaggi (Gpo, e Università della Macedonia per Skai) danno un vantaggio di circa 4-5 punti percentuali a SYRIZA, stimata attorno al 31%, rispetto a Nea Democratia che si ferma intorno al 26%. Gli altri partiti minori veleggiano su percentuali decisamente inferiori,  6% il populista To Potami e il neonazista Alba Dorata, 5% KKE (marxisti) e PASOK, la destra anti-austerità dei Greci Indipendenti in discesa intorno al 3%. Ma facciamo un passo indietro e diamo uno sguardo al sistema elettorale ellenico. Il sistema elettorale greco è in sostanza un sistema di tipo proporzionale, con aggiustamenti in senso maggioritario, in particolare la soglia di sbarramento al 3% per i partiti (calcolata a livello nazionale) e il premio di maggioranza (50 seggi) al partito che a livello nazionale ottiene il maggior numero di voti. Premio che garantisce la maggioranza assoluta dei seggi della “Boulé”, unica camera del parlamento composta da 300 deputati, nel caso in cui la lista vincente ottenga almeno il 40,5% dei voti. Ad essere precisi dato il meccanismo di ripartizione dei seggi elettorali, qualora la percentuale dei partiti, che non superano la soglia di sbarramento raggiunga il 15% (essendo esclusi dai 250 seggi assegnati col proporzionale), si potrebbe ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento con solo il 34,5% dei suffragi. Come si fa presto a notare le possibilità di un governo monocolore sono piuttosto esigue, le alleanze post-elettorali sembrano essere una strada obbligata. Stando ai sondaggi probabilmente toccherà ad Alexis Tsipras, leader della coalizione della sinistra radicale, condurre le trattative per cercare tra le forze parlamentari un accordo possibile per la formazione di un Governo. Nea Democratia e Alba Dorata, l’una per la confermata subalternità alla Troika, l’altra per l’ispirazione neo-nazista, non possono considerarsi interlocutori possibili. Lo stesso KKE, seppur di matrice ideologica più vicina, non sembra, per le sue posizioni di radicale critica al progetto europeo e alla moneta comune, disponibile ad accordi di governo. Un tentativo, sulla base di parole d’ordine anti-casta e un ammorbidimento della linea anti-memorandum, potrebbe essere fatto dunque con To Potami, il partito populista ma fortemente europeista fondato nel 2014 da Stauros Theodōrakīs, un giornalista televisivo. La ormai poco probabile vittoria di Nea Democratia , con la riproposizione dell’alleanza col PASOK di questi ultimi anni, invece, garantirebbe alla Grecia un accordo di governo meno estemporaneo e più collaudato, iscritto in una cornice di armonica convivenza con BCE, Commissione e FMI. Ma lo scenario che realmente rischia di isterizzare i mercati (la borsa di Atene è costantemente al ribasso da un paio di settimane, sebbene ieri abbia rimbalzato fortemente dopo il sì della BCE al Quantitative Easing di Draghi), è, più che l’ipotesi per me remota, ma su cui torneremo, del famigerato “Grexit”, il possibile stallo politico sulla falsa riga di quanto accaduto nel 2012. Se nessuna forza politica riuscisse a formare un Governo, si verificherebbe una situazione di ingorgo istituzionale, per cui il Parlamento appena insediato dovrà eleggere il Presidente della Repubblica che indirà nuove elezioni, prolungando la fase di tensioni interne e incertezza che preoccupa risparmiatori, creditori e investitori esteri.
È indubbio dunque, che il 25 Gennaio non sarà altro che il fischio d’inizio della partita greca (e chissà europea..), che si giocherà, tutta, all’indomani del voto.
Luca Scaglione

giovedì 22 gennaio 2015

22 Gennaio 1963: Trattato dell’Eliseo le “couple franco-allemand” e le relazioni franco-tedesche

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


22 Gennaio 1963: Trattato dell’Eliseo

le “couple franco-allemand” e le relazioni franco-tedesche



Si utilizza l’espressione “couple franco-allemand” per definire la relazione sviluppatasi nel dopoguerra
tra le due antiche nemiche ereditarie: la Francia e la Germania. Charles De Gaulle e Konrad Adenauer possono essere considerati i fondatori dell’amicizia e
dell’intesa franco-tedesca. I loro successori non hanno sempre perseguito la concertazione tra i due
Paesi con la stessa determinazione, ma non hanno più messo in dubbio il principio della cooperazione bilaterale. Firmato il 22 Gennaio 1963, il Trattato dell’Eliseo si inserisce in un processo di riavvicinamento iniziato nel dopoguerra tra la Francia e la Germania ed apre l’epoca dell’istituzionalizzazione delle relazioni bilaterali. Legando Francia e Germania in un rapporto di amicizia e di collaborazione per quanto concerne gli affari esteri, la difesa , l’istruzione e la gioventù, il Trattato propone un nuovo modello d’intesa e crea una dinamica senza precedenti. La storia del “couple franco-allemand” è scandita dalla successione di compromessi e di concessioni reciproche tra Parigi e Bonn-Berlino. Al cospetto degli antagonismi o delle differenti appartenenze politiche tra i dirigenti dei due Paesi, lodevoli sono stati quasi sempre lo sforzo e la capacità di superare le incomprensioni per fare progredire la costruzione europea in uno spirito di sintesi. Francia e Germania, in virtù della loro stretta collaborazione sono state capaci di trascinare gli altri paesi membri dell’Unione europea; nell’ultimo mezzo secolo infatti non c’è stata riforma in campo europeo che non sia stata promossa dall’intesa franco-tedesca o che comunque non ne abbia avuto il consenso. Il ruolo del Trattato dell’Eliseo è dunque quello di spartiacque nella storia delle relazioni franco-tedesche proprio perché è con la sua firma che le nemiche ereditarie hanno raggiunto l’amicizia reciproca ed è a partire da esso che ha potuto svilupparsi nei decenni seguenti le “couple francoallemand”. Ad oltre 50 anni di distanza dalla firma del Trattato dell’Eliseo, cosa resta oggi del “couple francoallemand? Davanti alle sfide della crisi economica e della globalizzazione, l’asse franco-tedesco ha delle concrete speranze di sopravvivenza ? In un’Unione europea a 28 Stati, gli altri paesi membri subiscono ancora il fascino di Francia e Germania ? E’ possibile che il forte legame tra le due antiche nemiche ereditarie stia per incrinarsi in modo sempre più palese e che quindi non possa reggere l’urto dei problemi economici, politici e sociali del nostro continente ? La scadenza elettorale, prevista sia in Francia che in Germania per il 2017, sembra ancora lontana, ma è chiaro che gli ultimi risvolti sia di politica interna che di politica internazionale mostrano come la natura stessa del “couple franco-allemand” stia cambiando e lasciano intravedere crepe sempre più profonde nelle relazioni franco-tedesche. La gestione della governance europea, il riacutizzarsi del terrorismo jihadista, il perpetuarsi dei focolai di crisi come l’Ucraina o il Medio oriente, rappresentano un costante terreno di scontro non solo per Francia e Germania ma per i diversi attori presenti sulla scena internazionale. Forse è presto per fare previsioni, ma la vertiginosa ascesa del Front National della LePen in Francia lascia presagire un riassetto degli equilibri europei ed un radicale cambiamento di politiche sia economiche che estere/di sicurezza; in Germania d’altro canto la cancelliera Merkel deve destreggiarsi tra le dinamiche della Grosse Koalition fatta con la SPD ed il logorarsi fisiologico del suo rapporto ormai decennale con il suo partito ed il suo elettorato. La storia del “couple franco-allemand” sta quindi per attraversare un’altra fase critica e lo spirito del Trattato dell’Eliseo potrebbe vacillare notevolmente: le conseguenze (positive e negative) avranno ripercussioni più o meno immediate non soltanto a Parigi e Berlino ma sull’intero vecchio continente e sullo scacchiere mondiale nel suo complesso.
Francesco Polizzotto
Per saperne di più:
www.france-allemagne.fr/traité de l’elysée-22 janvier 1963

www.charlesde-gaulle.org

giovedì 8 gennaio 2015

Brent tra risparmi e deflazione

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni



Brent tra risparmi e deflazione


Il prezzo del petrolio continua a scendere e non si intravede ancora la soglia minima da cui ci si può aspettare un rimbalzo. I dati sono in continua evoluzione ma si è già scesi sotto i 50 dollari al barile, più precisamente mentre scrivo il WIT a 49,2 e il Brent a 51,7, i valori più bassi dal periodo 2008-2009 post crollo di Lehmann Brothers, in cui il barile raggiunse il valore di 32 dollari.Le cause sembrano essere tante ma partiamo innanzi tutto dalla esponenziale e generalizzata crescita della produzione mondiale. Negli Stati Uniti è stata intrapresa negli ultimi anni una vera corsa all’indipendenza energetica basata sullo sviluppo di nuovi giacimenti di shale, che ha consentito il raggiungimento di una produzione tale che probabilmente porterà gli USA ad essere il primo produttore mondiale di petrolio già nel 2015. Anche nei paesi OPEC ed in Russia si è registrato un aumento di produzione del greggio, che insieme al contestuale rifiuto dell’OPEC stesso di limitare temporaneamente la produzione per sostenerne il prezzo, ha contribuito a questa formidabile espansione dell’offerta.
È altresì importante in questo contesto notare come le instabilità regionali in Libia e in Iraq (secondo produttore OPEC), a differenza di precedenti esperienze simili, non stiano in nessun modo frenando la caduta del prezzo del petrolio di questi ultimi mesi.
Altre importanti concause possono essere rintracciate senza dubbio nel crollo della domanda mondiale durante questi ultimi anni di crisi e nella rivalutazione del dollaro di questi ultimi mesi che retroagisce anche essa negativamente sulla domanda di tutte le commodities (tra cui naturalmente il petrolio).
Ora i quotidiani nazionali si sono naturalmente affrettati a esporre i benefici che questo crollo del prezzo del petrolio può portare nelle tasche delle famiglie e ai nostri conti pubblici. Dal calo del costo dell’energia, del prezzo delle bollette di luce e gas, alla benzina che presto può scendere sotto 1,4 € al litro. Tutto ciò, insieme alla congiunturale svalutazione dell’euro sul dollaro, garantirebbe in Italia una piccola boccata d’aria specialmente per  le imprese votate all’export.
Ma proviamo ad allargare un po’ lo sguardo, senza per questo perderci in ardite quanto inutili e improbabili analisi di scenario. In queste settimane le Borse europee stanno fibrillando, per semplificare si individuano solitamente due cause principali le elezioni anticipate in Grecia e appunto il crollo del prezzo del petrolio. La questione greca può essere analizzata in altre occasioni ed onestamente credo sia molto strumentalizzata in questo momento. Ritornando al petrolio si possono ipotizzare 3 principali motivi di allarme soprattutto in ambito europeo:
1.     Perdurare della crisi Ucraina2.     Rischio deflazione3.     Entità e tempi del rimbalzo
Il crollo dei prezzi del petrolio sta mettendo in seria difficoltà l’economia Russa (così come quella del Venezuela), il valore del rublo si è quasi dimezzato in un anno, e c’è chi vede in questo un possibile riacutizzarsi della crisi con Stati Uniti ed UE per ora scongiurata con malcelata disinvoltura da un Cremlino che cerca di voltarsi ad oriente. Il fronte ucraino è ancora una ferita aperta alla frontiera est dell’Europa.
Gli ultimi dati della Commissione e dell’Eurotower mostrano un inflazione asfittica nell’eurozona intorno allo 0,2% ben lontana dai pur minimi obbiettivi della BCE del 2%, e la continua discesa del valore del greggio potrebbe rendere sostanzialmente inutile il “quantitative easing” (acquisti di titoli nel mercato interbancario per favorire l’immissione di liquidità) per cui Draghi sta strenuamente lottando in seno al board della BC.
Infine l’incognita sulla durata di questa caduta del greggio. Più il prezzo del barile continuerà la sua crescita negativa (economicismo), più, a causa di un effetto spiazzamento che potrebbe penalizzare nel breve gli investimenti, e nel medio-lungo periodo l’offerta, aumenterà il rischio di una repentina crescita delle quotazioni dello stesso.
Tutti scenari che appaiono difficilmente gestibili da un Moloch europeo, immobilizzato da interessi divergenti, crescenti problemi interni e scarsa agilità politica internazionale.



Luca Scaglione