giovedì 21 luglio 2016

Francia, Turchia, Stati Uniti. Tre teatri di tragedia sui quali non dobbiamo far calare il sipario


Francia, Turchia, Stati Uniti. Tre teatri di tragedia sui quali non dobbiamo far calare il sipario se si vuole evitare che si rivelino anelli di una catena ancora lunga e dolorosa.


La Francia è stata nuovamente colpita da una strage di innocenti che malgrado il minuzioso lavorio investigativo presenta ancora punti oscuri e solleva in ogni caso interrogativi importanti. Due in particolare: il primo riguarda l’assassino la cui figura, malgrado i tentativi per dimostrare il contrario, risulta lontana dall’identikit del jihadista islamista e vicina invece a quelle di un criminale in erba, pieno di debiti, violento e vizioso, privo anche della più sottile patina di islamismo: una persona suscettibile di essere convinto a compiere un’azione anche rischiosa, ma magari no, da un’offerta (100mila euro) con la quale trovare una via d’uscita ai suoi problemi e riscattarsi agli occhi della sua famiglia. Mi soffermo su questa tesi che francamente vorrei vedere contraddetta dai fatti perché, se dovesse risultare consistente la strage di Nizza ci porrebbe di fronte ad un inedito: un attacco terroristico realizzato da un giovane “non attenzionato” dai servizi di sicurezza, uno qualunque, un anonimo, anonimo come il camion frigorifero, rivelatosi strumento di morte tanto imprevedibile proprio perché banale, quanto di efficacia terrificante con l’involontaria (ma colpevole) complicità di quanti non dovevano permetterne il passaggio in una zona pedonalizzata e stracolma di persone festose, distratte, tragicamente vulnerabili. 

La strage di Nizza non ci deve far sottovalutare un altro fatto: i fischi e gli insulti rivolti al primo ministro Valls durante la cerimonia di commemorazione, episodio del tutto inimmaginabile in terra di Francia che ci ha dato tutto il senso di un popolo stanco, impaurito, sfiduciato, che si chiede il perché dell’accanimento stragista contro la Francia, del perché del male oscuro che la attraversa e che ne vuole minare l’unità, quell’unità nazionale fatta anche di un processo di “assimilazione” di cui è andata orgogliosa per tanto tempo e che adesso appare incompiuto, discutibile, almeno per quanto riguarda le grandi periferie parigine e il sud del paese. E si risponde addebitandone la responsabilità alla sua attuale dirigenza politico-governativa e istituzionale. Un segnale che mescolandosi ai gesti di rabbia verso il punto nel quale è stato abbattuto l’assassino, offre preziosa linfa all’investimento politico identitario e nazionalistico di Marine Le Pen. E preoccupa. 


Anche gli Stati Uniti si trovano nuovamente feriti nella loro unità/identità nazionale, ma per ragioni diverse. Si trovano nuovamente bersaglio del fuoco di quella discriminazione razziale che solo ad uno sguardo superficiale poteva apparire ormai spento o in ogni caso in via di spegnimento. Con buona pace di otto anni di presidenza di Obama, il primo presidente nero della storia americana. In realtà, in questi ultimi anni erano emersi non pochi segnali di conflittualità razziale che avrebbero dovuto far suonare il campanello d’allarme della responsabilità politica per quell’originaria patologia americana. Ma sono stati trascurati, quasi fossero fenomeni occasionali, manifestazioni di carattere congiunturali e non fossero invece la spia di un male più profondo.


E adesso, nel giro di pochi giorni, la piaga della discriminazione si è riaperta in maniera allarmante, fino a raggiungere l’estremo della premeditazione, dell’imboscata omicida, a Baton rouge, in Louisiana, vittima questa volta la polizia. Nel seguire gli eventi sono stato colpito dall’espressione del Presidente Obama: vi ho visto un'ombra di impotente tristezza e di frustrazione dolorosa molto più scura di quanto le sue parole coraggiose e appassionate volessero trasmettere al popolo americano. Tanto più che nelle stesse ore, da Cleveland, quel popolo veniva investito dalle luci accecanti dell’aggressiva spregiudicatezza di Trump e consorte la cui esibita, irridente estraneità al sistema politico-istituzionale del paese sta dando inedita forza d’attrazione ai suoi richiami alla riconquista della perduta grandezza americana: via il linguaggio perbenista, via la retorica formale, via tutto ciò che sa di rito, di convenzione, di politicamente corretto, via alle paratie dell’intermediazione. E porte spalancate ad un rapporto diretto, quasi casalingo e come tale anche sgangherato e contraddittorio, tra leader e popolo. Populismo? Qualcosa di più e di diverso, forse premonitore anche per l’Europa.


Infine la Turchia dove il vero colpo di stato è in corso dal venerdì notte del 16 luglio e si sta consumando con una violenza e pesantezza raccapricciante ai danni non solo dei malaugurati responsabili e sodali della fallita sollevazione popolare, ma anche di quanti, molti più dei primi, risultavano annotati in chilometriche liste di proscrizione per i più diversi motivi di supposta o reale avversità al regime. Migliaia e migliaia di civili e di militari, una purga di massa di cui solo col tempo conosceremo le dimensioni e le sofferenze. 


In questi giorni Erdogan sta spillando gli assi del poker di quella partita del potere cui agogna da tempo. E si tratta di un potere che affonda ora i suoi pilastri in una gran parte della massa turca che si riconosce in un islam robustamente ancorato nelle moschee, e in un apparato civile, militare e giudiziario organicamente a lui asservito. E’ vero, con quest’operazione Erdogan è emerso più forte di sempre; almeno nel breve periodo. Ma è anche vero che quella parte consistente del paese che lo detestava anche prima adesso lo detesterà ancora di più e farà proseliti. Salvo che non cambi registro, come non pare sia orientato a fare Erdogan dovrà pertanto fare i conti con un paese percorso da fattori di tensione e di instabilità dall’esito imprevedibile; al di là della minaccia del PKK, destinata ad accentuarsi. 


L’Erdogan post-golpe vorrà certamente capitalizzare la sua maggior forza interna anche a livello internazionale e regionale. Ha subito voluto mostrare i muscoli con Washington accusandola neanche tanto velatamente di una qualche forma di vicinanza ai rivoltosi con la complicità del suo arci-nemico Fethullah Gülen, esiliato negli USA e di cui ha chiesto l’estradizione, ben sapendo che non l’otterrà mai. Così facendo ha indubbiamente alzato l’asticella del suo posizionamento nell’area, sunnita e sciita. Si è visto recapitare messaggi di solidarietà e appoggio da tutti gli autocrati della regione. A cominciare da Riyadh che gli sta riconsegnando l’addetto militare turco di cui Ankara ha chiesto l’estradizone.  Si è subito stabilito un contatto tra Erdogan e Putin, intenzionati più che mai a proseguire nel processo di riavvicinamento avviato nelle ultime settimane, con prevedibili riflessi anche sulla dinamica siriana e sulle ambizioni curde che il Sultano farà di tutto per frustrare. 

Criticità invece con l’Occidente, nella versione NATO, in quella dell’Unione europea e dei rispettivi paesi membri. 


Bene hanno fatto Merkel e Kerry a rivolgere fin da subito un fermo monito ad Ankara in tema di rispetto dello stato di diritto. E bene hanno fatto i ministri degli esteri dell’Unione europea a ribadire lo stesso concetto nel Consiglio di lunedì 18 luglio, in piena assonanza con Washington.  Meno bene hanno fatto a mio giudizio a indicare nell’eventuale reintroduzione della pena di morte una sorte di linea rossa da non valicare perché così facendo hanno in qualche modo accettato di non pronunciarsi in termini adeguati, cioè ultimativi, sulla strage della notte del 16 luglio e soprattutto sulla pratica della quotidiana violazione dei diritti della persona e della democrazia, precipitata a livelli inaccettabili proprio a partire da quella notte.  Non vorrei che pur di trattenere sul suolo turco i profughi siriani si sia disposti a chiudere un occhio di fronte alle tante nefandezze di cui veniamo progressivamente a conoscenza.


Armando Sanguini
Armando Sanguini è un Ambasciatore in pensione. Capo missione in Cile, Tunisia e Arabia saudita, è stato tra l'altro Direttore Generale per le relazioni culturali all'estero, gli Istituti di cultura e le scuole italiane e Rappresentante personale del Presidente del Consiglio per l'Africa.

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