lunedì 25 maggio 2015

Il Mediterraneo e la questione dell’altro: geopolitica di un’idea

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Il Mediterraneo e la questione dell’altro

geopolitica di un’idea


a cura di Luciano Sesta

 1. Oltre il ‘mediterraneismo’
In un saggio significativamente intitolato Practical mediterraneanism. Excuses for everything, from epistemology to eating[1], l’antropologo Michael Herzfeld ha denunciato una vera e propria moda “mediterraneista”, in cui il concetto di “mediterraneo” diventa un contenitore neutro da riempire, di volta in volta, sulla base di tendenze, aspettative, ideologie e filosofie del momento. Già alla fine degli anni Trenta dello scorso secolo, un altro studioso, l’intellettuale egiziano T. Ḥusayn, in polemica con la politica panaraba di Nasser, aveva rivendicato un’identità egiziana specificamente “mediterranea”, in alternativa a quella araba[2]. In tempi a noi più vicini, la dieta “mediterranea” è diventata un passepartout nell’ambito della salute alimentare, oltre a funzionare anche come richiamo “politicamente corretto” all’idea di dialogo interculturale, vista la contaminazione di cibi di provenienza geografica diversa di cui tale dieta è composta. Si comprende perché Herzfeld si interroghi, da antropologo, su questo “bisogno” di trasformare uno spazio geografico ricco di storia in uno specchio che rifletta, dotandole di un “autorevole” riscontro, le cose di cui ci occupiamo e preoccupiamo.
Prima ancora della domanda di Herzfeld, che può avere molteplici risposte, rimane tuttavia da spiegare perché, per soddisfare questo bisogno, guardiamo proprio al Mediterraneo. Cosa c’è insomma in quest’area geografica da indurci, quasi irresistibilmente, a farne una chiave simbolica di comprensione dei più svariati fenomeni? Perché, con la sua dieta e con il suo clima, con la sua storia e con la sua cultura, il Mediterraneo intriga? Il fatto stesso che una simile domanda si ponga è sufficiente a uscire dalle mode “mediterraneiste” per interrogarsi nuovamente su ciò che le alimenta, e cioè appunto il perenne fascino suscitato da quel mare, “isolato” dagli oceani e dagli altri mari, a cui gli antichi diedero il nome di Mare Nostrum, quasi a volerlo gelosamente trattenere dalla sua tendenza a diventare crocevia di tutti i popoli, e non solo di quelli che si affacciano sulle sue sponde. 

 2. Il mare e la scoperta dell’altro
Nelle sue Lezioni di filosofia della storia, proponendo un’interpretazione destinata a essere ripresa in tempi recenti, il filosofo romantico Hegel ha scritto: “Per i tre continenti il Mar Mediterraneo è fattore di unificazione e il centro della storia mondiale. Qui c’è la Grecia, il punto luminoso nella storia. In Siria, Gerusalemme è poi il centro del giudaismo e del cristianesimo, a sud ovest sorgono La Mecca e Medina, sede originaria della fede musulmana. Verso occidente si trovano Delfi, Atene, ancora più a ovest Roma; inoltre giacciono sul Mediterraneo Alessandria e Cartagine. Il Mar Mediterraneo è, perciò, il cuore del Vecchio Mondo, è la sua condizione necessaria e la sua vita. Senza di esso sarebbe impossibile rappresentarsi la storia, sarebbe come immaginare l’antica Roma o Atene senza il foro, dove tutti si radunavano”[3].
Il Mediterraneo come “foro” della civiltà europea: con questa suggestiva metafora siamo ancora oggi chiamati a confrontarci, in un’epoca di rapidi mutamenti culturali e di instabilità politica, che vede affacciarsi lo spettro di un’ennesima guerra di civiltà proprio in quella Siria che Hegel rievoca come luogo sorgivo di due religioni mondiali quali l’ebraismo e il cristianesimo. Come punto di convergenza di fattori geopolitici, etici, storico-culturali e religiosi, il Mediterraneo assume dunque anche oggi l’aspetto di un link universale, la cui identità specifica consiste nel non averne alcuna. E in effetti lo stesso Hegel – anche qui anticipando riflessioni contemporanee come quelle di F. Braudel, J. Derrida e M. Crépon – colloca l’identità europea non già in uno spazio geograficamente e culturalmente delimitato, ma in un medium, e cioè in una dimensione che, proprio come il “mare”, scava distanze e, al tempo stesso, permette di colmarle, almeno a chi è disposto a sfidare la precarietà delle acque. In effetti la trasformazione dell’aggettivo mediterraneus (“in mezzo alle terre”) in sostantivo – testimoniata sin da Isidoro di Siviglia (560-636 d.C.) – rende ancora più accentuato il paradosso di dare “realtà” a quello che è un semplice “stare tra”[4]. Ancora Hegel espone con efficacia il senso in cui il tramite rappresentato dal mare implica una vocazione all’universalità che in Europa non ha escluso, ma anzi ha richiesto, il rapporto con l’altro: “In Asia il mare non ha importanza: anzi, i popoli hanno chiuso le porte al mare [...]. In Europa, invece, quel che conta è proprio il rapporto col mare: questa è una differenza costante. Lo Stato europeo può essere veramente Stato europeo solo quando è sul mare. Nella vita sul mare è implicita quella specialissima tendenza all’esterno, che manca alla vita asiatica: il procedere della vita oltre se medesima”[5].
Benché contenga chiari elementi di eurocentrismo, la pagina hegeliana offre anche gli strumenti che consentono di interpretarlo non già come chiusura etnocentrica, ma come apertura relazionale all’alterità. La vocazione europea all’universalità, infatti, è qui interpretata non come una dilatazione “coloniale” della propria identità, ma come un suo “superamento” in direzione dell’altro. Il mare, in quest’ottica, si presenta come la cifra paradigmatica di ogni autentico legame fra uomini, civiltà e religioni, in cui il rapporto con l’altro si realizza solo al prezzo di un rischio, e cioè solo a condizione di imboccare un percorso la cui meta non è mai garantita e in cui risultano sospesi, almeno provvisoriamente, i confini rassicuranti della propria stessa identità. Da sempre, infatti, navigare significa abbandonare ciò che è fermo e protetto per avventurarsi in ciò che è in perenne e precario movimento. Sporgendo sul mare, la terra è dunque costretta a stabilire un rapporto con l’alterità. Lo stesso storico desiderio di conquista dell’Occidente non è che una conferma di questo inevitabile rapporto con l’altro, che mentre alimenta lo spirito “colonizzatore” europeo, lo espone anche a un’incessante smentita delle proprie pretese di autosufficienza. Serge Latouche ha addirittura parlato di una “raison méditerranéenne”[6], alludendo al Mediterraneo come all’equivalente geografico e culturale di un’attitudine “critica” della ragione europea: come questa non riposa mai sulle proprie acquisizioni perché le rimette costantemente in questione, così il mare-frontiera su cui si affacciano i popoli del mediterraneo impedisce ogni chiusura etnocentrica.
L’insieme dei problemi che noi oggi discutiamo sotto il nesso religioni-diritti umani-guerra-pace, fa la sua esplicita comparsa proprio nel cuore del Mediterraneo all’epoca del colonialismo del Cinquecento. È erroneo, in tal senso, dire che in quella circostanza il Mediterraneo perse la sua centralità in favore dell’Atlantico. È vero il contrario: solo l’impulso alla “scoperta dell’altro” (T. Todorov) coltivato dalla mentalità mediterranea spinse Colombo a solcare l’Atlantico, la cui nuova centralità, dunque, è figlia di quella stessa “raison méditerranéenne” che sarebbe poi uscita ridimensionata dalle nuove scoperte.
Uno sguardo alla storia, in effetti, mostra che la cultura occidentale, frutto di un peculiare “meticciato” greco-romano, arabo-musulmano ed ebraico-cristiano, ha dimostrato un dinamismo sorprendente, che ne ha fatto una terra di “rivoluzioni” incessanti, che impediscono di pensarne l’“universalità” come semplice “espansionismo”, e dunque come affermazione di una cultura particolare a spese delle altre. Il dinamismo della cultura europea si lascia leggere piuttosto come desiderio di uscire da sé verso l’altro, di imparare da lui e, certamente, anche di influenzarlo. Portando già dentro di sé l’alterità e la pluralità, la cultura europea è cioè strutturalmente dialogica e, dunque, in grado non soltanto di aprirsi, ma anche di sollecitare l’apertura di ciò che incontra e con cui si scontra. 
In quest’ottica l’idea che possa esistere qualcosa come un “eurocentrismo”, nel senso dell’assolutizzazione di una cultura determinata a spese delle altre, è una contraddizione. L’Occidente è piuttosto il luogo del “tramonto”, e cioè della relativizzazione di tutte le forme storiche che esso stesso va assumendo. È, si potrebbe dire, una palestra di decentramento, come mostra anche il fatto che esso guarda sempre oltre se stesso, in direzione dell’altro (sia per conquistarlo, sia per rispettarlo). E ciò è possibile, secondo alcune suggestive interpretazioni, solo sulla base di un Incondizionato (sia esso “laico”, come la democrazia o i diritti umani, o “religioso”) posto come ideale regolativo delle sue conquiste, e rispetto al quale, appunto, quelle conquiste, risultando sempre rivedibili, non potranno mai essere dogmaticamente assolutizzate[7]. Ne deriva un’ipotesi sorprendente e carica di prospettive che lasciano sperare: l’atteggiamento religioso, da potenziale occasione di conflitto e di intolleranza, produce qui, al contrario, salutari effetti di relativizzazione, educando al riconoscimento dei limiti di tutto ciò che è umano e impedendo, di conseguenza, di mettere le mani su un mistero che, proprio perché ci sfugge, non può mai, da nessuno, essere brandito come un’arma.
  
 3. Globalizzazione, religioni, diritti umani 
Storico e celebrato centro di irradiazione della fede ebraico-cristiana e della cultura greco-romana, poi della conquista di nuovi mondi, il Mediterraneo è oggi sulla difensiva. Non solo perché è scenario di un “fuoco incrociato” di flussi migratori che impegnano le politiche comunitarie in un’opera di difficile contenimento, ma anche perché esso stesso, sotto la pressione della crisi economica, accusa uno svuotamento migratorio in direzione del Nord.
Proprio al cospetto di fenomeni migratori sempre più massicci – con le ricadute tragiche che recentemente si sono moltiplicate –, l’Unione europea trova nell’area mediterranea una cartina di tornasole della propria politica di promozione dei diritti umani. A differenza di trattative geopolitiche di più ampio respiro – come quella dell’inclusione fra gli stati membri di un paese come la Turchia –, le ondate migratorie che raggiungono il sud Europa non tollerano i tempi lunghi della deliberazione politica ma richiedono quelli brevi dell’accoglienza sociale. Le cause strutturali di questo movimento di popoli, d’altra parte, non possono essere affrontate che tramite un paziente lavoro di negoziati politici, in cui secondo alcuni la cittadinanza europea dovrebbe estendersi al punto di diventare cittadinanza cosmopolitica (J. Habermas), mentre, secondo altri, dovrebbe invece tenere conto di delicati equilibri comunitari, soprattutto oggi, al cospetto di uno spaventoso crollo dell’occupazione, che rischia di aumentare aprendo indiscriminatamente le frontiere euro-mediterranee.  
Che i flussi migratori dipendano in larga parte da conflitti militari, a loro volta scaturiti da lotte politiche alimentate da fazioni religiose, mostra lo stretto legame tra l’agenda europea per la costruzione della pace e della stabilità politica e la questione del rispetto dei diritti umani nell’ambito dei rapporti fra le religioni. A questo riguardo, tuttavia, non bisogna cadere nel tranello, oggi piuttosto frequente, di pensare che il pluralismo delle culture e delle religioni sia una peculiarità della nostra epoca. Come ha opportunamente ricordato il teologo delle religioni Claude Geffré, la pluralità delle culture e delle religioni è sempre esistita, anche se noi, oggi, ne abbiamo una consapevolezza nuova e più marcata per effetto della globalizzazione[8]. Questa stessa consapevolezza, peraltro, non è nemmeno del tutto nuova, se si pensa che proprio l’area mediterranea ha conosciuto la prima forma di globalizzazione già nel XIII sec. a.C., quando i fenici, con le loro imbarcazioni, cominciarono a disegnare una rete di traffici la cui ampiezza, allora, poteva già essere considerata “mondiale”. 
     È nota la tesi standard sull’origine e sulla natura della globalizzazione, descritta come un fenomeno di omologazione pervasiva, dovuto all’esportazione, su scala planetaria, di una cultura consumistica e del profitto, di cui il cosiddetto  macdonaldismo è l’effetto polemicamente più richiamato. Altrettanto nota è la tesi secondo la quale gli irrigidimenti identitari, spesso individuati come premessa e causa dei conflitti religiosi, siano un effetto di “rimbalzo” di questa omologazione. Di fronte alla minaccia di un sistema globale che soffoca il senso di appartenenza e le identità culturali e individuali, sono soprattutto le religioni a essere mobilitate e strumentalizzate al servizio di particolarismi etnici e nazionali. E quando ciò non accade, la specificità del vissuto religioso è comunque sottomessa alla logica della globalizzazione, trasformandosi in un sincretismo tra credenze sradicate dal loro contesto di origine, il cui esito finale è quel believing without belonging di cui ha parlato la sociologa inglese Grace Davie[9].
È per reazione difensiva nei confronti di questo dissolvimento sincretistico della fede religiosa che, proprio nell’area mediterranea, riemergono in ambito religioso rivendicazioni identitarie spesso violente, causa di quello che sembra davvero uno “scontro di civiltà” (S. Huntington), denunciato in nome di un sempre più frequente (e retorico) appello ai “diritti umani”, invocati come una terra franca, in cui è possibile promuovere un giusto rapporto fra gli esseri umani, le loro culture e le loro religioni. Da quando, con la Dichiarazione Universale del 1948, ha preso avvio l’“età dei diritti” (N. Bobbio), la rivendicazione dei diritti umani ha però rischiato di trasformarsi in una nuova propaganda religiosa, che si presenta tanto più intollerante quanto più pretende quell’immunità che spetterebbe a ogni battaglia condotta nel buon nome della giustizia. Non si può non andare con la memoria all’icastico sospetto nietzscheano, che vedeva nei “diritti uguali per tutti” nient’altro che un “cavallo di Troia” del cristianesimo o, in tempi a noi più vicini, a Carl Schmitt, che rievocando la sentenza di Proudhon secondo cui “chi dice Dio vuole truffare”, ha affermato che anche “chi dice ‘umanità’ vuole truffare”[10]. La Dichiarazione del 1948 sarebbe insomma meno “universale” di quanto non pretenda di essere, nascondendo interessi spiccatamente occidentali, se non nordamericani. Il dibattito sui cosiddetti Asian values lo ha dimostrato con chiarezza, contrapponendo ai valori dell’individualismo borghese, su cui si baserebbe il concetto eurocentrico di “diritti umani”, un comunitarismo fondato su identità organiche e collettive, che enfatizzano valori cosiddetti “pre-moderni” come la tradizione, le gerarchie sociali, i vincoli familiari ecc. Il discorso sui diritti umani, che si presumeva al riparo da ogni ambiguità e da ogni controversia di carattere politico e religioso, finisce per essere attratto nell’orbita di una ben più radicale controversia, che riguarda l’abuso della giustizia al servizio di interessi particolaristici, nazionali, culturali o religiosi che siano.
    
 4.    Geopolitica di un’identità aperta 
Se è vero, come ha scritto Bobbio, che il problema dei diritti umani non è quello di fondarli ma quello di proteggerli, allora diventa centrale la questione politica[11]. Come crocevia di storie e di popoli, l’area mediterranea conosce però modelli di governo diversi: democrazie liberali consolidate, regimi più o meno autocratici o regimi in transizione. Su questa diversità si riflettono e si incarnano anche i fattori di potenziale o reale conflitto che derivano da un’area che è culla delle tre religioni monoteiste, come dimostrano drammaticamente le guerre di ieri e di oggi[12]. Ciò anche a causa del fatto che la laicità dello Stato, un passaggio che il Cristianesimo ha già compiuto da tempo, non si è affermata in ugual misura in tutti i paesi del Mediterraneo. In alcuni paesi arabi, com’è noto, la religione regola la vita pubblica e privata e si contesta la modernità, responsabile di aver separato le due sfere e di aver confinato la dimensione religiosa in un ambito meramente individuale e soggettivo. Sul piano economico, poi, i paesi del Mediterraneo sono caratterizzati da forti disparità di sviluppo, ulteriormente radicalizzate dalla crisi economica ancora in corso. A ciò si aggiunga che, dal punto di vista antropologico-culturale, vi è una crescente diffusione di immagini distorte dell’altro da sé, che alimentano incomprensioni e intolleranza reciproca: l’Occidente, da un lato, viene spesso demonizzato per i valori materialistici che incarna e diffonde attraverso politiche ritenute “neo-imperialiste”; dall’altro lato nei paesi europei l’Islam è sbrigativamente identificato con un mondo compatto e omogeneo, privo di diversificazioni interne e pervaso da terrorismo e fondamentalismo[13].
     Ed è qui che andrebbe forse ripensata, in uno stile meno politicamente corretto, il binomio “dialogo-conflitto”. La conflittualità non andrebbe semplicemente condannata, perché ci ricorda l’impossibilità di omologare le diversità sotto il segno di una concordia che, spesso, è frutto di un’idea di “pace” imposta da una delle parti in conflitto. Né la pace può assumere tratti esclusivamente “occidentali”. Occorre piuttosto combinare, in una difficile negoziazione, le diverse pratiche di pace che caratterizzano le diverse culture. E ciò costituisce la più grande sfida, perché le diverse idee di cosa sia “giustizia”, “pace” e “verità”, contrappongono gli uomini e le culture più di quanto non facciano i loro interessi particolari. La battaglia fra idee “universali” è sempre stata più violenta e sanguinosa del piccolo scontro fra interessi di parte che si riconoscono tali. Non a caso il dialogo fra le religioni è il più impegnativo, dal momento che ciascuna fede mantiene una pretesa di assolutezza difficilmente compatibile con quella altrui. E ciò avviene soprattutto in ambito interconfessionale, e cioè tra le fazioni interne alla medesima religione.
     In quest’ottica, sulla scorta del Partenariato Euro-Mediterraneo lanciato a Barcellona nel novembre 1995 dai capi di stato e di governo di 15 paesi dell’Unione Europea e di 12 paesi del bacino del Mediterraneo, una prima ipotesi potrebbe essere di ripensare il Mediterraneo non solo come culla di un’identità europea plurale e interculturale, ma anche come una “cerniera” fra Nord e Sud del mondo, da un lato, e fra Occidente e Oriente, dall’altro lato. Una cerniera che ambisce a diventare un ago della bilancia alternativo a quello che, con una certa enfasi, è stato chiamato il “monoteismo atlantico” (F. Panebianco). Non c’è timore di esagerare, da questo punto di vista, nell’affermare che il Mediterraneo rappresenti davvero l’area più strategica del globo. Con ripercussioni estremamente impegnative per quelle che sono le responsabilità politiche internazionali dell’Unione Europea. Per posizione geografica e storia politica, infatti, il Mediterraneo rende pericolosamente “prossimi” alle faccende europee i problemi che affliggono il Medio Oriente, il continente africano e gli stessi paesi membri maggiormente colpiti dalla crisi economica, che non a caso sono proprio Grecia, Spagna e ormai anche Italia. In tal senso il Mediterraneo è il luogo più scomodo d’Occidente, in cui quest’ultimo non può costruire la propria identità senza farsi carico di quella dell’altro. Ma proprio per questo l’area mediterranea è anche la più grande chance affinché l’Europa possa mostrarsi all’altezza della propria vocazione, se è vero, come ha sostenuto Jacques Derrida, che l’identità del vecchio continente è di non avere un’identità, o, più esattamente, di risolvere la propria identità nella relazione[14].
Recependo una simile lezione, il progetto si concentrerà sul concetto di “contaminazione” culturale, intesa come incontro fra culture o religioni in cui ciascuna dilata la propria identità senza perderla. Le culture sono peraltro esse stesse frutto di contaminazione, e non sono mai universi reciprocamente impermeabili, come mostra fra le altre la stessa cultura europea e mediterranea. A questo riguardo si può ricordare, in ambito arabo, la corrente di riforma nota con il nome di Nahda, ovvero “rinascimento” o “risveglio”, che dalla seconda metà del XIX secolo ha attraversato le società del Mediterraneo meridionale, e che si è sviluppata tramite una deliberata introduzione di elementi occidentali all’interno della cultura islamica e araba, senza tuttavia rinunciare alle tradizioni che le caratterizzano e le rendono riconoscibili[15]. Fino a quando l’agenda politica europea in area mediterranea si limiterà alle voci “sicurezza, terrorismo e lotta all’immigrazione clandestina”, il confine fra Nord e Sud e fra Occidente e Oriente rimarrà una barriera impenetrabile, e il segnale positivo di cui l’altro ha bisogno stenterà a raggiungerlo[16].
    




[1]M. Herzfeld, Practical Mediterraneanism: Excuses for Everything, From Epistemology to Eating, in Rethinking the Mediterranean. Ed. William V. Harris. New York: Oxford University Press, pp. 45-63.
[3]G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, la nuova Italia, Firenze 1998, p. 77.
[4]Su questi aspetti si vedano F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 2014 e M. Vegetti, Una geopolitica immaginaria del Mediterraneo, http://www.mi.camcom.it/upload/file/1633/816572/FILENAME/03-VEGETTI.pdf 
[5]G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di G. Calogero e C. Fatta, vol. I, La nuova Italia, Firenze 1963, pp. 269-271.
[6]S. Latouche, Le Défi de Minerve. Rationalité occidentale et raison méditerranéenne, Paris, Éditions La Découverte, 1999, trad. it. La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
[7] R. Spaemann, Universalismus oder Eurozentrismus?, in K. MICHALSKI (a cura di), Europa und die Folgen, Klett-Cotta, Stuttgart 1988, pp. 313-322: 321.
[8]C. Geffré, Chances e rischi del pluralismo religioso nell’epoca della globalizzazione, in M. Dal Corso, Religioni e diritti umani, “I Quaderni dei Cantieri”, 3 (2008), pp. 19-26.
[9]G. Davie, Religion in Britain since1945. Believing without Belonging, Basil Blackwell, Oxford 1994.
[10]C. Schmitt, Etica di Stato e Stato pluralistico, in Id., Posizioni e concetti. In lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 2007, pp. 217-236: 232. Cfr., sulla stessa linea, D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000.
[11]N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1992, p. 18.
[12]S. Guarracino, Mediterraneo. Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel, Bruno Mondadori, Milano 2007.
[13]Dal punto di vista della stabilità politica, della pace e del rispetto dei diritti umani, il nodo cruciale, probabilmente, rimane ancora la questione palestinese, che per alcuni è la “questione mediterranea” per eccellenza (D. Zolo, La questione mediterranea nelle relazioni internazionali, in G. Cevolin, a cura di, Identità, Europa, Mediterraneo. Autonomia e nuove relazioni internazionali, “Quaderni di Autonomia” 14/15, 2005, pp. 19-31: 27). La soluzione del conflitto arabo-israeliano sarebbe infatti non solo un grande passo verso la pace mediterranea e la pacificazione del Medio Oriente, ma rimuoverebbe anche il grande “pretesto” che alimenta il terrorismo di matrice islamica.
[14]J. Derrida, Oggi l’Europa, Garzanti, Milano 1991.
[15] Aa.Vv., Il mediterraneo. Figure e incontri, Jaca Book, Milano 2005, p. 146.
[16]Sulla questione del cosiddetto ‘respingimento’, si sono scontrate le diverse letture del ‘cosmopolitismo’ e del ‘nazionalismo’, sia moderato che duro. Ci sono buoni argomenti sia pro sia contro. Nessuna delle soluzioni proposte, tuttavia, è applicabile immediatamente e senza problemi. I critici di Mare Nostrum, per esempio, ebbero a dire, allora, che se i soldi investiti per aiutare i migranti a sbarcare in Italia fossero stati investiti nei luoghi di partenza, probabilmente il problema sarebbe stato già risolto. A questo riguardo, però, l’Ue ha dichiarato di non avere sufficienti risorse, per cui a fortiori non può averle nemmeno un singolo paese come l’Italia. Si è anche detto che i clandestini andrebbero accolti solo a condizione che anche l’Ue si faccia carico del problema e che si dovrebbe pensare prima alla sicurezza dei cittadini dell’Unione, in particolare italiani, e dopo agli stranieri, oltre a ricordare che accogliendo alle frontiere si autorizza il turpe mercato degli scafisti. Le motivazioni di coloro che sostengono il respingimento o la chiusura delle frontiere, naturalmente, non sono mai esplicitamente razziste, e sono spesso delle buone motivazioni, anche nell’ottica di una maggiore tutela dei diritti umani degli stessi migranti. La questione, tuttavia, è la già richiamata sfasatura fra i tempi della politica e quelli dell’azione sociale: può esserci provvedimento politico-giuridico che, in nome della sicurezza, imponga l’omissione di soccorso in mare? Forse dopo la chiusura delle frontiere e alcune vittime “esemplari” il flusso diminuirà fino a interrompersi del tutto. Ma si può usare l’omissione di soccorso per dare un esempio? La chiusura delle frontiere può anche essere una soluzione politicamente ragionevole. Ma non può imporre l’omissione di soccorso finché ci saranno barconi in vista. Mentre dunque la politica continua a fare il suo giusto lavoro, la prassi di accoglienza non può essere interrotta. Anche in deroga a eventuali provvedimenti il cui scopo è di controllo e non di soccorso, come il programma “Triton”, che a differenza di Mare Nostrum, prevede il controllo delle acque internazionali solamente fino a trenta miglia dalle coste italiane. È difficile, infatti, pensare che se un barcone è avvistato e sta per affondare a trentun miglia dalla costa, non lo si soccorra. Sul tema si vedano le lucide riflessioni di L. Caracciolo, Il dovere di accogliere i migranti, “Limes”, 23 aprile 2015.

sabato 23 maggio 2015

Emergenza migranti: il piano dell'Europa

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


Emergenza Migranti: il Piano dell'Europa



Il 20 Maggio trecento esperti di migrazioni hanno pubblicato su opendemocracy.net una lettera aperta per criticare il piano militare con cui l'Unione Europea sta cercando di risolvere la crisi mediterranea. Questa nuova strategia prevede un intervento diretto degli stati europei sulle coste africane, in particolare contro le basi dei trafficanti in Libia. Scrivono: “Cercare di fermare il traffico di esseri umani con la forza militare non vuol dire prendere una nobile posizione contro il male dello schiavismo e neanche contro il ‘traffico’. Significa semplicemente proseguire una lunga tradizione in cui gli stati usano la violenza per impedire ad alcuni gruppi di esseri umani di muoversi liberamente”. A ciò si può aggiungere la citazione di un articolo su Internazionale di Francesca Spinelli, giornalista e traduttrice:"Si potrebbe obiettare che uno stato ha il diritto di decidere chi può risiedere sul proprio territorio, ed è vero, ma se per esercitare questo diritto fa ricorso alla violenza perde ogni legittimità". L'Ue sta cercando di risolvere con misure d'urgenza una improvvisa crisi che è però legata ad un fenomeno attivo già da molto tempo. Finora i politici hanno sempre optato per la soluzione militare: Frontex è attiva dal 2005. E sono ormai dieci anni che agisce per il rimpatrio forzoso di chi riesce ad arrivare in Europa dall'Africa (e più di recente dal Medio-Oriente). I rappresentanti dell'Unione parlano di guerra alla schiavitù (e ora anche di guerra al terrorismo, data la presenza dell'ISIS in Libia) ma agiscono in modo inefficace per risolvere il problema, infatti bloccare i barconi non gli impedirà di ritentare o trovare vie alternative come Melilla. Infatti l'estate si annuncia torrida. Circondata su tre lati dal Marocco, la piccola enclave spagnola dista più di 200 chilometri dalla madrepatria: il filo spinato che la circonda è l’ultimo ostacolo che separa migliaia di migranti e rifugiati dal sogno europeo. Gli esperti che hanno scritto la lettere propongono ai rappresentanti dell'Ue di mettere da parte la retorica anti-schiavista e agire tenendo conto della “libertà di movimento” e del “diritto di movimento” elaborato nell’ottocento dagli attivisti africani e statunitensi. Sottolineano in particolare che è sbagliato parlare di schiavitù in questo caso perchè nessuno oggi costringe i migranti ad allontanarsi dalle loro case contro la loro volontà, a pagare migliaia di dollari per il viaggio e a rischiare la loro vita durante la traversata se non loro stessi. Chi arriva o cerca di arrivare in Europa (non bisogna dimenticarsi delle perdite di vite in questi anni, persone che sono diventate semplici dati statistici) lo fa perchè spinto dalle necessità economiche, dal sogno del benessere occidentale, dalle guerre locali, dalle persecuzioni religiose. Scappa in cerca di un futuro meno incerto.

Eunavfor Med
Questo è il nome dato all'operazione navale approvata dai ministri degli esteri e della difesa europei e che avrà lo scopo di individuare e poi distruggere i barconi nelle acque e nei porti libici. Eunavfor Med avrà sede a Roma e sarà guidata dall'ammiraglio Enrico Credendino, precedentemente a capo della Operazione Atalanta anti-pirateria in Somalia . Il mandato iniziale sarà di un anno (le operazioni potrebbero iniziare a fine giugno) e per i primi due mesi sono già stati stanziati circa dodici milioni di euro. Altri investimenti saranno fatti dopo che le Nazioni unite daranno il loro consenso all'operazione navale. Ad oggi il piano su cui si sono accordati i ministri europei prevede tre fasi. Una prima fase di raccolta di informazioni, sorveglianza e valutazione della rete dei trafficanti. I governanti europei ritengono di poterla avviare anche senza il consenso delle Nazioni Unite agendo solo in acque internazionali. Seconda e terza fase prevedono l’individuazione, la cattura e la distruzione delle risorse dei trafficanti “in modo conforme al quadro giuridico internazionale e in collaborazione con le autorità libiche”, così è scritto nel piano. Il 18 Maggio, in una conferenza stampa a Bruxelles, Federica Mogherini, alta rappresentante della politica estera dell’Ue,  ha precisato che per smantellare le reti dei trafficanti l’Ue dovrà collaborare non solo con il governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, ma anche con i gruppi rivali che detengono il potere a Tripoli e a Misurata (nessuno dei due governi ha mostrato alcun segno di voler cooperare a questo piano). Durante la stessa conferenza Michael Fallon, segretario per la Difesa della Gran Bretagna ha confermato l'aiuto del suo paese nello sviluppo del piano militare. L'Ue prevede anche di stringere dei rapporti di cooperazione con i paesi africani in cui transitano i migranti per rendere più semplice rimandare indietro coloro che non hanno i requisiti per essere considerati rifugiati. Non è chiaro se distruggere le imbarcazioni sulla costa fermerà o rallenterà il flusso di migranti, è certo però che questa operazione richiederà una significativa presenza di intelligence sul territorio. E l'Ue non ha una presenza ufficiale in Libia. L'operazione Atalanta in Somalia (2012) è vista come un modello da seguire in questa nuova missione nel Mediterraneo. Ma Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, è cauto e poco favorevole ad azioni militari. La parte del piano più a rischio è la terza, che prevede operazioni navali in acque libiche e vicino le coste del paese, che è criticata dai due governi libici. I rappresentanti europei hanno più volte ripetuto che in questa fase la regola da seguire sarà "no boots on the ground". Non basterà il solo impiego dei droni e degli elicotteri (utilizzati per la raccolta di informazioni) a fermare la partenza dei barconi, se i due governi non cambieranno idea sull'operazione.
  
Ripartizione Migranti (la Francia dice no)
Dopo l’arrivo di migliaia di migranti sulle coste del Mediterraneo nelle ultime settimane, l’Unione europea ha approvato un piano per la riallocazione temporanea dei richiedenti asilo che sono già in Europa. La ripartizione tiene conto di quattro parametri: pil, popolazione, livello di disoccupazione e rifugiati già presenti sul territorio nazionale. Secondo il piano l'Italia dovrebbe accoglierne solo l'11.84% (siccome accoglie già un numero di richiedenti asilo equivalente alla quota prevista, non dovrà ospitarne altri), la Francia il 14.17% e la Germania 18.42%. Le quote dei restanti paesi dell'area mediterranea sono più contenute (Spagna 9%, Portogallo 5%). E ancora di più quelle dei paesi dell'Est Europa. Il piano di ripartizione ha creato un certo malumore diffuso. Durante una conferenza a Berlino Hollande ha chiarito la posizione della Francia:“È fuori discussione che vi siano delle quote di immigrati perché abbiamo già delle regole” sul “controllo delle frontiere e anche politiche per arginare l’immigrazione”, ha detto il presidente francese. Regole evidentemente non adatte a prevenire o arginare la crisi odierna. Solo a metà maggio è stato approvata una agenda (2015-2020) per stabilire le politiche comuni sui flussi migratori. Ad oggi Regno Unito, Danimarca e Irlanda potranno avvalersi della possibilità di non partecipare al piano di ripartizione. Questo piano e l'operazione navale restano, a dispetto di tutti gli ostacoli, una significativa reazione da parte dell'Europa per attivarsi contro un problema che riguarda tutti i paesi membri e di cui finora solo alcuni si sono dovuti far carico più degli altri.

Conclusione
L'Europa sta cercando di risolvere il problema nel modo più diretto e semplice possibile: bloccando chi cerca di attraversare il mediterraneo e distruggendo la rete di chi organizza questo traffico. Sono azioni sul filo del rasoio, in parte contrarie ai diritti fondamentali dei migranti (Frontex non ha un proprio ufficio interno per i reclami contro il trattamento che le persone espatriate subiscono) e in parte contrarie alle stesse norme europee. Sono però le uniche che l'Ue, una immensa macchina burocratica, ritiene fattibili in questi mesi in cui la crisi è sentita come più pressante. Finché i movimenti migratori saranno presentati come una minaccia alla sicurezza e non come un fenomeno legato al lavoro, ai ricongiungimenti familiari e al diritto umanitario, Frontex continuerà a crescere e a far crescere il mercato delle tecnologie di sorveglianza, le persone continueranno a morire ai confini dell’Unione europea e noi a farci trascinare dai nostri governi in guerre sempre meno immaginarie. Stiamo creando il problema del domani. Già adesso stanno crescendo movimenti di protesta e proposte alternative per cercare di risolvere il problema ma nessuno li ascolta o gli da il giusto peso. Frontexplode, Frontexit, Watch the Med sono solo alcuni fra i più attivi. I migranti e i loro diritti saranno i protagonisti dei dibattiti dei prossimi anni nelle commissioni europee, nelle assemblee fra i ministri e i capi di stato e nelle manifestazioni popolari. L'Europa non è non deve essere una fortezza nel Mediterraneo. Non siamo soli in questo mare. Dobbiamo avere un ruolo più attivo, proteggerci e regolare il flusso dei migranti ma anche aiutarli a scappare dai una situazione insostenibile. Questo potrebbe essere un banco di prova per l'Ue per creare una propria area di influenza (la Cina ha il sud-est asiatico, gli USA il pacifico e il centro america, la Russia parte dell'Asia). Bisogna solo capire se e come intervenire in nord Africa e trarre i massivi vantaggi possibili per noi e per loro.
Salvatore Carrubba

mercoledì 6 maggio 2015

Elezioni in GB e crisi del bipolarismo

#Specialeelezioni

Elezioni in GB e crisi del bipolarismo


La singolarità della sfida elettorale che, il prossimo 7 maggio si terrà in Inghilterra, Galles e Scozia per rinnovare il Parlamento della Gran Bretagna, sembra proprio essere la sempre più realistica possibilità di impasse. Il sistema elettorale britannico è in buona sostanza un sistema uninominale maggioritario a turno unico. Il territorio di sua maestà Elisabetta II è dunque suddiviso in tanti collegi quanti sono i seggi (650) da assegnare in Parlamento, il candidato che riceverà la maggioranza dei voti per ciascun collegio otterrà il seggio “first past the post”. La novità risiede essenzialmente nel fatto che un sistema maggioritario secco, che ha storicamente garantito un forte bipolarismo, quando non un vero e proprio bipartitismo, rischia ad oggi di non garantire alcuna maggioranza parlamentare. Le proiezioni danno infatti i Tories di poco avanti al New Labour, 280 seggi contro 265, circa 25 seggi per i LibDem, lo UKIP del polemista euroscettico Nigel Farage (con percentuali di voto attorno al 15%) aggiudicarsi meno di 5 seggi, 1 seggio per i Verdi, ed uno Scottish Indipendent Party fare man bassa dei 59 seggi scozzesi a quota 54. Pare definitivamente archiviata l’epoca del bipartitismo, dell’alternanza tra governi monocolore Conservatori o Laburisti. Già oggi in realtà il premier Cameron è a capo di un governo di coalizione con i Liberal-Democratici di Nick Clegg, ma lo scenario che si prevede fra qualche settimana è del tutto inedito. Le possibilità, per la coalizione uscente, di arrivare alla quota minima di 326 seggi e formare una maggioranza sono davvero basse. Le alternative sono entrambe delle incognite, una maggioranza arcobaleno o una “grande coalizione”  tra Conservatori e Laburisti. Che i due partiti abbiano perso lo smalto di un tempo è evidente. Ed Milliband e lo stesso Cameron non hanno ne le capacità di leadership, ne l’impeto riformatore di Blair e della Tatcher. Sicuramente scontano, presso l’opinione pubblica britannica, qualche compromesso di troppo con la mai digerita UE, tutto a favore dei partiti indipendentisti come SIP e UKIP. Sta di fatto che anche in questo caso la narrativa europea ha un peso. Non risulta strano perciò che in ambito comunitario girino ipotesi di Europa a due velocità, come rilanciato, in una recente intervista, anche dal ex Presidente del Consiglio Enrico Letta.
Per scongiurare destabilizzanti marce indietro che si chiamino “Brexit” o meno, l’Unione dovrebbe procedere ad un’integrazione politica maggiore per quanto riguarda i paesi dell’Eurozona, lasciando da parte chi ne è sempre voluto rimanere estraneo. Un messaggio per calmare le spinte indipendentiste, comunicando un cambio di passo europeo che di rimbalzo tranquillizzi i sudditi di sua maestà. Stando all’analisi politico elettorale anche queste elezioni sembrano confermare il trend evolutivo dei sistemi politici europei. I partiti appartenenti alle famiglie socialdemocratica e popolare hanno per decenni stabilizzato su un assetto bipolare le democrazie europee. Con sempre maggior evidenza quest’assetto pare stia vivendo una fase di mutamento. Questi partiti infatti, arrembati ai lati da un variegato spettro di formazioni neo populiste, chi più antisistema, chi con radici nelle culture radicali di destra e sinistra, si trovano ad occupare il centro dell’offerta politica su posizioni sempre più convergenti. Dove le leggi elettorali lo consentono, governi di grande coalizione sono ormai la soluzione più semplice per costruire una maggioranza, come dimostrano Italia (nonostante tutte le peculiarità del caso)e ancor meglio Germania e lo stesso accordo tra conservatori e socialisti dopo il voto europeo. Anche in Francia nonostante il doppio turno garantisca un formale bipolarismo, in sostanza si sta stabilizzando una fase tripolare. Il concretizzarsi di un accordo di governo tra i Tories e il Labour Party a Westminster non è, perciò, in alcun modo da scartare. Riuscirà l’Italicum a confutare il fatto che non si crea il bipolarismo con le leggi elettorali?

 Luca Scaglione

sabato 2 maggio 2015

L'Europa dei diritti: commento breve alla sentenza della CGUE sulla donazione del sangue da parte dei gay

- EDIZIONE STRAORDINARIA -


L'EUROPA DEI DIRITTI: COMMENTO BREVE ALLA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA SULLA DONAZIONE DEL SANGUE DA PARTE DEI GAY.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato, nella sentenza di cui alla causa C-528/13 del 29 aprile 2015, che è possibile limitare, se non addirittura escludere, la donazione del sangue da parte di soggetti omosessuali. E' una sentenza che certamente farà molto discutere, sia da un punto di vista giuridico che politico. Nel mio esame, mi atterrò esclusivamente a considerazioni giuridiche. Innanzi tutto, appare opportuno ripercorrere brevemente i fatti. Il 29 aprile 2009 un  medico dell’Istituto ematologico francese «EFS», ha rifiutato la donazione di sangue da parte di un cittadino francese, poiché quest'ultimo era omosessuale e il diritto francese esclude dalla donazione di sangue, in maniera permanente, gli uomini che hanno avuto o hanno rapporti sessuali con altri uomini. Di fronte a questo diniego,  il cittadino francese ha  contestato tale decisione rivolgendosi al giudice amministrativo di Strasburgo, il quale, a sua volta, si è rivolto alla Corte di giustizia chiedendo, in particolare, se ai sensi dell’allegato III della direttiva 2004/33, la circostanza che un uomo abbia rapporti omosessuali configuri, di per sé, un comportamento sessuale che espone al rischio di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili col sangue e che giustifica un’esclusione permanente dalla donazione di sangue per i soggetti che abbiano avuto un siffatto comportamento sessuale, oppure se tale circostanza possa semplicemente costituire, in funzione delle circostanze proprie del caso concreto, un comportamento sessuale che espone al rischio di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili col sangue e che giustifica un’esclusione temporanea dalla donazione di sangue per un determinato periodo di tempo dopo la cessazione del comportamento a rischio. Passiamo adesso ad  esaminare il quadro normativo rilevante. Preliminarmente, occorre evidenziare che siamo in presenza, tecnicamente,  di un cd. rinvio pregiudiziale, previsto dall'art. 267 del T.F.U.E., che dà al giudice nazionale la facoltà ( obbligo, se trattasi di giudice di ultima istanza, come può essere la Corte di Cassazione nel nostro ordinamento) di “ chiedere alla Corte di Giustizia una pronuncia sull'interpretazione ovvero sulla validità di una norma dell'Unione quando siffatta pronuncia sia necessaria per risolvere la controversia di cui è stato investito”.[1] Ciò al fine di rendere una interpretazione ed una applicazione del diritto dell'Unione che sia uniforme in tutti i Paesi membri, atteso che alla Corte di Giustizia spetta l'ultima parola in ordine all'interpretazione del diritto dell'Unione, con una competenza che può considerarsi esclusiva. Vale la pena, inoltre, ricordare che la sentenza interpretativa della Corte pronunciata su rinvio pregiudiziale vincola con tutta evidenza il giudice a quo, che dunque è tenuto a fare applicazione della norma dell'Unione così come interpretata dalla Corte.[2] Tuttavia, come ha più volte evidenziato la nostra Corte Costituzionale[3], la sentenza interpretativa della Corte di Giustizia può e all'occorrenza deve essere considerata anche al di fuori del contesto processuale che l'ha provocata, proprio perchè si pronuncia su punti di diritto; dal che deriva, che altri giudici, nonché le amministrazioni nazionali, saranno tenuti a fare applicazione delle norme così come interpretate dalla Corte, Fatta questa brevissima ma doverosa premessa, possiamo adesso esaminare il quadro normativo rilevante ai fini della decisione della Corte di Giustizia. L'esame riguarda, in particolare, la direttiva 2004/33/CE della Commissione, che applica, a sua volta,  la direttiva 2002/98/CE del Parlamento e del Consiglio, relativa a taluni requisiti tecnici del sangue e degli emocomponenti. In particolare, l'articolo 4, rubricato “ Idoneità dei donatori” prevede che “ I centri ematologici garantiscono che i donatori di sangue intero e di emocomponenti soddisfino i criteri di idoneità stabiliti dall'allegato III”. Al punto 2.1 del citato Allegato III, sono indicati i criteri di esclusione permanente di donazioni allogeniche, e tra questi è chiaramento indicato anche il “ comportamento sessuale” di quelle “ persone il cui comportamento sessuale le espone ad alto rischio di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili col sangue”. In applicazione di tale direttiva,  la normativa francese tende a considerare il fatto che un uomo abbia avuto o abbia un rapporto sessuale con un altro uomo come una presunzione assoluta di esposizione a un rischio elevato, indipendentemente dalle condizioni e dalla frequenza dei rapporti o delle pratiche osservate. La Corte premette che l’esclusione permanente dalla donazione di sangue prevista al punto 2.1 dell’allegato III della direttiva in esame riguarda le persone il cui comportamento sessuale le esponga ad un «alto rischio» di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili col sangue, mentre l’esclusione temporanea dalla donazione di sangue si riferisce ad un rischio di livello minore.
Quindi, per quanto riguarda la valutazione dell’esistenza di un rischio elevato di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili col sangue, occorre prendere in considerazione la situazione epidemiologica in Francia, la quale presenterebbe un carattere specifico, secondo quanto affermato dal governo francese e dalla Commissione che, si legge nella sentenza a commento,  “  fanno riferimento ai dati forniti dall’Institut de veille sanitaire français (Istituto francese di vigilanza sanitaria). Da tali dati si evincerebbe che la quasi totalità dei contagi da HIV, nel periodo compreso tra il 2003 e il 2008, è dovuta ad un rapporto sessuale e che gli uomini che hanno relazioni sessuali con persone del loro stesso sesso rappresentano la popolazione più colpita, corrispondente al 48% dei nuovi contagi. Nel corso dello stesso periodo, sebbene l’incidenza globale dell’infezione da HIV si sia ridotta, segnatamente per quanto riguarda i rapporti eterosessuali, essa non sarebbe diminuita per gli uomini che hanno relazioni sessuali con persone del loro stesso sesso. Inoltre, questi ultimi rappresentavano, sempre avuto riguardo al medesimo arco di tempo, la popolazione più colpita dal contagio da HIV, con un tasso annuo di incidenza dell’1%, che sarebbe 200 volte superiore a quello della popolazione eterosessuale francese. La Commissione si riferisce altresì ad una relazione stesa dal Centro Europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, istituito dal regolamento (CE) n.851/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004 (GU L142, pag.1). Secondo tale relazione, intitolata «Men who have sex with men (MSM), Monitoring implementation of the Dublin Declaration on Partnership to Fight HIV/AIDS in Europe and Central Asia: 2012 progress», pubblicata nell’ottobre del 2013, è in Francia che l’incidenza di HIV all’interno della categoria degli uomini che hanno avuto rapporti sessuali con persone del loro stesso sesso sarebbe la più elevata tra tutti gli Stati oggetto dello studio”.[4] Dai dati sulla situazione francese si evincerebbe che la quasi totalità dei contagi da HIV è dovuta ad un rapporto sessuale e che gli uomini che hanno relazioni sessuali con persone del loro stesso sesso rappresentano la popolazione più colpita, corrispondente al 48% dei nuovi contagi.
 Ma il punto di diritto di maggiore interesse affermato dalla Corte di Giustizia è che la limitazione ai diritti fondamentali deve rispondere al principio di proporzionalità[5]Ne deriva, pertanto, che il giudice nazionale dovrà  verificare l’affidabilità di tali dati e la loro rilevanza. Se il giudice dovesse concludere che le autorità nazionali hanno potuto ragionevolmente considerare che in Francia esista un alto rischio di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili col sangue, nel caso di un uomo che abbia avuto rapporti sessuali con un altro uomo, occorre verificare se, e a quali condizioni, una controindicazione permanente alla donazione di sangue, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, possa essere conforme ai diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento giuridico dell’ UE, tra cui il divieto, sotto qualsiasi forma, di discriminazione fondata, in particolare, sull’orientamento sessuale (art. 21 della Carta dei diritti fondamentali).
L’art. 52 della stessa Carta stabilisce che eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà devono essere previste dalla legge e  inoltre, che nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’UE o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. La Corte, inoltre, osserva che la direttiva 2004/33 attua la direttiva 2002/98 che ha come obiettivo la protezione della sanità pubblica. Nel caso di specie, l’esclusione permanente dalla donazione di sangue è volta a ridurre al minimo il rischio di trasmissione di una malattia infettiva ai riceventi, perseguendo così l’obiettivo generale di garantire un livello elevato di protezione della salute umana, che costituisce una finalità riconosciuta dall’Unione all’art. 152 CE e all’art. 35 della Carta. Per quanto riguarda il principio di proporzionalità, secondo la giurisprudenza della Corte, le misure previste dalla normativa nazionale non devono eccedere i limiti di ciò che è appropriato e necessario al conseguimento degli obiettivi legittimamente perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva tra esse e che gli inconvenienti causati non devono essere esorbitanti rispetto agli obiettivi perseguiti.[6] Riprendendo la formula dell'articolo 5 del TCE, la Corte di giustizia ha affermato, in altre pronunce,  che al fine di stabilire se una norma di diritto comunitario sia conforme al principio di proporzionalità, si deve accertare se i mezzi da essa contemplati siano idonei a conseguire lo scopo perseguito e non eccedano quanto è necessario per raggiungere detto scopo (v., in particolare, sentenza 9 novembre 1995, causa C-426/93, Germania/Consiglio dell'Unione europea).
Nel caso oggetto della pronuncia questo principio è rispettato solo se un elevato livello di protezione della salute dei riceventi non possa essere garantito mediante tecniche efficaci di ricerca dell’HIV e meno restrittive rispetto al divieto permanente della donazione di sangue per tutta la categoria costituita dagli uomini che hanno avuto rapporti omosessuali. In altri termini, occorre dimostrare che non sono disponibili metodi meno restrittivi dell’esclusione degli omosessuali. Pertanto, il giudice nazionale deve verificare se i progressi della scienza o della tecnica sanitaria, considerando in particolare i costi di una sistematica messa in quarantena delle donazioni provenienti dagli uomini che abbiano avuto rapporti sessuali con persone del loro stesso sesso o quelli di una ricerca sistematica dell’HIV per tutte le donazioni di sangue, consentano di garantire un livello elevato di protezione della salute dei riceventi, senza che l’onere che ne consegue sia esorbitante rispetto agli obiettivi di protezione della salute perseguiti. Quindi, se allo stato attuale della scienza, non esistano tecniche rispondenti alle condizioni per evitare la trasmissione ai riceventi di tale virus, una controindicazione permanente alla donazione di sangue per tutta la categoria costituita dagli uomini che abbiano avuto rapporti omosessuali è proporzionata solo nell’ipotesi in cui non esistano metodi meno restrittivi per garantire un livello elevato di protezione della salute dei riceventi.
A tal fine, al giudice del rinvio spetta verificare se il questionario e l’intervista personale a cura del personale sanitario, previsti dall’allegato II, parte B, punto 2, della direttiva 2004/33, possano consentire di identificare in modo più preciso i comportamenti che presentano un rischio per la salute dei riceventi, al fine di stabilire una controindicazione meno restrittiva rispetto ad una controindicazione permanente per tutta la categoria costituita dagli uomini che hanno avuto rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso.
In conclusione, secondo la Corte, l’esclusione permanente dalla donazione di sangue per uomini che abbiano avuto rapporti omosessuali può, alla luce della situazione in Francia, essere giustificata. Ciò in quanto è dimostrato, sulla base delle conoscenze e dei dati medici, scientifici ed epidemiologici attuali, che il comportamento sessuale omosessuale espone tali persone ad un alto rischio di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili col sangue e che, nel rispetto del principio di proporzionalità, non esistono tecniche efficaci di individuazione di queste malattie infettive o, in difetto di tali tecniche, metodi meno restrittivi rispetto ad una siffatta controindicazione per garantire un livello elevato di protezione della salute dei riceventi. Mi sia consentito, in conclusione, esprimere delle considerazioni di ordine giuridico-filosofico, che la lettura della sentenza in commento, mi spinge a fare in materia di diritti umani, oggi tanto conclamati. Ci hanno insegnato e noi continuiamo ad insegnarlo ai giovani studenti, che nella storia dell'evoluzione dei diritti umani, il Novecento è stato “l'età dei diritti” -  utilizzando una espressione tanto cara a Norberto Bobbio [7] -  che si protrae ed amplia in questo nuovo millennio, con  la  fase attuale di “specializzazione” o di “ terza generazione” dei diritti.[8] Ed essendo “l'età dei diritti” una tappa importante nel progresso morale dell'umanità, e che ha il suo fondamento nella Dichirazione Universale dei dititti dell'uomo del 1948, occorre chiedersi, assieme al filosofo del diritto Aldo Schiavello, se oggi non stiamo vivendo una “crisi” dell'età dei diritti. In particolare, considerato ormai superato ( rectius: dato per superato!) il tema del fondamento, giuridico e filosofico, dei diritti umani, tra cui, alla luce della sentenza in commento, il diritto alla non discriminazione sessuale, bisogna interrogarsi, allora,  sulla eccessiva indeteterminatezza e vaghezza del linguaggio dei diritti umani: interrogativo quanto mai attuale in ordine al significato del diritto di non discriminazione sessuale. Scrive, al riguardo Schiavello[9]: “Innanzitutto, il linguaggio dei diritti è indeterminato in quanto vago e generico; di conseguenza, l’attività interpretativa volta a individuare il significato o il contenuto dei diritti è caratterizzata da una discrezionalità molto ampia. Decidere di attribuire ad una disposizione che esprime un diritto un significato piuttosto che un altro richiede che ci si impegni in un’attività di tipo argomentativo-giustificativa che difficilmente può eludere la questione filosofica del fondamento. In secondo luogo, i diritti sono molti e, nel corso degli anni, con il proliferare delle dichiarazioni dei diritti, sono divenuti sempre di più. Ciò implica la possibilità di antinomie (se non in astratto, almeno in concreto) tra i diritti rivendicati da individui diversi. La molteplicità dei diritti produce dei problemi: quale diritto deve prevalere (a seguito di un bilanciamento)? Quale è il corretto contemperamento (ove possibile) dei diritti in conflitto? Anche in questo caso, il problema del fondamento è ineludibile”.Nel caso di specie, il problema delle antinomie senz'altro riguarda il diritto alla non discriminazione sessuale da un lato  ed il diritto alla salute pubblica dall'altro. Nel risolvere questa antinomia, la Corte ha applicato un principio , che è quello della proporzionalità, che ha imposto una scelta tra diritti fondamentali contrapposti. E nel bilanciamento della scelta, il diritto alla non discriminazione sessuale, considerato forse un diritto del “ singolo”, ha dovuto cedere il passo al diritto alla salute pubblica, elevato al rango di diritto “dei più”. Ciò non toglie, tuttavia, che rimane, immutato, l'interrogativo sul fondamento filosofico- giuridico di tale decisione. E nel pormi anch'io questo interrogativo, mi è venuto alla mente un altro autorevolissimo  filosofo del diritto palermitano, Francesco Viola[10], il quale sostiene che i diritti umani non sono diritti naturali, bensì “ diritti morali” positivizzati: in particolare, sostiene il Viola, mentre i diritti naturali sono diritti soggettivi individuali che attengono alla sfera politica, i diritti umani invece sono una connessione  tra un diritto morale e un qualsivoglia processo di positivizzazione. Affermare ciò, ossia che la morale è parte del diritto positivo,  mi porta alla mente  le famose parole di Immanuel  Kant, il quale,  nella sua Critica alla ragion pratica, così conclude: “ Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse:il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me “Con tutto ciò che, di positivo o negativo, può derivarne!

Dott. Rosario Fiore
Cultore di Diritto Sociale dell'Unione Europea ( Ius/02) e Diritto Internazionale (Ius/13) all'Università degli Studi di Palermo
Segretario e Direttore Generale I.ME.SI

Desidero ringraziare il Prof. Antonio Sinesio, Docente di Diritto Pubblico Comparato all'Università degli Studi di Palermo, per i preziosi suggerimenti; ringrazio,inoltre,  per la paziente collaborazione in sede di stesura e correzione, Marco Caradonna, Vice Direttore Generale  e Massimo Parisi, Direttore Dipartimento Studi Storici e Filosofici, I.ME.SI.




[1]Cfr. G. Tesauro, Diritto dell'Unione Europea, Sesta Edizione, CEDAM, pag. 310.
[2]In tal senso, Benedetti, 52/76, Sentenza 3 Febbraio 1977, Racc.p.163.
[3]Corte Cost., sent. 23 Aprile 1985 n. 113; Corte Cost. Sent. 18 Aprile 1991, n. 168; Corte Cost. Sent. 13 luglio 2007, n. 284.
[4] Cfr. i punti 42 e 43 della sentenza in commento.
[5]G. Tesauro, op.cit.
[6] Quanto al principio di proporzionalità v. sentenze ERG ea., C-379/08 e C-380/08, EU:C:2010:127, punto 86; Urbán, C-210/10, EU:C:2012:64, punto 24, nonché Texdata Software, C-418/11, EU:C:2013:588, punto 52)
[7]N. Bobbio, L'età dei diritti, Torino, 1989.
[8]Carlo Focarelli, Lezioni di Diritto Internazionale, I, CEDAM, pag. 342.
[9]A. Schiavello, La fine dell'età dei diritti, in Etica & Politica / Ethics & Politics, XV, 2013, 1, pp. 120-145.
[10]F.Viola, I diritti umani alla prova del diritto naturale, in “Persona y Derecho”, 1990, pp.101-128.