sabato 31 ottobre 2015

Il futuro della Siria si decide a Vienna

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Il futuro della Siria si decide a Vienna


Dall’inizio del conflitto, la Siria è passata dall’essere uno dei vari esempi di ‘’primavere arabe’’, ad uno dei teatri più sanguinari della regione mediorientale. Dal 2011 ad oggi, una situazione iniziale di grave guerra civile si è trasformata in una vera e propria guerra internazionalizzata, in cui i molteplici attori coinvolti sono spesso difficili da individuare così come è difficile decifrare la quantità di interessi che si intrecciano all’interno di un territorio che nella storia è sempre stato di elevata rilevanza strategica.  Dopo quattro anni, ieri e l’altro ieri, per la prima volta, i principali attori statali coinvolti direttamente o indirettamente nel conflitto siriano, si sono incontrati a Vienna, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per intraprendere un percorso diplomatico di risoluzione del conflitto. La notizia è stata comprensibilmente accolta con grande entusiasmo e speranza, in quanto, quella siriana, appare essere la crisi politica e umanitaria più grave dalla seconda guerra mondiale.

I numeri del conflitto:

L'Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR), con sede a Londra e fondato nel 2006, fornisce gli sconcertanti dati del conflitto siriano che ci aiutano a prendere coscienza della gravità della situazione. Dal 18 marzo 2011, data d'inizio del conflitto, fino al 15 ottobre 2015 il numero delle vittime è 250.124: i civili morti a causa della guerra sono stati 74.426, di cui 12.517 bambini e 8.062 donne. Il resto delle vittime sono combattenti. Tra questi 41.201 appartengono alle milizie curde e ai ribelli al regime, 37.010 ai combattenti jihadisti (che includono i foreign fighters provenienti da altri paesi arabi così come dall'Europa) e 91.678 alle forze appartenenti o a supporto del regime di Assad. Come se non bastasse, bisogna considerare anche tutti coloro che sono stati costretti a fuggire dal proprio Paese. Secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) dall’inizio del conflitto 12 milioni di siriani, il 60% della popolazione, sono stati costretti a lasciare le loro case. Di questi 8 milioni sono sfollati interni mentre sono 4,1 milioni i rifugiati in altri paesi. Di questi, 1.650.000 sono giunti in Libano, 800.000 in Giordania, 1.000.000 in Turchia, 400.000 in Iraq, 250.000 in Egitto e 348.000 nei vari stati dell’Unione Europea. Da questi numeri appare evidente come una soluzione del conflitto siriano sia di massima priorità per limitare il più possibile i danni provocati dai combattimenti ed evitare che tali numeri crescano ulteriormente.

I risultati dei negoziati di Vienna:

E' proprio nella capitale austriaca che ieri e l’altro ieri (29 – 30 Ottobre 2015) si sono dati appuntamento le delegazioni di 17 paesi: Russia, Stati Uniti, Iran, Cina, Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Giordania, Germania, Francia, Egitto, Italia, Gran Bretagna, Oman, Iraq e Libano, oltre all'inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura, e l'Alto rappresentante per la politica estera dell'UE, Federica Mogherini, per dare il via ai negoziati di pace per la Siria. Moltissime sono state le questioni sul tavolo, dal futuro del presidente Assad, all’integrità territoriale della Siria passando per le modalità di soluzione della crisi. Di certo questo incontro è solo l’inizio del processo di negoziazione per la pace in Siria, e aspettarsi svolte consistenti sarebbe ingenuo, ma quello che si è potuto evincere dalle dichiarazioni dei protagonisti, è sicuramente la volontà da parte delle parti in causa di trovare punti d’unione. Il capo della politica estera dell'Unione europea, Federica Mogherini, ha descritto i negoziati svoltisi a Vienna "storici" e "molto consistenti": "Abbiamo affrontato le principali questioni che erano sul tavolo [...] ma abbiamo trovato un terreno comune per continuare i colloqui", sottolineando che benché la riunione non sia stata "facile", ha avuto il merito di riunire "per la prima volta, tutti gli attori intorno a un tavolo e, direi, in un'atmosfera molto costruttiva [...] Quindi c'è speranza che si avvii un processo politico sotto gli auspici delle Nazioni Unite". Tuttavia rimangono differenze significative tra i punti di vista dei soggetti in causa. Il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius ha dichiarato: "Ci sono punti di disaccordo, ma siamo abbastanza avanti per incontrarci di nuovo, con la stessa configurazione, tra due settimane".
Il punto più spinoso appare essere quello che riguarda il Presidente Bashar al-Assad: “Il futuro di Assad non è in discussione - ha chiarito il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov - Solo il popolo siriano può decidere sul futuro politico di Assad”. Dichiarazioni che cozzano con quelle che nei giorni scorsi il direttore della Cia, John Brennan, aveva fatto in riferimento ai segnali lanciati dalla diplomazia russa dicendosi convinto che Mosca, a dispetto dalle apparenze, sta cercando di ottenere l’addio al potere del presidente siriano.”Malgrado quello che dicono, penso che i russi non vedono Assad con un ruolo nel futuro della Siria - ha detto Brennan - La questione è quando e come saranno in grado di farlo uscire di scena ” . Sicuramente i passi in avanti di questa ‘’due giorni viennese’’ sono evidenti, cominciando per esempio dalla fondamentale e storica presenza dell’Iran, alleato storico di Damasco. L’altro nodo cruciale è la presenza delle opposizioni politiche siriane (comprese quelle curde) al negoziato. Russi, americani, sauditi e turchi si sono scambiati le liste dei gruppi che potrebbero partecipare ai prossimi incontri. In teoria dovrebbero essere loro i protagonisti (e questa sì che sembra una vera e propria svolta) del prossimo round di incontri, atteso tra due settimane sempre a Vienna e affidato alla guida di Staffan de Mistura, inviato dell’Onu per la Siria. Il prodotto principale del summit di Vienna è sicuramente il documento in cui si articolano i nove punti in cui sono presenti i principi e le linee guida che orienteranno l’esito delle negoziazioni, eccoli:

1) Sono fondamentali l’unità della Siria, la sua indipendenza, la sua integrità territoriale e il suo carattere secolare.
2) Le istituzioni dello Stato resteranno intatte.
3) I diritti di tutti i siriani devono essere protetti senza distinzioni religiose o di appartenenza etnica.
4) È imperativo accelerare gli sforzi diplomatici per mettere fine alla guerra.
5) Si garantirà l’accesso umanitario a tutto il territorio e si aumenteranno gli sforzi per i rifugiati.
6) Bisogna sconfiggere l’Isis e altri gruppi terroristici.
7) Si chiede all’Onu di convocare rappresentanti del governo e dell’opposizione per avviare un processo politico che porti alla formazione di un governo credibile, inclusivo, non settario, che elabori una nuova Costituzione e convochi libere elezioni, supervisionate dall’Onu.
8) Questo processo politico deve essere diretto dai siriani e i siriani decideranno il futuro del loro Paese.
9) I Paesi partecipanti e l’Onu individueranno le modalità di un cessate il fuoco parallelo al processo politico.

Lorenzo Gagliano

giovedì 29 ottobre 2015

Quei maledetti cinquecento dollari: l'America a stelle, strisce e pistole

#Pensatopervoi

La rubrica settimanale con le nostre proposte

Quei maledetti cinquecento dollari: l'America a Stelle, Strisce e pistole



Cinquecento dollari o anche meno. Questa modica cifra è ciò che separa la vita dalla morte negli USA. Più o meno il costo di uno smartphone, di una borsa griffata o di un qualsiasi altro bene un/a giovane possa desiderare avendo a disposizione una somma del genere. Ma Chris, Adam e tanti altri hanno scelto un’arma da fuoco. Ormai da tempo si consumano stragi su stragi, bollettini di morte sempre più folti, ma il secondo emendamento della costituzione statunitense parla, purtroppo, chiaro: “A well regulated militia being necessary to the security of a free state, the right of the people to keep and bear arms shall not be infringed”. Lo scorso 1 ottobre l’ultima strage verificatasi dentro il college Umpqua Community di Roseburg, nello stato dell’Oregon, è solo l’evento in cima ad una folta black list di precedenti tragedie, per citarne alcune:

1 ottobre 2015 – 10 morti e 7 feriti in un campus a Roseburg, Oregon.

24 ottobre 2014 - Uno studente del liceo di Marysville apre il fuoco a scuola: un morto.

7 giugno 2013 - Spari in un college a Santa Monica: quattro vittime. Il responsabile si è poi suicidato.

4 dicembre 2012 - Un uomo di 20 anni uccide 26 persone, tra cui 20 bambini, nella scuola elementare Sandy Hook a Newtown (Connecticut).

8 dicembre 2011 - Il complesso del Virginia Tech, teatro del massacro del 2007, torna sulle prime pagine e l'America rivive un incubo. La sparatoria causa due morti, un agente e il killer.

14 febbraio 2008 - Un ex studente armato con due pistole ed un fucile irrompe in un'aula della Northern Illinois University ed apre il fuoco uccidendo cinque persone e ferendone una quindicina. Il killer poi si suicida

16 aprile 2007 - Uno studente di 23 anni d'origine coreana uccide 32 persone prima di suicidarsi al campus della Virginia Tech, a Blacksburg (Virginia). È il peggior massacro di questo tipo negli Stati Uniti.

2 ottobre 2006 - Un uomo prende in ostaggio alcuni studenti della scuola di Nickel Mines, un villaggio Amish della contea di Lancaster (Pennsylvania, Usa), fa uscire i ragazzi e lega le ragazze con funi e manette. Poi uccide cinque giovani alunne e ne ferisce altre cinque, infine si suicida.

21 marzo 2005 - A Red Lake (Minnesota) un adolescente di 16 anni uccide nella sua scuola nove persone, tra cui 5 studenti, e poi si suicida.

16 gennaio 2002 - In una piccola università in Virginia, uno studente straniero bocciato uccide a colpi di pistola il rettore, un insegnante ed una studentessa.

20 aprile 1999 - A Littleton (Colorado) due liceali aprono il fuoco nel liceo di Columbine, uccidendo 12 studenti e un insegnante. Poi si suicidano. Da questa strage prede vita il film di Michael Moore, Bowling a Columbine.

Il copione di queste violenti stragi è quasi sempre lo stesso: procuratosi, con non molti problemi, l’arma (o le armi), il killer da un previo avviso sui social di ciò che è in procinto di fare. Le motivazioni sono le più assurde: dalla bocciatura ad ideali rivoluzionari, passando per razzismo o addirittura fanatismo religioso. Solitamente, al termine della strage, il killer si suicida o muore nello scontro a fuoco con le autorità. Così accadde con Chris Harper Mercer, 26 anni, autore dell’ultima strage in Oregon. Il giovane si professava "conservatore repubblicano" e respingeva le "religioni organizzate". Mentre in un profilo MySpace comparirebbe una sua foto con un'arma e immagini propagandistiche pro Ira. Sul suo profilo facebook Chris aveva scritto “non andate al college”, proprio il giorno prima del tragico epilogo. Secondo Kortney Moore, una testimone oculare, l'assalitore sarebbe entrato nella classe chiedendo ai presenti di alzarsi e dichiarare la propria religione, prima di sparare. Non è chiaro però chi fossero gli obiettivi dell'azione. O, ancora, analogamente succede nel precedente caso del 4 dicembre 2012 , in cui Adam Lanza, 20 anni, uccide 26 persone, tra cui 20 bambini, nella scuola elementare Sandy Hook nel Connecticut. Di certo è una delle stragi più gravi e drammatiche compiute nelle scuole negli Stati Uniti e anche qui ricorrono elementi simili che caratterizzano anche il caso dell’Umpqua Community college dell’Oregon: eccessiva semplicità nel procurarsi un’arma, instabilità mentale, il suicidio dopo la strage. Quella delle armi negli USA è materia quanto mai attuale e quasi sempre tra i punti all’ordine del giorno nei discorsi del presidente Barack Obama, che si è sempre mostrato sensibile riguardo tale argomento, nonché fermo sostenitore dell’abolizione del secondo emendamento. Come mai – ci chiederemo – non è ancora cambiato nulla?

Dobbiamo innanzitutto precisare che spesso le armi utilizzate da questi giovani per compiere questi terribili gesti sono pistole la cui vendita era stata vietata nel 1994 con una legge promossa dall’allora presidente Bill Clinton. La legge aveva carattere temporaneo e sette anni dopo, nel 2001, l’amministrazione guidata da George W. Bush decise di non rinnovarla, dando ascolto alle richieste della National Rifle Association, la più importante lobby dei possessori di armi, e della maggioranza dell’elettorato americano, che sente ancora molto l’importanza di quanto sancito dalla Costituzione statunitense sul diritto di possedere un’arma. Notiamo, però, che sono state approvate a livello federale sette diverse leggi sul controllo e la regolamentazione del possesso di armi da parte dei cittadini statunitensi. Si va dal National Firearms Act del 1934 al Gun Free School Zone Act del 1995 passando per il Gun Control Act del 1968. Tuttavia rimane che in buona parte degli stati americani chiunque abbia più di 21 anni può acquistare una pistola, mentre i maggiori di 18 anni possono acquistare un fucile o un fucile a canna liscia. L’acquirente deve presentare un documento di identità per consentire a chi gli vende l’arma di registrare i suoi dati e associarli a quelli dell’arma, nulla di più. Il presidente Obama, dopo la strage nell’Oregon (verificatasi proprio nei giorni della discussione nelle aule di una riforma delle leggi sul possesso di armi), ha affermato, palesemente commosso: "Come Paese ci siamo passati troppe volte, abbiamo vissuto troppe tragedie come questa". Di fatto però non c’è nulla di nuovo, non cambia nulla se non nell'opinione pubblica americana. La popolazione statunitense sembrerebbe divisa a metà tra chi vuole la riforma e chi tende a conservarla, col timore che una modifica vada ad intaccare negativamente quel diritto di difesa tanto caro a molti americani (soprattutto a quelli “dal grilletto facile”). Nel frattempo, però, le armi continuano ad essere vendute con la stessa semplicità di sempre e le stragi si consumano con una maggiore frequenza ed irruenza. Riecheggiano, quasi prepotentemente, le parole spese dopo le stragi, alcune delle quali è dovere morale citare, come quelle dette da uno Sceriffo dell’Oregon dopo la strage dello scorso 1 ottobre nei confronti del killer deceduto: “Not to glorify and create sensationalism for him. He in no way deserves it”. Oppure quelle scritte in una lettera da Craig Scott, fratello di Rachel, uccisa nella strage del 20 aprile 1999 nel liceo di Columbine nel Colorado. A conclusione della lettera di perdono, indirizzata ai due deceduti autori della strage, Craig scrive: “Oggi io vi perdono perché so che odio crea solo odio, e io non posso permettervi di portarmi via il sorriso, già vi siete presi mia sorella. “
Wake up, USA!

Davide Spinnato

lunedì 26 ottobre 2015

Diploma in Studi Internazionali

Diploma in Studi Internazionali 

L'Istituto Mediterraneo di Studi Internazionali promuove la prima edizione del Diploma in "Studi Internazionali", un percorso di approfondimento delle principali tematiche internazionali rivolto agli studenti dei corsi di laurea triennale e specialistica e non solo.

La partecipazione al ciclo di seminari "Scenari di crisi" permetterà agli studenti di conseguire il Diploma in "Studi Internazionali". 

Il Diploma è articolato in 5 moduli di tre ore ciascuno. Un appuntamento al mese con docenti ed esperti delle maggiori tematiche internazionali.

Si inizia venerdì 6 Novembre ore 17:00 presso Palazzo Cefalà, via Alloro 99 Palermo.

La partecipazione al Diploma è gratuita.

Per iscriversi al diploma è necessario compilare il seguente form online:
Modulo iscrizione

Termine ultimo delle iscrizioni ore 12:00 del 6 Novembre

Calendario degli incontri:
·         Lo strano caso turco - 6 novembre
·         La crisi siriana: Putin e Obama due leader a confronto - 10 dicembre
·         2007 Financial meltdown: la crisi, l’Europa e l’euro - 14 gennaio
·         Muri d’Europa: da Ceuta a Budapest diritti negati - 4 febbraio
·         Il peso della religione: il conflitto isreaelo-palestinese - 10 marzo
·         Consegna diplomi - 7 aprile

martedì 20 ottobre 2015

Risvolti geopolitici di un conflitto internazionale: dentro la questione siriana

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


 Risvolti geopolitici di un conflitto internazionale: Dentro la questione siriana


Il conflitto siriano va contestualizzato all’interno della ‘guerra fredda’ per l’egemonia nel Golfo Persico (di fondamentale importanza geopolitica e geoenergetica) che vede opposte due potenze regionali con i loro alleati: Arabia Saudita e Iran. Tale conflitto pochi mesi dopo lo scoppio della rivolta ha subito un processo di internazionalizzazione: vi sono coinvolte le principali potenze regionali e mondiali e in Siria si sono riversati migliaia di miliziani jihadisti provenienti da decine di paesi diversi (attualmente l’autoproclamato califfato controlla una parte consistente del paese). L’incipit di un editoriale di “Limes” del 2013 fa proprio riferimento al fatto che in Siria «si combatte la prima guerra mondiale locale»[i] con il rischio che si possa trasformare in una «guerra mondiale mediorientale». Per tale ragione è impossibile analizzare il conflitto siriano e i risvolti geopolitici dell’ultimo periodo senza contestualizzarli all’interno delle complesse dinamiche mediorientali.
L’Arabia Saudita, interessata ad estendere la propria influenza politica e religiosa nella regione, punta a frantumare l’asse che unisce Iran, Siria, Hezbollah nel sud del Libano e il governo sciita irakeno; per tale ragione, congiuntamente con le altre monarchie del Golfo, ha sostenuto attivamente gruppi jihadisti per rovesciare il regime di Assad. La Turchia, vaneggiando ambizioni neo-ottomane, ha favorito indiscriminatamente l’ingresso di combattenti stranieri attraverso il confine turco-siriano. Le potenze occidentali – USA e Francia in testa –  hanno supportato i loro alleati regionali (è infatti noto, come ha puntualizzato lo stesso Kissinger, il legame spesso sottinteso che unisce Washington, Arabia Saudita e Israele[ii]), favorendo la destabilizzazione e la disintegrazione della Siria.
L’Arabia Saudita ha unito la storica alleanza con gli USA (basata sullo scambio petrolio/sicurezza) alla volontà di imporsi come leader del mondo islamico facendosi ‘garante’ manu miltari dello status quo nella regione, impegnandosi a frenare possibili contagi della cosiddetta “primavera araba” nella Penisola Arabica[iii]. In Bahrein (paese a maggioranza sciita) nel 2011 ha silenziato la nascitura ‘primavera’ mandando propri carri armati, timorosa di rivolgimenti politici ai propri confini; ha sostenuto nel 2013 il golpe in Egitto e ha recentemente assunto il ruolo guida della coalizione sunnita contro i ribelli Houthi (vicini all’Iran) in Yemen. Mentre in Siria e in Yemen ha agito in accordo con il Qatar (senza nascondere una certa rivalità[iv]), in Egitto e Libia le strade delle due petromonarchie si sono separate.
La formazione del cosiddetto califfato dell’IS è quindi diretta conseguenza del caos prodotto dalla guerra in Iraq (che ha incrementato lo scontro tra sunniti e sciiti) e del supporto più o meno diretto alla variegata galassia internazionale dei “ribelli”, finalizzato al rovesciamento del governo siriano (che ha visto unite in modalità differenti petromonarchie e potenze occidentali). Adesso l’IS, sfuggito di mano ai propri sponsor del Golfo, va sempre più configurandosi come un attore regionale potenzialmente destabilizzante a cui diversi gruppi si affiliano.
Gli Stati Uniti hanno preferito de facto una situazione di stallo senza vincitori né vinti nel conflitto che vede l’epicentro nel “Syraq”, piuttosto che favorire una vittoria schiacciante di una delle parti (più di due) in lotta. Una vittoria di Assad sarebbe innanzitutto una vittoria di Iran ed Hezbollah, acerrimi nemici dei principali alleati americani in Medio Oriente: sauditi e israeliani, già imbronciati per l’accordo sul nucleare iraniano. I molto blandi bombardamenti della coalizione a guida statunitense hanno infatti avuto al massimo il risultato di contenere l’IS, nulla di più.
Un filo rosso lega la crisi mediorientale a quella ucraina: il ritorno della Russia nello scenario internazionale avvenuto con la fermezza diplomatica mostrata da Putin nel conflitto siriano. Gli equilibri globali stanno mutando notevolmente: la straordinaria crescita della potenza cinese, la rinascita di una Russia rialzatasi dall’umiliazione subita negli anni di Eltsin (la storica francese Hélène Carrère d'Encausse ha parlato a tale proposito di «ritorno della potenza»[v]) e in generale l’ascesa dei Brics stanno configurando un assetto globale multipolare in cui l’egemonia statunitense è in fase declinante. In Medio Oriente la Russia si sta caratterizzando sempre più come un attore esterno di primo piano, capace di intessere relazioni diplomatiche costruttive con diversi Stati della regione e di incunearsi con un pragmatico realismo dove gli Stati Uniti perdono egemonia.  L’Iran ha mostrato pieno supporto ai raid “anti-Isis” della Russia e il governo  irakeno, evidentemente deluso dall’inconcludente coalizione a guida americana, si è mostrato anch’esso favorevole all’azione russa. Lo stesso Egitto di al-Sisi si sta destreggiando tra l’alleanza con l’Arabia Saudita e il riavvicinamento con Mosca; il ministro degli esteri egiziano ha infatti espresso il proprio supporto all’operazione militare del Cremlino. D’altra parte l’Egitto di al-Sisi vede nella fratellanza musulmana il principale nemico interno e questa politica si rispecchia anche negli scenari libico (dove ha forti interessi egemonici) e siriano.
L’attivismo diplomatico e il recente intervento militare della Russia nella questione siriana non si spiegano soltanto con la volontà di mantenere i residui dell’influenza sovietica nell’area mediterranea e mediorientale ma anche (soprattutto) con motivazioni strettamente legate all’unità della Federazione. La Russia teme un Medio Oriente caotico in cui organizzazioni jihadiste impazzano in territori ormai privi di statualità alle porte del Caucaso (in Siria affluiscono molti miliziani ceceni e il jihadismo di ritorno è un grave pericolo anche per la Russia).
Il Medio Oriente è un’area in deflagrazione in cui mire geopolitiche si uniscono a contrapposizioni politiche, settarie, tribali e territoriali. Le questioni geopolitiche e geoenergetiche prevalgono sul pur influente discorso settario (si pensi all’importanza strategica degli stretti di Hormuz e di Bab el-Mandeb). «Il conflitto attualmente in corso è tanto religioso quanto geopolitico» scrive Kissinger che ovviamente auspica un nuovo ordine regionale a guida americana[vi].
Quale sarà il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente nel futuro? Gli USA hanno adottato un atteggiamento altalenante e contraddittorio nel corso delle cosiddette “primavere arabe” messo bene in luce da Roberto Iannuzzi in “Geopolitica del collasso”. Iannuzzi puntualizza correttamente come il Medio Oriente continuerà ad essere la fonte petrolifera principale del pianeta, affermando che l’atteggiamento contradditorio di Washington è «il risultato di un declino dell’influenza americana e della sua minore capacità di plasmare gli eventi» e che tale declino è una conseguenza sia «della crisi economica in cui versa l’America, sia dell’esito disastroso delle guerre dell’era Bush in Iraq e Afghanistan»[vii].
Dopo la conclusione della parentesi eltsiniana e di ciò che essa rappresentava sia in politica interna che in politica estera, una Russia nuovamente attiva nello scenario mediorientale ha colmato i vuoti lasciati dalla superpotenza statunitense. Dai recenti eventi siriani emerge una conferma del riavvicinamento tra Russia ed Egitto, un rinsaldamento dell’intesa (non priva di competizione per l’influenza nella regione) russo-iraniana e un allontanamento con la Turchia, che certamente non vede di buon occhio l’agenda mediorientale di Mosca. Al solido asse Mosca-Damasco-Teheran si aggiungono quindi inaspettate nuove buone relazioni con Egitto e Iraq. E’ bene sottolineare che Russia e Iran non hanno mai escluso una transizione politica (che escluda i gruppi terroristici) in Siria con il consenso di Assad. Il punto fondamentale, come fa notare Alberto Negri, è il mantenimento delle strutture militari e di intelligence[viii], necessarie a garantire stabilità al paese che altrimenti rischierebbe di scivolare in una riedizione dello scenario libico. Anche la Cina (in modo maggiormente defilato) sostiene la Russia, con cui ha rafforzato una partnership non troppo stabile ma certamente inedita e in via di consolidamento. Immutate restano le velleitarie ma ugualmente distruttive ambizioni neocoloniali dei franco-britannici, evidentemente non sazi del disastro libico ad essi largamente imputabile.
Il mutamento degli equilibri in Medio Oriente e le implicazioni che ne derivano a livello globale rappresentano i primi ‘smottamenti’ post-unipolari di un mondo in via di cambiamento.
Benvenuti nel ventunesimo secolo.
Federico La Mattina

Note

[i] Vedi La perla di Lawrence, in «Limes, rivista italiana di geopolitica», 2/2013.
[ii] H. Kissinger, Ordine Mondiale, Milano, Mondadori, 2015, p. 134.
[iii] Per una sintetica storia del regno saudita si veda F. Petroni, Alla radice delle ossessioni arabo-saudite, in «Limes, rivista italiana di geopolitica», 9/2014.
[iv] Cfr. R. Soubrouillard, Il Qatar rientra nei ranghi, in «Limes, rivista italiana di geopolitica», 9/2013.
[v] H. Carrère d’Encausse, La Russia tra due mondi, Roma, Salerno editrice, 2011, p. 10.
[vi] H. Kissinger, Ordine Mondiale , op. cit. p. 145.
[vii] R. Iannuzzi, Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale, Roma, Castelvecchi, 2014, p. 264.
[viii] A. Negri, L’Iran potrebbe liquidare Assad, ma non gli alauiti, «Istituto per gli studi di politica internazionale», 06/10/2015.

venerdì 16 ottobre 2015

Ruanda: l'esilio dei poveri e il Lager di Gikondo

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni



 Ruanda: l'esilio dei poveri e il Lager di Gikondo 



A poco più di vent’anni dal genocidio, il Ruanda continua a far parlare di sé. La “Svizzera d’Africa”, come ama definirlo qualcuno, il paese che fa dell’ordine e della modernità i pilastri della propria politica, sembra nascondere in realtà un volto molto più inquietante di quanto si possa pensare. Fin dalla sua ascesa al potere, infatti, il Presidente della Repubblica Paul Kagame, ha promesso progresso e prosperità a un paese martoriato dalla guerra civile e dagli spargimenti di sangue; il progresso tuttavia ha un costo, direttamente proporzionale al beneficio che si cerca di ottenere e che, nel bene o nel male, va pagato. A pagarlo non è stato però Kagame, né la classe dirigente del paese, bensì la fascia più povera e misera della popolazione. 

Brulat diceva che nulla costa tanto come essere poveri, eppure al danno si è aggiunta la beffa e, oltre che poveri, in poco tempo i ruandesi si sono ritrovati emarginati, se non addirittura reclusi. Secondo le stime recentemente rese note da  Human Rights Watch  nel rapporto “Why not call this place a prison? Unlawful detention and ill treatment in Rwanda’s Gikondo Transit center”, nel centro di Kwa Kabuga, a Gikondo, dal 2011 al 2015 sono state detenute illegalmente più di mille persone, che il governo di Kigali ama definire gli “indesiderabili”. Queste cifre riguardano però soltanto il secondo periodo di attività del centro, che risulta aver ospitato centinaia di prostitute, senzatetto, orfani, disoccupati e chissà quanta altra gente disperata già dal 2005. 

Mentre le autorità hanno fatto tutto il possibile per presentare il centro di detenzione come un luogo sicuro, in cui la permanenza è di carattere temporaneo (centro di transito e sistemazione di breve periodo, lo definisce il Ministro della Giustizia Johnstone Busingye) e i cui scopi sono puramente rieducativi e riabilitativi, in realtà la viva voce degli intervistati rivela tutta un’altra verità. I cittadini, che possono rimanere nel centro anche per diversi mesi, denunciano violenze e maltrattamenti, oltre che condizioni igienico-sanitarie riprovevoli; non vengono neppure messi al corrente delle accuse loro rivolte o dei motivi che hanno causato la detenzione.

Lo scopo delle autorità sembra essere quello di “ripulire” il volto di Kigali, di eliminare qualunque elemento visto come una minaccia a un ordine apparente. Come afferma lo stesso direttore della sezione Africa di Human Rights Watch “Kigali viene spesso decantata per la sua pulizia e il suo ordine, ma la sua popolazione più povera sta pagando il prezzo di questa immagine positiva. Il contrasto tra le strade immacolate del centro di Kigali e le pessime condizioni di Gikondo non potrebbe essere più marcato”.

Ecco dunque il prezzo, ed ecco i benefici. Non resta che capire fino a che punto Kagame sia pronto a spingersi pur di reggere in piedi il suo sempre più fatiscente castello di carte. Quel che è certo è che scelte politiche azzardate e forzate hanno già dato vita in Ruanda a una delle pagine più tristi della storia del mondo moderno e le conseguenze di quei gravi avvenimenti continuano a far sentire ancora oggi il proprio peso, soprattutto attraverso la voce di una vasta sacca di popolazione insoddisfatta e in miseria. Può dunque un paese riprendersi da ferite tanto profonde semplicemente rimuovendo con un’operazione di defezione quasi chirurgica il “problema”? Confinare la miseria dentro quattro mura la renderà meno reale? La risposta sembrerebbe scontata; eppure, finché il centro di detenzione di Gikondo resterà in piedi, sarà la prova dell’ennesima visione distorta della politica di un paese in crisi latente.


Alessia Girgenti

mercoledì 14 ottobre 2015

La ruspa nel tempio: riflessioni giuridico - processuali sull'abusivismo nella Valle dei templi di Agrigento

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

La ruspa nel tempio: riflessioni giuridico - processuali sull'abusivismo nella Valle dei templi di Agrigento

 a cura dell'avvocato Rosario Fiore   


Un tema divenuto di rilievo nazionale è quello relativo all'abbattimento di opere abusive all'interno della Valle dei Templi di Agrigento. L'ordine di demolizione dell'opera abusiva viene adottato con provvedimento del Pubblico Ministero, che per legge deve dare esecuzione alle sentenze divenute irrevocabili. Partiamo dal qualificare giuridicamente l'ordine di demolizione contenuto in una sentenza penale irrevocabile. Al riguardo, la Suprema Corte di Cassazione, in una recente sua pronuncia, (CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 10/01/2012, Sentenza n. 190 ) ci insegna che “ secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte l'ordine di demolizione adottato dal giudice ai sensi dell'art. 7 legge 28 febbraio 1985, n. 47, al pari delle altre statuizioni contenute nella sentenza definitiva, è soggetto all'esecuzione nelle forme previste da codice di procedura penale, avendo natura di provvedimento giurisdizionale, ancorché applicativo di sanzione amministrativa".


L'ordine di demolizione, dunque, benchè contenuto in un provvedimento giurisdizionale, ha natura amministrativa: in virtù di questa sua consolidata qualificazione, l'ordine di demolizione di un manufatto abusivo viene eseguito anche a distanza di molto tempo da quando la sentenza penale è divenuta irrevocabile, anche quando ad esempio, col decorso del tempo di cui agli articoli 172-173 c.p., il reato si è estinto.


In buona sostanza, è prassi giudiziaria eseguire un ordine di demolizione anche in presenza di un reato ormai estinto per decorso del tempo, atteso che l'ordine di demolizione non ha natura di sanzione penale ma, come sopra evidenziato, ha natura amministrativa.

Questa impostazione, tuttavia, non è condivisibile. In una sua recentissima pronuncia, la Corte Europea dei diritti dell'uomo è ritornata sul tema del divieto del ne bis in idem, offrendo anche interessanti spunti di riflessione sulla natura sostanzialmente “penale” delle sanzioni amministrative: mi riferisco, in particolare, alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri e. Italia). In particolare, alla luce della prassi già consolidata, la Corte ha chiarito che è necessario considerare, per la qualificazione, tre criteri che hanno carattere alternativo e non cumulativo: la qualificazione giuridica della misura sul piano interno, la natura della misura ed il grado di severità della sanzione. Nella fattispecie che ci occupa, l'ordine di demolizione, incidendo pesantemente ed irrimediabilmente sulla proprietà di un soggetto, non può essere considerata mera “sanzione amministrativa”, in quanto è indubbio il suo carattere altamente punitivo, alla stregua di una vera e propria sanzione penale.

Se così è, ossia se si riconosce il carattare di sanzione penale all'ordine di demolizione, appare chiaro che lo stesso, ove si riferisca ad una sentenza di condanna la cui pena si è estinta per decorso del tempo, debba essere dichiarato estinto in guisa dell'articolo 172 c.p., poiché diversamente si avrebbe una violazione dell'art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, sottoscritto il 22.XI. 1984, e rubricato "Diritto di non essere giudicato o punito due volte". Come ben sappiamo, la Convenzione EDU è un complesso normativo pattizio, le cui norme si collocano nell'ordinamento interno in una posizione intermedia tra la Costituzione e la legge ordinaria: in tal senso, si ricorderanno le famose “sentenze gemelle” della Corte Costituzionale, nn. 348 e 349 del 2007, in cui la Corte, ben conscia delle incertezze che sin dalle sue prime pronunce hanno caratterizzato l’individuazione del rango della Cedu, afferma che la Cedu è una norma di rango “sub- costituzionale”, di rango cioè subordinato alla Costituzione, ma sopraordinato alla legge: in buona sostanza, la Cedu è una fonte interposta che rende concretamente operativo il parametro costituito dall’art. 117, I comma, la cui violazione costituisce presupposto per una declaratoria di illegittimità costituzionale di ogni norma interna ad essa contraria. Nel caso di specie, sarebbe viziata da illegittimità costituzionale la norma che prevede la possibilità per il giudice di ordinare la demolizione dell'abuso, senza specificare la natura “penalistico- sanzionatrice” dell'ordine medesimo. Ne deriva, ad avviso dello scrivente, che nell'eventuale incidente di esecuzione promosso innanzi al competente Tribunale ed in presenza di un reato estinto per decorso del tempo, il ricorrente potrà eccepire la illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma 9, del D.P.R. 380/2001, che ha sostituito l'articolo 7 della richiamata Legge 47/85, nella parte in cui non prevede, violando l'articolo 117 Costituzione, che l'ordine di demolizione contenuto nella sentenza di condanna è soggetto ai termini di estinzione ordinari di cui agli articoli 172 e 173 c.p.. Il Giudice dell'esecuzione, ravvisata la manifesta fondatezza della questione, previa sospensione dell'ordine di demolizione, investirà sul punto la Corte Costituzionale.