martedì 30 giugno 2015

Cricca e corruzione: il "dagli all'untore" dei fanatici senza idee

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


Cricca e Corruzione: il "dagli all'Untore" dei fanatici senza idee





Tra le innumerevoli retoriche inflazionate nel linguaggio politico odierno ce n’è una particolarmente di maniera e sempre più trasversale che merita qualche riga: il discorso anti-casta/anti-corruzione. Qui per retorica si vuole intendere ciò che nel discorso pubblico può essere usato in modo pretestuoso, come un jolly del tutto scollegato dalla logica concatenazione dei concetti di una discussione minimamente dotata di senso. La seconda doverosa premessa riguarda il fatto che ovviamente nessuno vuole fare un elogio del malaffare o negare l’esistenza del problema. Si tratta di azzardare una breve analisi sull’utilizzo che si suole fare di argomenti come questo, che catturano facilmente la sensibilità del cittadino-elettore in quanto percepiti come particolarmente odiosi. Il discorso su cui si è concentrata maggiormente l’attenzione in quest’ottica è il modo in cui viene presentata la questione immigrazione da parte di molta destra nostrana, tacciata di “specularci” sopra, con metodo e linguaggio spesso politicamente scorretto e a volte razzista, addossando le più disparate colpe all’immigrazione incontrollata, e i peggiori crimini agli extracomunitari. Nulla (o quasi) di illegale, ma certamente qualcosa di molto remunerativo in termini elettorali in quanto il problema è sempre più sentito in tempi di crisi e incertezza come questi. La stessa analisi andrebbe però fatta nei confronti del riduzionismo legalitario del discorso anti-casta. Il problema esiste e, come sopra, è controproducente sottovalutarlo, ma è insopportabile il fervore giacobino con cui un accanimento nei confronti dei costi della politica, degli stipendi dei dipendenti delle camere, degli indagati in primo grado da inibire per tutte le cariche pubbliche e della piccola evasione fiscale di sopravvivenza viene visto come la soluzione alla più grande crisi economica del dopoguerra, la panacea per la disoccupazione e i sofferenti conti pubblici italiani. La percezione del fenomeno corruttivo in Italia è anch’essa in costante crescita, sebbene non sia di certo un fenomeno di nuova apparizione. Allo stesso modo in termini di corruzione accertata, non possiamo certo ritenerci inferiori ad altri paesi europei come la Germania, guru indiscusso della corruzione internazionale privata e protagonista di scandali di proporzioni gargantuesche. Basti pensare che in Grecia una parola in molti ambienti usata come sinonimo di corrotto è Siemens. Una retorica alimentata da una fetta sempre maggiore dell’informazione mainstream e dell’offerta politica, perché in effetti una bell’invettiva contro la corruzione è il modo più semplice per accattivarsi un uditorio, che dopo anni di angherie, è desideroso di vendetta contro chi non gli ha lasciato la propria parte del bottino, o al peggio, contro il capro espiatorio della crisi del paese. È spesso sottovalutato, inoltre, un effetto collaterale dell’abuso di tale discorso, quando da semplicemente anti-statale viene declinato in senso anti-nazionale. La reiterata (tutta nostrana) ostentazione dei problemi italiani a riscatto della propria, integra e protestante moralità individuale, sviluppa un complesso di inferiorità, ben nascosto dietro l’esterofilia, che contribuisce, qui si, alla corruzione (nel senso etimologico di sfaldamento, disfacimento) della comunità nazionale e dunque dell’autorevolezza del paese in ambito internazionale. In “Etica e Politica” Benedetto Croce scriveva, a ragione, che “La penetrante richiesta di onestà nella vita politica è l’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli”. Qualunquismo dato in pasto tanto ai “bravi ragazzi” ed ai “fanatici senza idee” degli anni dell’appiattimento politico, quanto ai “fedeli alla linea” dell’epoca dell’appartenenza. Il significato ultimo di un discorso pre-politico come questo, sta proprio nella possibilità di sfruttare un eccellente diversivo per non affrontare le questioni politiche davvero rilevanti,  probabilmente complesse, divisive e non d’immediato impatto. Il grado zero di un’informazione depoliticizzata e scandalistica, della cittadinanza ridotta a corpo elettorale da contendere a scadenza fissa e di una politica impotente che basa la costruzione del consenso solo sulla comunicazione e sull’immagine.
Luca Scaglione

lunedì 15 giugno 2015

Dove va il mondo arabo?

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Dove va il mondo arabo?

a cura del Prof. Paolo Branca, Università Cattolica del Sacro Cuore



Se Eric Hobsbawm ha potuto definire il XX° come un secolo ‘breve’ per l’Occidente – ridotto dal 1914 (inizio della I Guerra Mondiale) al 1991 (crollo del sistema sovietico) – un’analoga e ancor più drastica compressione temporale potrebbe essere ipotizzata per il Mondo Arabo, tra la firma del trattato Sykes-Picot (1916) e la bruciante sconfitta nella Guerra dei Sei giorni (1967). Come ogni periodizzazione, si tratta ovviamente di qualcosa di discutibile, e in questo caso forse persino di paradossale, se non altro per il dimezzamento del tempo storico. Ma il ciclo del nazionalismo arabo e delle sue immediate propaggini post-coloniali e ‘rivoluzionarie’ ha compiuto effettivamente un arco significativo tra queste due date e gli eventi ad esse collegati, in entrambi  i casi negativi  e legati alla sua natura ‘retorica’.  Il ‘tradimento’ delle aspettative degli alleati Arabi da parte anglo-francese fu reso possibile da una situazione sul campo assai distante dalle ancora immature rivendicazioni ‘nazionali’ delle aree interessate, mentre la disfatta contro Israele è andata di pari passo con l’ipertrofia di un discorso altisonante ma scarsamente radicato nella realtà socio-istituzionale. Allargando tuttavia lo spettro temporale per ricomprendervi la straordinaria rinascita (Nahda) culturale Araba prodottasi tra ‘800 e ‘900 e giungendo fino alle recenti Primavere Arabe, sia dal punto di vista intellettuale che da quello popolare, il bilancio delle realizzazioni compiute e delle energie in campo muta radicalmente e si emancipa dalle ristrettezze della fase inevitabilmente più ideologica del fenomeno. Il cosiddetto ‘Islam politico’, estraneo sia allo spirito della Nahda che a quella delle Primavere, non a caso mostra proprio ora tutti i suoi limiti, perché incapace di ricollegare almeno idealmente, ma soprattutto in prospettiva, due momenti salienti – uno più progettuale e l’altro più vitalistico o, se si vuole, un contenuto e le sue possibili forme – della storia moderna di quest’area: immensa orchestra che ancora attende di poter eseguire la propria Opera magistrale.

IL RISVEGLIO
Nell’800 e nella prima parte del '900, come gran parte dei paesi dell'Asia e dell'Africa, anche quelli arabo-islamici hanno vissuto l'intensa stagione della loro emancipazione politica. Il concetto stesso di nazionalismo, oltre alle forme assunte nella maggior parte dei casi dai movimenti che se ne fecero portavoce, era un prodotto del pensiero occidentale moderno. La sua affermazione presso popoli abituati a concepire i rapporti tra etnia, lingua e stato in altri termini non fu quindi del tutto priva di problemi. Nel mondo musulmano in particolare, dove l'appartenenza all'unica Umma si fondava essenzialmente su basi religiose, per un certo periodo l'ideale panislamico costituì un'alternativa alla penetrazione del nazionalismo. Non a caso i maggiori esponenti del radicalismo islamico hanno spesso richiamato la sostanziale incompatibilità tra nazionalismo e islam: "Il musulmano non ha altra patria che quella in cui vige la Legge di Dio (sharî`a) e dove i legami tra lui e gli altri sono fondati sulla base della dipendenza da Dio, egli non ha altra nazionalità che la sua fede, la quale lo rende membro della Umma musulmana, all'interno della Dimora dell'islam (Dâr al-Islâm) ed egli non ha parentela che quella che deriva dalla fede e che rende lui e i suoi parte di un'unica famiglia in Dio"[1]Nonostante ciò il nazionalismo finì per avere fortuna anche nei paesi islamici per diverse ragioni. Intere aree avevano infatti conservato nel corso dei secoli una propria specificità nella quale sussistevano molti elementi che potevano essere interpretati come costitutivi di una peculiare identità nazionale. Inoltre, con il progressivo indebolimento del potere centrale si era assistito alla rinascita di tradizioni letterarie e culturali locali che, pur non mettendo in discussione l'adesione alla Umma, rappresentavano la manifestazione più recente dell'antica insofferenza nei confronti vuoi di un'arabizzazione mai definitivamente compiuta (come nel caso dei persiani o dei berberi), vuoi dell'egemonia di una determinata etnia all'interno della Umma stessa (come nel caso degli arabi nei confronti dei turchi). Essendo infine parte integrante della cultura di quei paesi europei che stavano progressivamente mostrando la loro potenza e imponendo la propria egemonia sul resto del mondo, il nazionalismo sembrava il mezzo più adatto sia per mettersi alla scuola dell'Occidente nella speranza di colmare il distacco accumulato negli ultimi secoli, sia per affrontarlo in prospettiva sul suo stesso terreno. Le concezioni e gli ideali propri del nazionalismo hanno così fatto il loro ingresso anche nel mondo arabo e musulmano e sono stati paradossalmente tanto più assimilati da ciascun paese quanto maggiormente esso ha dovuto penare per vederli riconosciuti e realizzati grazie a un'aspra lotta per ottenere l'indipendenza proprio da quanti avevano contribuito a far conoscere e a diffondere quegli stessi concetti e ideali. L'ambiguità del rapporto con l'Occidente, ritenuto nello stesso tempo un modello e un ostacolo, ha origine appunto in questo paradosso, pur essendosi arricchita di altri fattori nel corso delle fasi successive. Queste ultime a loro volta non sarebbero comprensibili se non si tenesse conto del fatto che, per quanto innovativi, gli elementi provenienti dalla cultura occidentale non furono in grado di scalzare del tutto quelli tradizionali, né seppero amalgamarsi con essi in una sintesi compiuta, sovrapponendovisi piuttosto come un'ulteriore stratificazione tutto sommato piuttosto precaria.
La priorità dell'obiettivo della conquista dell'indipendenza fece sì che comunque la contraddizione restasse latente per un certo periodo, ma preso o tardi sarebbe risultato evidente che il nazionalismo comportava necessariamente anche una certa dose di laicizzazione: "poiché rappresenta un tentativo di separare l'islam dalla politica, escludendolo dalle questioni temporali. Esso postula la separazione tra religione e politica, tra religione e stato, o comunque nega all'islam la centralità del suo ruolo nella gestione degli affari politici terreni dei musulmani"[2]. Il fatto che tanti arabi cristiani abbiano contribuito alla fortuna di questo movimento parrebbe dimostrare che, almeno ai loro occhi, le nuove opportunità offerte da una comunità nazionale basata su criteri non confessionali non doveva sfuggire. Anche i movimenti islamici aderirono alla lotta anticoloniale, ma non avrebbero tardato a prendere le distanze dalle classi dirigenti che, all'indomani dell'indipendenza, dimostrarono il carattere laico dell'ideologia che le aveva portate alla vittoria. Si deve inoltre tener conto che, per quanto epica ed esaltante, la lotta di liberazione nazionale aveva ottenuto risultati soltanto parziali. Occorreva infatti renderla sostanziale con scelte che garantissero l'emancipazione economica, senza la quale quella politica sarebbe restata puramente formale, così come restavano irrisolte altre delicatissime questioni: il nazionalismo che aveva avuto ragione dei colonialisti non aveva paradossalmente allo stesso tempo legittimato proprio quelle entità territoriali che essi avevano creato spartendosi le spoglie dell'Impero Ottomano in vista dei loro interessi? Quali istanze avrebbero dovuto avere la precedenza nella politica dei nuovi stati indipendenti? Quelle che miravano al superamento di una condizione di frammentazione giudicata comunque innaturale con opzioni in chiave panarabista o addirittura panislamica? Oppure ulteriori autonomie avrebbero dovuto essere concesse a quei raggruppamenti che non avevano ancora goduto dei benefici della battaglia indipendentista (etnie, come berberi e curdi, o comunità religiose come drusi e maroniti)? In tal modo, come i movimenti islamici non avevano potuto non aderire alle campagne nazionaliste pur rifiutandone l'ideologia, dopo l'indipendenza i governi dei nuovi stati, nonostante la loro più o meno esplicitamente dichiarata laicità, si trovarono a fare appello all'islam come fattore di legittimazione e di coesione più efficace e sicuro di altri di fronte alla complessità e alla delicatezza della situazione che dovevano affrontare. Tra le numerose ed annose questioni che travagliano questa parte del mondo alcune sono veramente emblematiche: le incertezze e le incoerenze dell'appoggio fornito ai palestinesi dai loro "fratelli" arabi, ad esempio, sono forse la dimostrazione più dolorosa e lampante delle contraddizioni irrisolte dell'ideologia nazionalista la quale non a caso sarebbe entrata definitivamente in crisi proprio dopo la cocente sconfitta del '67. Mentre accumulava insuccessi e manteneva ambiguità irrisolte il nazionalismo perdeva progressivamente anche la sua maggior fonte di legittimazione: il prestigio di aver conquistato l'indipendenza. Se per gli adulti infatti quest'ultimo restava intatto, le nuove generazioni, non avendo memoria diretta di quegli eventi, avrebbero sentito maggiormente la delusione per le loro speranze disattese che la soddisfazione per i successi riportati, ormai troppo lontani nel tempo. L'importanza della stagione nazionalista non va però troppo ridimensionata, poiché sembra conservare comunque un valore non del tutto svilito. Non a caso gli esponenti dell'attuale radicalismo islamico si affannano molto di più nel contestare il valore del nazionalismo che non nel criticare le concezioni più tipiche della fase successiva, ossia quella rivoluzionaria. Quest'ultima infatti non ha interessato tutti i paesi arabo-musulmani, ma soltanto una parte di essi, è stata inoltre più breve e ha avuto un carattere più intellettuale ed elitario. D'altra parte, come l'ultimo scorcio del XX secolo sembra aver dimostrato con fin troppa evidenza anche in altre aree del mondo, tra le ideologie che lo hanno caratterizzato quella nazionalista non sembra la più indebolita, ma anzi quella capace di trarre alimento dalla crisi delle altre che appare molto più rovinosa e inarrestabile.

UNA RINASCITA ‘ABORTITA’
Le tendenze che ancor oggi si manifestano all'interno del mondo arabo non sono che le espressioni più recenti di un vasto processo di rinascita che si è prodotto negli ultimi due secoli. Tale Risorgimento (Nahda) sta alla base di tutte le correnti che si sono successivamente sviluppate, anche di quelle che, a un primo esame, sembrerebbero escludersi a vicenda. Proprio nelle ambiguità e nella polivalenza delle premesse poste durante la prima fase di questo "risveglio", trovano infatti un'unica origine tanto le posizioni di quanti sostengono la necessità di un sostanziale rinnovamento mediante l'emancipazione dalla tradizione anche su punti delicati ed essenziali, quanto quelle di coloro che, al contrario, di quella stessa tradizione intendono riproporre contenuti e forme, rifiutando ogni altro modello e concependo la "riforma" più come un "ripristino" di quanto è stato accantonato o inadeguatamente applicato che come un effettivo cambiamento, ambivalenza peraltro riscontrabile in ogni movimento modernista. La stagione più dinamica e creativa del pensiero musulmano coincise con i primi secoli del Califfato quando, in concomitanza con la sua grande espansione militare, l'islam seppe creare sintesi di ampio respiro tra i suoi valori e l'eredità delle tradizioni culturali che andava via via inglobando. Terminata questa fase, già prima dell'abbattimento degli Abbasidi da parte dei Mongoli nel 1258, si era assistito a un progressivo impoverimento ed irrigidimento dottrinale che accompagnò l'islam fino alle soglie dell'era moderna, con uno sviluppo inverso rispetto a quello conosciuto dall'Occidente cristiano.I primi segnali di rinnovamento si possono rintracciare già nel XVIII secolo, con l'anticipazione di alcune tematiche che sarebbero state riproposte sistematicamente dal successivo riformismo islamico. Ricordiamo a questo proposito il movimento dei Wahhabiti, fondato in Arabia da Muhammad ibn `Abd al-Wahhâb (1703-1792), esponente di un puritanesimo intransigente teso a riportare l'islam alla sua formulazione originaria, liberandolo da principi e pratiche di origine spuria che ne avevano alterato la purezza e indebolito la forza. La fortuna del Wahhabismo si deve alla sua alleanza con l'emergente dinastia saudita, ma al di fuori dell'Arabia la sua influenza fu assai limitata. La necessità di riformare l'islam riportandolo alle origini e la contestazione di alcune parti delle dottrine e delle pratiche tradizionali anticiparono comunque alcune tesi che successivamente avrebbero avuto grande fortuna. Qualcosa di analogo avvenne più o meno nello stesso periodo in Cirenaica, con il movimento dei Senussi. All'opposto dei Wahhabiti costoro non erano ostili alle pratiche mistiche, ma si organizzarono addirittura come una specie di confraternita. Il loro fine era tuttavia simile a quello dei puritani d'Arabia: essi infatti si proponevano di riprendere lo stile di vita austero e devoto dei primi credenti e rifuggivano l'esempio dei musulmani occidentalizzati che avevano abbandonato le antiche tradizioni e l’autentica dottrina islamica. Una trasformazione più profonda e generalizzata in grado di investire formulazioni dottrinali classiche e radicate tradizioni si ebbe però soltanto quando il più diretto confronto e scontro con l'Occidente, non più limitato soltanto o principalmente alla sfera politico-militare, condusse a una drammatica svolta. Si prese coscienza della necessità di acquisire nuove conoscenze e tecniche moderne, di rinnovare apparati e istituzioni e di sollevarsi dalla "stagnazione" (jumûd) che caratterizzava la vita culturale, ma ciò avvenne come d'improvviso e non al termine di un graduale processo evolutivo, quando la decadenza dell'Impero Ottomano e la politica espansionista delle potenze europee costrinsero i paesi arabo-musulmani a prender coscienza del loro "ritardo" in molti settori e dell'urgenza di porvi rimedio. La data che viene solitamente indicata come punto di partenza di questo processo è quella del 1798, corrispondente alla campagna di Bonaparte in Egitto. In realtà già l'Impero Ottomano aveva introdotto significative novità (come la stampa, nel 1727, e - a metà dello stesso secolo - la riforma dell'esercito) ma non si può negare che tale processo fu stimolato ed accelerato dalla presenza francese in Egitto e che esso continuò ad opera dei governanti e degli intellettuali locali anche dopo che quella ebbe fine. Il desiderio di acquisire le conoscenze e le tecniche che assicuravano ai paesi europei la superiorità determinò, negli anni successivi, l'invio da parte dei governatori d'Egitto a cominciare dal celebre Muhammad `Alî (1769-1849) di apposite missioni di studio che non limitarono il proprio interesse alle scienze, ma si appassionarono all'insieme della cultura occidentale e, una volta tornate in patria, furono determinati nella promozione di innovativi istituti di formazione, destinati a creare la futura classe dirigente alla quale furono offerti in arabo non soltanto manuali di studio, ma anche opere filosofiche e letterarie dei maggiori autori europei. Inestimabile fu il contributo dato in questo senso da un'apposita commissione presieduta da Rifâ`a al-Tahtâwî (1801-1873) il quale tradusse dal francese autori come Voltaire, Montesquieu e Fénelon e che ci ha lasciato un interessantissimo diario del suo lungo soggiorno parigino (1826-1831). In particolare egli si pose il problema della lingua, che doveva adeguarsi alla funzione di strumento di comunicazione di massa e dotarsi di un lessico rinnovato e di una struttura più elastica per poter esprimere nuove realtà. Il problema linguistico non si limitava alla pur centrale questione della diglossia (vale a dire la differenza tra la lingua scritta, rimasta fedele alle regole dell'arabo classico, e quella parlata) ma investiva altri importanti temi quali quello dell'evoluzione lessicale, avvertito con particolare acutezza da intellettuali di doppia formazione, come Salâma Mûsâ (1887-1958) che scrisse: "Non so come indicare in arabo i mobili che arredano la mia stanza, mentre non ho difficoltà a farlo in inglese"[3]. L'argomento non era del tutto nuovo, già al-Tahtâwî ne aveva trattato, sollevando anche delicati interrogativi sugli aspetti strutturali della lingua come veicolo efficace di trasmissione e di sviluppo del pensiero. Dalla consapevolezza teorica del problema si passò in seguito a nuove esperienze nel campo letterario. Ben lungi dal ridursi a un mero problema di aggiornamento lessicale, la questione metteva in discussione le stesse modalità tradizionali dell’argomentare: “L’incontro con l’Occidente moderno non ha determinato solamente un indispensabile arricchimento della terminologia nell’arabo e nelle lingue circostanti; era lo stesso modo canonico di esprimere il pensiero - affidato alla concatenazione di proposizioni scarsamente subordinate e mal disciplinato all’infuori della speculazione teologica e filosofica - che necessitava terribilmente di una riorganizzazione interna e di una sintassi più stringente per poter riflettere il mondo delle idee dell’Occidente moderno. Le difficoltà nel tradurre opere storiche o sociologiche in arabo non sono per esempio ancora state risolte, e ciò è dovuto non tanto a lacune lessicali quanto ad aspetti stilistici propri delle lingue occidentali che tendono a sfuggire alla sintassi araba”[4]. Così, una lingua famosa per la ricchezza dei sinonimi e che ne vanterebbe 500 per ‘leone’ e addirittura 1000 per ‘spada’ si trovò improvvisamente “povera” di fronte a nuove realtà. Tale aggettivo fu adoperato per qualificarla dal libanese Ibrâhîm al-Yâzijî sulle colonne di Hadîqat al-akhbâr (2/12/1858), dove si premurò di aggiungere: “Se qualcuno trovasse tale definizione saccente od offensiva verso l’intelligenza degli arabi, provi a prendersi la briga di tradurre il discorso di un membro del Parlamento britannico o ancor meglio provi a rendere in arabo il resoconto di una seduta, un pezzo sul teatro europeo, un saggio politico, una relazione commerciale e così via. Si troverebbe ad ogni frase come di fronte a una voragine dalla quale non potrebbe risalire se non con acrobazie linguistiche che lascerebbero sconcertato e in dubbio ogni lettore”. Si posero così le basi per la nascita di quell'arabo letterario "medio" che ancora oggi è utilizzato nella stampa quotidiana, nei libri e nelle riviste. Il ruolo dei giornali e della pubblicistica fu fondamentale nella sua genesi e nella sua evoluzionealla quale diedero un contributo inestimabile anche alcuni intellettuali cristiani, quali il linguista e lessicografo Butrus al-Bustânî (1819-1883) del Syrian Protestant College (fondato nel 1866 e divenuto nel 1919 l'American University di Beirut), il poligrafo Jurjî Zaydân (1861-1914), il poeta e pittore Khalîl Jubrân (1883-1931) (il Kahlil Gibran noto in occidente soprattutto per la celebre opera in versi Il Profeta, composta però in lingua inglese), lo scrittore Mikha'îl Nu`ayma (1889-1988) che, grazie al rapporto privilegiato che univa la Chiesa ortodossa libanese alla Russia, poté attingere anche alla tradizione slava, oltre che a quella anglosassone, e gli scientisti libanesi, tra i quali Farah Antûn (1874-1922), influenzato da autori quali B. de Saint-Pierre o A. Comte e traduttore di E. Renan e F. Nietzsche. Non meno significative furono le trasformazioni nel settore giuridico, dove modelli di stampo occidentale cominciarono a influire sulla codificazione del diritto, emancipandolo largamente dalle forme e dalle disposizioni tradizionali mediante un "processo di acculturazione che nel campo del diritto si è prevalentemente manifestato con la ricezione di modelli normativi stranieri"[5] già evidente nelle riforme avviate da Adbul Majîd I (1839-1861) nell'Impero Ottomano, le celebri Tanzîmât. Nel Maghreb, e più precisamente in Tunisia, si adoperò in tal senso particolarmente lo statista Khayr al-Dîn (1820-1889) il quale si avvide che l'acquisizione di tecniche e strumenti di guerra più aggiornati e perfezionati non avrebbe potuto garantire alla lunga l'indipendenza e lo sviluppo dei paesi arabo-musulmani se non fosse andata di pari passo con una radicale revisione del potere autocratico dei loro principi e con l'evoluzione delle istituzioni e delle finanze pubbliche sul modello dei moderni stati europei[6]L'apertura alle suggestioni del pensiero europeo, in questi e in altri settori, fu in un primo tempo entusiastica e incondizionata, ma la fase ricettiva non poteva durare a lungo in modo acritico, non soltanto a motivo del rischio di perdita d'identità che un simile processo comportava, ma anche a causa degli avvenimenti politici che vedevano nella politica di aggressione coloniale dell'Occidente il principale ostacolo sulla strada della realizzazione di quegli stessi ideali che il contatto con la cultura europea aveva contribuito a diffondere. Le tematiche del risveglio culturale, il recupero della propria tradizione, nella quale l'islam giocava un ruolo di primo piano, e l'anelito al riscatto politico presero dunque a muoversi di pari passo. Ciò è evidente già in Jamâl al-Dîn al-Afghânî (1838-1897), ispiratore di gran parte delle correnti innovative del pensiero musulmano moderno. Il grave stato di decadenza in cui versavano i paesi musulmani - a suo parere - non soltanto non era degno del loro glorioso passato, ma neppure conforme allo spirito genuino dell'islam che vede nel successo anche temporale un segno della propria autenticità e della benevolenza divina. Riprendendo una celebre affermazione coranica secondo la quale "Iddio non cambia il favore di cui ha favorito un popolo fin quando essi non cambiano quel che hanno in cuore" (VIII, 53; XIII, 11) al-Afghânî si fece impietoso censore di quegli atteggiamenti che avevano reso i musulmani corresponsabili della crisi che li affliggeva. L'ignoranza e la pedissequa imitazione della tradizione nelle sue formulazioni più tarde e decadenti; le divisioni interne alla Comunità che opponevano le une alle altre sette ed etnie chiamate invece ad essere solidali in nome della fede comune; il carattere dispotico del potere della maggior parte dei principi musulmani e la loro inclinazione verso le più opportunistiche alleanze furono oggetto della sua critica; ma non meno deciso e combattivo egli si dimostrò nel prendere le difese dell'islam nei confronti dei suoi detrattori. Ribattendo alla tesi espressa da Ernest Renan nella celebre conferenza tenuta alla Sorbona nel 1883 secondo la quale l'islam sarebbe "la negazione della scienza" al-Afghânî diede l'avvio a un filone apologetico destinato a svilupparsi enormemente negli anni successivi e che tenderà a dimostrare non soltanto la perfetta compatibilità tra scienza e fede, ma addirittura la superiorità dell'islam rispetto alle altre religioni quanto ad apertura verso le esigenze della razionalità, imputando i mali di cui il mondo musulmano soffriva anzitutto a un'incompleta o non corretta adesione agli ideali della propria fede da parte dei suoi stessi seguaci. Se da un lato si avvertiva dunque la necessità di svincolarsi dagli aspetti statici del pensiero religioso tradizionale e di una più generale maturazione, dall'altro cresceva la consapevolezza che proprio esso - benché diversamente interpretato - poteva fornire quegli elementi di continuità che garantissero la conservazione della propria identità in un momento di tanto vaste e radicali trasformazioni. Qualcosa di simile allo spirito della Riforma protestante si può rintracciare nel pensiero di al-Afghânî, il quale sosteneva la necessità di un contatto diretto con l'autorità della Scrittura (il Corano), senza fermarsi all'interpretazione tradizionale. Di qui la condanna dello spirito di "imitazione" (taqlîd) e l'invito a riaprire la "porta dell'ijtihâd", cioè dello "sforzo interpretativo" indebitamente interrotto ormai da molti secoli. Alcuni temi teologici, come quello del rapporto fede-opere e quindi la questione della predestinazione, così come fenomeni religiosi di rilevo, quali quello delle confraternite mistiche molto diffuse a livello popolare, venivano implicitamente messi in discussione da questo nuovo modo di vedere le cose. Chi sviluppò in tal senso lo spirito del riformismo musulmano fu soprattutto il dotto egiziano Muhammad `Abduh (1849-1905). Dopo una formazione tradizionale e il fondamentale incontro con al-Afghânî, di cui fu stretto collaboratore durante un breve esilio parigino, `Abduh si dedicò completamente agli studi e all'insegnamento. Ebbe così occasione di dare un importante contributo al rinnovamento del pensiero religioso islamico. Soprattutto nel suo celebre trattato teologico Risâlat al-tawhîd (Epistola sull'unicità divina) egli riprese lo spirito dell'antica scuola mu`tazilita (IX secolo) che si era adoperata per armonizzare su basi razionali il sapere scientifico - allora rappresentato dall'eredità della filosofia classica - e quello religioso. Nel pensiero di `Abduh l'accordo tra ragione e fede, lungi dal ridursi a un semplice argomento apologetico, sta alla base di un nuovo rapporto tra natura e rivelazione, con importanti conseguenze sul piano etico. Accordando all'uomo la capacità di conoscere da sé alcune fondamentali verità, prima che la rivelazione venga a completarle, egli ammetteva l'esistenza di una morale naturale, indispensabile alla rivalutazione della responsabilità individuale e contraria a ogni tendenza fatalista. Anche sul piano pratico `Abduh si distinse per iniziative coraggiose, come le riforme che propose per la moschea-università di al-Azhar relativamente sia ai contenuti degli insegnamenti (introduzione dello studio delle lingue straniere e di materie scientifiche) sia all'organizzazione della vita degli studenti (didattica, sussidi, alloggi...), e contribuendo coi suoi insegnamenti alla formazione di una nuova generazione di intellettuali destinati a giocare un ruolo di rilievo nelle future vicende del mondo arabo musulmano. Dopo la sua scomparsa, il movimento che a lui si rifaceva venne guidato dal siriano Rashîd Ridâ (1865-1935) e prese il nome di Salafiyya[7], con riferimento alle "prime generazioni" (salaf) di seguaci del Profeta che più fedelmente ne avevano seguito l'esempio attuando gli insegnamenti dell'islam. Questa stessa ambigua denominazione rivela come progressivamente, all'impulso realmente innovativo, si andava affiancando e talvolta sostituendo la tendenza a ripristinare l'islam nelle sue forme originarie, privilegiando il filone apologetico e revivalista che fu proprio anche dei primi movimenti islamici radicali, sorti appunto in quegli stessi anni, come quello dei Fratelli Musulmani.

LA RIVINCITA DI ALLAH
Da quanto si è detto fin qui emerge con chiarezza che sarebbe indebito considerare la religione un elemento ininfluente o marginale nel confronto in atto, benché si debba tener conto della complessità e della contraddittorietà delle motivazioni che portano il "discorso religioso" ad imporsi prepotentemente sulla scena.
I paesi arabi e, più in generale, l'intero mondo musulmano sembrano interessati da una progressiva crescita e affermazione di correnti e movimenti che puntano decisamente all'islamizzazione integrale della società, proponendo questa opzione come l'unica in grado si risolvere, insieme ai molti problemi che affliggono questa parte del mondo, la sua stessa crisi di identità e di rispondere all'ansia di riscatto che la pervade. Così facendo essi pretendono di riproporre semplicemente il giusto rapporto tra religione e politica che l'islam implicherebbe necessariamente e che sarebbe stato alla base della straordinaria espansione e fioritura dei secoli d'oro della civiltà musulmana. Fino a che punto questa ideologia si riallaccia effettivamente alla tradizione islamica e in che misura è invece una sua reinterpretazione funzionale a situazioni recenti e contingenti? Parole d'ordine e strategie dei gruppi che se ne fanno promotori appartengono veramente a un presunto modello islamico originario o riproducono in chiave religiosa qualcosa di analogo a quanto fino a poco tempo fa apparteneva ai movimenti di tipo nazionalista o rivoluzionario? Perché queste due ultime impostazioni, sino a ieri prevalenti, sembrano inesorabilmente entrate in crisi e quali sono i motivi della grande fortuna incontrata dal radicalismo musulmano che ne ha preso il posto? L’opzione islamica radicale è solamente una tra le varie possibili. Se così non fosse, dovremmo accettare l’idea che i musulmani siano “per loro natura” e “necessariamente” aggressivi e intolleranti, il che contrasta con il modus vivendi che essi hanno saputo quasi sempre - e in tempi non sospetti - trovare con altre fedi e culture, come è riconosciuto anche dagli studiosi solitamente meno ‘teneri’ nei confronti dell’islam: “Nella storia islamica non c’è nulla di paragonabile all’emancipazione, accettazione e integrazione di dei credenti di altre fedi e dei non credenti avvenuta in Occidente; ma parimenti non c’è nulla di paragonabile all’espulsione degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna, all’Inquisizione, agli autodafé, alle guerre di religione, per non parlare di più recenti crimini commessi o lasciati commettere. Ci furono casi di persecuzione, ma rari ed eccezionali. Entro certi limiti e a certe condizioni, i governi islamici erano disposti a tollerare l’osservanza, anche se non la diffusione, di altre religioni monoteistiche rivelate. Hanno superato anche una prova più difficile, quella di tollerare forme devianti della loro stessa religione. Perfino i politeisti, benché in teoria condannati dalla legge a scegliere fra conversione e schiavitù, furono in pratica tollerati quando il dominio islamico si estese alla maggior parte dell’India. Solo i miscredenti totali - gli agnostici o gli atei - erano al di là dei limiti della tolleranza, ma anche la loro espulsione veniva imposta solo quando il reato diventava pubblico e motivo di scandalo. Lo stesso criterio era applicato nel tollerare le forme devianti dell’Islam”[8]. E’ soprattutto oggi che, con il crescente numero di musulmani che il fenomeno delle migrazioni sta portando tra noi, essi sono percepiti con timore, come portatori di una visione del mondo antitetica e incompatibile rispetto a quella che siamo abituati a considerare tipica della modernità e universalmente valida. Dietro questa posizione si cela un insidioso rischio dal quale, se non altro per motivi di convenienza, sarebbe bene guardarsi. Considerare infatti i musulmani un blocco monolitico sotto il vessillo del fondamentalismo significherebbe dare a quest’ultimo l’immeritato titolo di rappresentante legittimo e ufficiale dell’intero islam. E’ esattamente ciò a cui punta, e in ciò potrebbero favorirlo proprio contrapposizioni frontali che finirebbero per indurre un compattamento del fronte musulmano. Che l’opzione islamica radicale sia presente, abbia numerosi esponenti o simpatizzanti e che sia per molti aspetti temibile non lo si può certo negare ed lo riconoscono anzi anche alcuni autori musulmani: “In effetti, oggi l’islam fa paura. E’ innegabile. [...] Ma si tratta di qualcosa di fatale, di un destino ineluttabile? [...] Il problema che sta di fronte al musulmano non è facile. Alle note difficoltà legate allo sviluppo si aggiunge il peso della tradizione e la pervasività della religione. Per superare o evitare l’ostacolo, molte formule sono state proposte e tentate. Alcune ammettono come postulato che l’islam sia un universo chiuso. Altre implicano l’inevitabilità dello sradicamento culturale. Lo sforzo maggiore è quello di coloro che rifiutano tali posizioni estreme tentando, da oltre un secolo, di realizzare una modernizzazione che non comporti né uno sradicamento, né l’isolamento dai propri simili. Se l’islam può darsi oggi un senso, di che altro si tratterà se non quello di realizzare una più ampia comunicazione tra gli uomini? Ogni autentico musulmano crede infatti che la sua religione si rivolge all’intero genere umano e che vale per ogni tempo e per ogni luogo. La sfida che gli lancia il mondo moderno è semplicemente quella di provarlo”. [9] Non apprezzare la peculiarità del presente momento storico e delle espressioni dell'islam che in esso si producono potrebbe condurre sia a una loro inadeguata o errata comprensione sia alla diffusione di una visione distorta dell'islam in quanto tale. Contro quest'ultima tendenza vanno in particolare gli sforzi di quanti, all'interno e all'esterno dell'islam, sottolineano le profonde differenze tra le attuali manifestazioni di questa religione e la sua Grande Tradizione[10]. Se tuttavia la pretesa che i movimenti musulmani radicali non siano altro che l'espressione diretta e quasi inevitabile dei presupposti stessi della fede islamica va rifiutata, il problema non può essere liquidato semplicemente rifugiandosi nella facile e illusoria consolazione offerta dall'immagine di un islam "classico" aperto e tollerante. Anche coloro che quest'ultimo giustamente evocano e ripropongono, notano opportunamente che uno scivolamento verso posizioni radicali non si è avuto soltanto in alcuni movimenti, ma nelle stesse istituzioni islamiche tradizionali: O. Carré parla espressamente di una "orthodossia deviante"[11] e N. H. Abû Zayd denuncia la sostanziale identità del "discorso religioso" sostenuto dai cosiddetti moderati (mu`tadilûn) non meno che dagli estremisti (mutatarrifûn). In conclusione si può constatare che le entità nazionali costituitesi dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano hanno progressivamente sempre più dovuto misurarsi con una ‘legittimazione religiosa’, mentre accumulavano ritardi e fallimenti sul piano politico e sociale, anche e forse soprattutto perché il soffocamento di ogni dibattito interno imposto da regimi dittatoriali prevalentemente ‘laici’ ha paradossalmente favorito la contestazione islamista come unica possibilità di opposizione efficace, per quanto demagogica, al proprio assolutismo.

A VOLTE RITORNANO
Nel 1924, dopo la sconfitta nella I guerra mondiale e la nascita della repubblica di Turchia, sia il Sultanato che il Califfato vennero aboliti anche e definitivamente ‘de iure’. I tempi erano infatti maturi per sanzionare ciò che di fatto era ormai una realtà, tant’è vero che già l’anno successivo usciva in Egitto un pamphlet destinato a far scalpore.  Si tratta di al-Islâm wa usûl al-hukm (L'islam e le basi del potere) di `Alî `Abd al-Râziq nel quale si sosteneva la necessità di introdurre una netta distinzione tra religione e politica poiché, secondo l'autore, la confusione tra i due campi è stata voluta dai detentori del potere soltanto in funzione dei loro propri interessi. Nel Corano e nell'insegnamento del Profeta non vi sarebbero infatti elementi sufficienti per sostenere che l'Islam porti necessariamente con sé una determinata organizzazione della società con una specifica forma di potere. L’opera, accanto a qualche consenso, suscitò soprattutto violente critiche e compromise la carriera dell'autore. Seguiva a ruota il corposo saggio di A. Sanhouri, Le Califat. Son Evolution vers une Societé des Nations Orientale, (Paris, Librairie Orientaliste P. Geuthner 1926) che rimproverava l’autore precedente di aver confuso la legittimità dell’istituto califfale con l’indegnità di chi l’ha talvolta assunto, ma soprattutto di pretendere di applicare al passato le concezioni contemporanee di ‘religione’ e ‘stato’, limitandosi a cercare nella storia ciò che potesse sostenere le sue tesi piuttosto che studiarla per com’è realmente stata e da tale analisi ricavare conclusioni fondate. A sua volta, tuttavia, Sanhouri terminava con una meno velleitaria proposta di restaurare l’appena defunta istituzione come una specie di Società delle Nazioni musulmane con una vena di panislamismo desinato a essere invece travolto dai nuovi e robusti movimenti nazionalistici. Qualcosa di simile era del resto apparso sulla rivista cairota al-Manàr già nel 1922 ad opera del direttore, il siriano Rashid Rida (trad. franc. H. Laoust, Le Califat dans la docrtine de Rashid Rida, Mémoires del l’Institut Français de Damas, 1938) il quale si mosse in una linea riformista assai più prudente rispetto al suo maestro Muhammad ‘Abduh (m. 1905) e non esitò a esprimersi sul tema in questi termini: “La situazione è talmente stravolta che molti uomini di stato, leaders militari e politici, pensano che le istituzioni islamiche, fra cui il Califfato, son responsabili dell’attuale decadenza e che i musulmani che le conservassero non potrebbero diventare una nazione ricca e potente, mentre è vero esattamente il contrario” (p. 116).  Non a caso anche la nascita del movimento dei Fratelli Musulmani (1928) risale al medesimo periodo, benché in parte l’ideologia e la prassi da esso seguite non possono essere ridotte a una semplice rivendicazione del Califfato. Lo shock della venuta meno di quest’ultimo non mancò probabilmente di affrettarne e favorirne l’espansione, ma ormai in un’agenda che aveva ben altre priorità, prima fra tutte la liberazione dal colonialismo. Una volta raggiunto tale obiettivo, tuttavia, emerse prepotentemente il conflitto fra le visioni di altri che vi avevano contribuito e quella di coloro che più meno esplicitamente miravano all’istituzione do uno Stato islamico. Per un certo periodo la querelle si incentrò sull’applicazione della sharî’a, anche se ben presto alcuni importanti teorici giunsero a definire indispensabile la presa del potere come condizione imprescindibile per la realizzazione di tale scopo. Come, dunque, e perché si sia giunti solo ora a pretendere la restaurazione del Califfato, forse non assente tra quanto a lungo vagheggiato, ma mai individuato almeno come obiettivo programmatico realizzabile a breve termine resta un problema da chiarire. Anzitutto va tenuto conto che il fenomeno del terrorismo di matrice islamica, benché abbia scelto bersagli simbolici anche in Occidente, non è tanto ingenuo da poter pretendere di sconfiggere direttamente la superpotenza americana né Israele, ma ha sempre mirato piuttosto a una destabilizzazione a danno dei vari regimi arabi e islamici. L’acuirsi della tensione fra sunniti e sciiti e la degenerazione della situazione irachena e siriana verso una vera e propria guerra civile ne sono la più eloquente dimostrazione. Il caos seguito al periodo delle cosiddette ‘primavere arabe’ ha interessato proprio principalmente questi due paesi che da un lato sono stati le sedi storiche del Califfato omayyade di Damasco e di quello abbaside di Baghdad e dall’altro sono emersi come entità statuali proprio un secolo fa con la I Guerra Mondiale, il dissolvimento dell’Impero Ottomano e l’iniqua spartizione dei territori arabi tra Francia e Gran Bretagna in forza degli accordi segreti Sykes-Picot, concordati proprio mentre Lawrence d’Arabia ne convinceva i governanti all’alleanza coi futuri vincitori a danno dei turchi e dello schieramento di cui questi ultimi facevano parte. L’instabilità della regione, in cui si sono accumulate ed esasperate tensioni d’ogni genere – quasi fosse una valvola di sfogo di più ampi conflitti geo-strategici -, con il collasso repentino di molti regimi e proprio all’approssimarsi del primo centenario della Grande Guerra che ne ha prodotto una partizione in stati nazionali moderni spesso male impostati e ancor peggio digeriti, vede in attori locali improvvisati, e forse in qualche apprendista stregone della politica internazionale, gli impresari di una velleitaria ristrutturazione nella quale le identità etnico-religiose tornino a rappresentare i nuclei attorno ai quali coagulare forme di lealtà e di legittimazione che altre ricette non  hanno saputo garantire.
Un’occasione troppo ghiotta per ottenere in un sol colpo numerosi vantaggi:
-   a. La liquidazione del nazionalismo arabo, o di quel che ne resta, nonostante i suoi meriti nell’ottenimento dell’indipendenza dalle potenze coloniali, denunciandone l’origine allogena e quindi illegittima, se non addirittura perniciosa per aver favorito uno spezzettamento della grande Umma in entità fragili e litigiose;
-  b. La messa in stato d’accusa di tutti i regimi che si sono da allora succeduti, collusi con le potenze straniere e responsabili della svendita della causa araba e dell’orgoglio islamico cui sarebbe stato impedito scientemente e sistematicamente di ritornare agli antichi splendori;
-  c. Lo scavalcamento di tutta la galassia di movimenti islamisti che negli ultimi decenni hanno in vari modi ‘accettato’ di intraprendere una sorta di lunga marcia nelle istituzioni, rinunciando alla lotta armata o comunque riducendola, colpevoli di tradimento anche e forse soprattutto per esser scesi a patti con il ‘sistema’ almeno formalmente e gradualmente indirizzato verso una pluralizzazione delle forze politiche e sociali chiamate a confrontarsi all’interno di una competizione politica ispirata ai modelli dell’odiato Occidente;
- d. L’intercettazione di un certo numero di militanti delusi e scoraggiati in forza sia di un programma di mobilitazione senza tentennamenti, sia del collegamento con simboli forse arcaici ma appunto per questo meno usurati dalla globalizzazione e dalla crisi economica che han tolto smalto a tutte le ideologie più recenti, sia infine ad un abile e spregiudicata campagna mediatica che unisce l’utilizzo degli strumenti tecnologici più raffinati al recupero di antichissime attese messianiche che parlano degli stendardi neri dei combattenti musulmani provenienti da est prima della fine dei tempi e dell’avvento dell’atteso Mahdi, la versione musulmana del Messia. 

Ogni forma di governo che non dipenda direttamente dalle norme islamiche sarebbe priva di qualsiasi legittimità. Non si tratta certamente di un argomento nuovo, basti pensare (oltre ai già ciati kharijiti) che persino il Califfato Omayyade di Damasco (terminato del 750 d.C.) fu accusato di essere solo una forma di potere (mulk) e di essersi distaccato dalla prassi corretta improntata alla religione (dīn) dei primi quattro Califfi ‘ben diretti’. Ma è soltanto nell’epoca più recente che l’anatema (takfīr) rivolto all’intera società ritenuta ‘non più musulmana’ o ‘apostata’ ha cercato di giustificare il ricorso al terrorismo che colpisce indiscriminatamente anche innumerevoli civili innocenti. Nessun compromesso sembra pertanto possibile, come del resto è stato ribadito dal portavoce dell’IS Abu Muhammad al-Adnani al-Shami nella lettera aperta resa nota all’inizio del mese di Ramadan 2014 (https://sites.google.com/site/islam201407260145/miscellaneous-files/archive-for-al-hayat-media-center/translated-official-speeches/-this-is-the-promise-of-allah---sh-abu-muhammad-al--adnani) nella quale ogni autorità salvo quella califfale sarebbe “un semplice regno, frutto di conquista e di conseguenza foriero di distruzione, corruzione, ingiustizia, terrore e riduzione dell’essere umano al livello animale”. Nella stessa missiva si annunciava tra l’altro la modifica dell’acronimo ISIS semplicemente in IS, unica forma di Stato ammissibile per i credenti non fuorviati da “democrazia, laicità o nazionalismo”, perciò invitati a riconoscersi in esso e a schierarsi dalla sua parte. Con le recenti sollevazioni che in molti paesi arabi hanno condotto alla fine di regimi autoritari e corrotti abbiamo visto grandi masse mobilitarsi in nome di princìpi e valori che ritenevamo estranei o comunque lontani dalla sensibilità di popolazioni in gran parte musulmane. Anche l'assenza di slogan anti-occidentali od ostili all'imperialismo, al neocolonialismo e al sionismo hanno sorpreso non pochi osservatori, e chi ha potuto seguire più da vicino e in lingua originale il dibattito che si è aperto in quei giorni ha avuto occasione di constatare che esso verteva anche su neologismi altamente significativi. Il concetto di laicità, infatti, comunemente espresso in arabo col termine 'ilmāniyya (da 'ilm, 'scienza', o da 'ālam, 'mondo'), fortemente dipendente da concezioni appunto razionaliste o secolariste tipicamente europee e un po' 'datate', è stato sostituito dal temine madaniyya (unito a dawla, cioè 'stato') che significa 'civile', non soltanto contrapposto a 'militare', ma anche a 'clericale' o 'religioso' in senso confessionale. Ciò spiega, tra l'altro, anche la decisa partecipazione alle proteste sia di cristiani arabi sia di musulmani non radicali. Il fatto che, specialmente in Tunisia e in Egitto, si sia passati alla vittoria di movimenti islamisti alla prima tornata elettorale sembrerebbe contraddittorio, ma era in parte inevitabile che ne approfittassero inizialmente quei movimenti già esistenti e radicati nel territorio che hanno a lungo  rappresentato l’unica forza di opposizione organizzata in quei Paesi. Il processo di trasformazione iniziatosi con le 'primavere arabe'  ha dunque contribuito a un’emersione ancor più evidente di molti nodi irrisolti piuttosto che alla loro soluzione. Si sono manifestate così dinamiche finora represse o sottostimate che potrebbero ancora dar frutto nel medio periodo. Ne sono una prova alcune provocazioni che esponenti dei gruppi più tradizionalisti hanno osato manifestare e che, pur nel loro carattere paradossale o forse proprio grazie ad esso, pongono in questione alcuni punti cruciali e dirimenti rispetto alla posizione dei singoli e dei gruppi circa uno stato moderno e rispettoso dei diritti umani dei suoi stessi cittadini. Il presunto ritorno all'applicazione integrale e intransigente della cosiddetta legge islamica, che mai è stata codificata e si è configurata piuttosto come una giurisprudenza che come un diritto positivo, ha rappresentato il pretesto per qualcuno non solo di proporre il ripristino (come ad es. in Tunisia dov'era vietata) della poligamia, ma addirittura del concubinato. Il Corano, come del resto la Bibbia, registrano infatti  la schiavitù come una prassi che tentano di moderare nelle sue manifestazioni estreme, ma non vietano esplicitamente. E' chiaro che lo status di 'non mogli' legalmente ammissibili dipenderebbe da una reintroduzione della schiavitù, cosa non immediatamente percepibile né apertamente rivendicata dai sostenitori di questa restaurazione, in quanto improponibile anche alla sensibilità dei loro stessi sostenitori... Analogamente, quando si giunge a proporre di ritornare alla tassa di sottomissione da parte delle minoranze cristiane o d'altra fede, è implicita una regressione verso epoche e stili di vita di carattere feudale, dove la mancanza di uno stato di diritto poteva far concepire come legittimo uno status di cittadinanza di serie B per i seguaci di religioni diverse da quella dominante, dispensati dal servizio militare ad esempio, e proprio per questo tenuti a compensare tale 'privilegio' con uno speciale tributo. Quando certa propaganda si ostina a considerare l'Islam in se stesso incompatibile con la democrazia in quanto 'teocratico', commette due errori fondamentali: il primo è quello appunto di usare un termine errato, in quanto il vero rischio in ambito musulmano non è quello della teocrazia ma del cesaropapismo, essendo il potere politico a strumentalizzare la religione e non viceversa (almeno in campo sunnita, che rappresenta circa il 90% del mondo islamico), il secondo è quello di dare per scontato che tutti i musulmani ritengano giusto se non indispensabile reintrodurre le norme mutuate dalle fonti tradizionali, ignorando che molto probabilmente gran parte di loro riterrebbe inconcepibile tornare alla schiavitù o alla discriminazione delle minoranze religiose una volta posta chiaramente di fronte a tale prospettiva. Resta tuttavia evidente che la gestione piuttosto fallimentare del consenso ottenuto dai gruppi islamici radicali ‘storici’ in casi come quello dell’Egitto possono aver contribuito a un ritorno di fiamma favorevole ai movimenti oltranzisti ed eversivi quali appunto l’IS. Infine, ma non meno importante, è l’atmosfera apocalittica che si è rafforzata: il caos dominante quasi ovunque e la consapevolezza di vivere un periodo di profonda crisi porta fatalmente alla ribalta simboli e slogan da ‘fine del mondo’. Lo stesso stendardo nero del neo-Califfato è collegato nella lettera poco fa menzionata a quello che i veri credenti innalzeranno in prossimità del Giudizio finale per ‘passarlo al Messia’ nello scontro decisivo fra le forze del bene e del male. Quanto tale amalgama di catastrofismo e di attese epocali possa attrarre militanti sia dall’interno del mondo islamico sia da altrove è intuibile, benché forse il fenomeno dei foreing fighters abbia una rilevanza più simbolica e mediatica che effettiva. Il 19 settembre 2014 oltre centoventi sapienti musulmani hanno reso nota una ‘lettera aperta’ indirizzata al neo auto-dichiarato Califfo, significativamente nota con un titolo che non vi appare You Don’t Understand Islam. Il testo tenta di confutare le argomentazioni del ‘discorso d’insediamento’ di al-Baghdadi con ampio ricorso a versetti coranici e detti profetici. Se da un lato ciò è stato in qualche misura inevitabile, dall’altro mostra quanto lo pseudo-Califfo abbia costretto i suoi avversari a confrontarsi con lui sul medesimo terreno, il che è già di per sé emblematico. Un conflitto sull’interpretazione delle Fonti rivela infatti da un lato quanto esse siano ancora potenti, ma dall’altro manifesta anche una spaventosa carenza di elaborazione di un discorso politico alternativo, esito di una stagnazione e perfino di una regressione intellettuale quanto mai perniciosa. E’ tuttavia rilevante che molte prassi dell’IS siano state condannate proprio in forza di quelle fonti, come l’uccisione di civili innocenti e disarmati o di emissari diplomatici, l’inammissibile ‘scomunica’ di altri musulmani, il mancato rispetto per le minoranze religiose, le conversioni forzate, l’indiscriminata applicazione di pene corporali e la distruzione di luoghi cari alla pietà popolare. Sul versante politico, tuttavia, si ammette che il Califfato sia un’istituzione che i musulmani dovrebbero restaurare, senza però riconoscere ad al-Baghdadi l’autorità necessaria per poterlo pretendere. Molto meno chiaro sembra chi e a quali condizioni potrebbe farlo. L’amore per la propria patria, intesa non come la Umma araba o quella islamica, viene difeso, così come si reputa assurda la richiesta che i musulmani emigrino per vivere finalmente sotto tutela di un vero stato islamico e tantomeno per supportarlo e difenderlo. Le ragioni storiche e soprattutto l’esperienza dei milioni di credenti che da secoli ormai conducono un’esistenza perfettamente in linea coi principii e i precetti dell’Islam in condizioni socio-politiche svariatissime non è purtroppo in grado di mettere in crisi un modello mitico che sembra resistere a ogni contestualizzazione e analisi critica articolata.
     
CONCLUSIONI
Alcune problematiche ‘classiche’ del rapporto tra religione e politica in ambito islamico tornano dunque a ripresentarsi, anche se con spirito e in forme inediti. Si tratta di una questione che per sua stessa natura è destinata a non essere mai definitivamente risolta, ma costantemente riletta e reinterpretata alla luce sia dei suoi presupposti più antichi sia delle esigenze e delle inquietudini del presente. Ma la realtà degli stati nazionali moderni che si sono via via costituiti in tutta l’area musulmana difficilmente potrà esser rimessa in discussione, tantomeno da parte di gruppi settari ed estremisti, fortemente localizzati e determinati da conflittualità contingenti. La resurrezione di un Califfato almeno come suprema autorità morale dell’immensa e articolata Umma musulmana manca ancora de minimi requisiti basilari, tutto il resto gioca invece a favore di un’ulteriore e drammatica frammentazione etnica e religiosa: più che di un sogno si tratta di un incubo, pagato a caro prezzo non solo dalle minoranze del Medio Oriente, ma dalla totalità della popolazione che rischia di non trovare più nella fede islamica almeno quel riferimento etico e spirituale che, nonostante tutto, per secoli esso ha rappresentato per milioni e milioni di credenti. Per gli arabi in particolare, poi, tutto ciò avviene come se ogni acquisizione compiuta almeno negli ultimi due secoli, e l’ancor più ricca e poliedrica esperienza delle epoche precedenti, semplicemente non fosse mai esistita. Lo stesso riformismo islamico che durante la Nahda ha effettivamente saputo aprire inedite prospettive all’interno di una dinamica generale di rinnovamento, si  è presto trovato ad assumere una funzione di supplenza rispetto a quanto nella società è stato invece bloccato da involuzioni autoritarie. E ha per di più dovuto farlo rispondendo a esigenze contrastanti e quasi mai in posizione di reale indipendenza dal potere politico. Le parole d’ordine religiose che riemergono sono pertanto logore già in partenza e vanamente pretendono di rispondere a quell’ansia di riscatto e di rinascita nazionale che pure ne determinano il relativo successo, in mancanza di alternative. Ciò che non si è realizzato nelle istituzioni e nella prassi di stati solo apparentemente moderni, non ha alcuna chance di prodursi in forza di slogan più demagogici che carismatici, velleitari nelle intenzioni e atroci nelle prassi, ancora una volta a danno di popoli che stentano ad esser riconosciuti come cittadini e sembrano condannati a rimanere sempre e comunque sudditi.  


[1]Sayyid Qutb, Ma`âlim fî al-tarîq (Pietre miliari), Beirut 1995 (ristampa), p. 151.
[2]P. J. Vatikiotis, Islam: stati senza nazioni, Milano 1993, p. 17.
[3]S. Mûsâ, "al-Taraddud bayna al-Sharq wa-l-Gharb" (L'indecisione tra Oriente e Occidente"), in al-Yawma wa-ghadan (Oggi e domani) riportato in Aa. Vv. , Fî-l-qawmiyya al-`arabiyya (Sul nazionalismo arabo), Beirut 1980, p. 340.
[4]G. E. Von Grunebaum, L’identité culturelle de l’islam, Parigi 1973, p. 141.
[5]F. Castro, "La codificazione del Diritto privato negli Stati arabi contemporanei", in Rivista di Diritto Civile, n. 4 (1985), pp. 388.
[6]Cf. J. Fontaine, "Khéreddine, réformiste ou moderniste?", in Institut Belles Lettres Arabes, 1967, 30, pp. 75-81; Kh. al-Tounsî (a cura di M. Morsy), Essai sur les réformes nécessayes aux Etats musulmans, Parigi 1987.
[7]Cf. H. Laoust, "Le Réformisme orthodoxe des 'Salafiya' et les caractères généraux de son orientation actuelle", in Revue des Etudes Islamiques, 1932, VI/2, pp. 385-434.
[8]B. Lewis, Il suicidio dell’Islam, Milano 2002, pp. 124-125.
[9]H. Boularès, L’islam. La peure et l’espérance, Parigi 1983, p. pp. 8-12.
[10]Cfr. O. Carré, L'islam laico, Bologna Parigi 1997.
[11]Ibidem, pp. 31ss.