lunedì 29 agosto 2016

Venezuela e crisi economica. Dall'impronta boliviana di Hugo Chàvez a quella di Nicolàs Maduro

Venezuela e crisi economica: dall'impronta boliviana di Hugo Chavez a quella di Nicolas Maduro



Le cause della crisi economica in Venezuela non vanno ricollegate al crollo del prezzo del greggio bensì al galoppante incremento della spesa pubblica che ha portato ad alti tassi di inflazione  durante la quindicennale presidenza di Hugo Chávez.[1]

Definito come “il presidente della rivoluzione incompiuta” diventa leader del Venezuela a partire dal gennaio 1999 per tre mandati, fino al marzo del 2013 quando verrà stroncato da un cancro. Di lui si ricorda il suo ruolo come politico e militare venezuelano e, nello specifico,  il fallimentare golpe del 1992, che lo ha portato a due anni di prigionia e che gli permise di incrementare consensi da parte di un’opinione pubblica oramai stanca dell’incompetenza e nauseata dalla corruzione della classe politica.[2]

La sua ideologia trae ispirazione dal socialismo del XXI secolo, e dal pensiero di Simón Bolívar, rivoluzionario venezuelano ricordato come il libertador, poiché diede un contributo importante all’indipendenza di paesi come Colombia, Ecuador, Bolivia, Venezuela, Panama, Perù.

Bolivar, precursore degli ideali della rivoluzione americana, per certi aspetti si distacca dal pensiero dei padri fondatori, abolendo, ad esempio, la schiavitù nei territori da lui controllati. Non riponendo fiducia nel sistema politico federale, Bolìvar credeva che l’entità centrale dovesse ricoprire un ruolo predominante sulle realtà regionali.[3]

La politica economica di Hugo Chavez era finalizzata ad aiutare le classi più disagiate, in alcune circostanze i miglioramenti delle condizioni sociali si tramutavano in termini di beni e/o benefici come una casa, un’istruzione e delle cure mediche; e ancora redistribuzione dei proventi derivanti dalla principale risorsa economica: il petrolio. Il modello ha funzionato fino a quando gli alti prezzi del petrolio permettevano di non preoccuparsi dei costi della spesa pubblica e fino a quando la rivoluzione non si è incancrenita e non sono aumentati i fenomeni violenti e criminali nel Paese .[4]

L’altra faccia della medaglia però prevedeva la nazionalizzazione di imprese private,  conduzione spregiudicata dell’economia e una serie di comportamenti dittatoriali, tra cui l’intimidazione dell’opposizione ed i limiti posti alla libertà di stampa (che si concretizzeranno a pieno sotto la presidenza Maduro).

Fra le manovre che contraddistinsero la sua presidenza si ricordano: la svalutazione competitiva della moneta nazionale,  l’uscita del Venezuela dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, la lotta contro l’analfabetismo e la malnutrizione, oltre che un impegno a  garantire assistenza medica e medicinali gratuiti.  In politica estera Chávez voleva fare dell’America Latina una potenza sottraendola all’egemonia degli Stati Uniti. Tale piano poteva concretizzarsi grazie ad una congiunzione ideologica di tipo boliviana, fra due realtà statali, quella venezuelana e quella cubana dei fratelli Castro. Fra i principali alleati si ricordano la Bolivia di Evo Morales, l’Ecuador di Rafael Correa e il Nicaragua di Daniel Ortega. Erano dunque messi a repentaglio i rapporti con gli Stati Uniti, principale acquirente del petrolio venezuelano.  Il Chavismo, ha portato in risalto i ruoli dello stato e della politica come soluzione ai problemi economici e sociali in tale ottica è sorta l’ Alleanza Bolivariana per le Americhe, un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i paesi del Sud America sorto nel 2004 per volontà di Chavez e Fidel Castro in contrapposizione alle iniziative di integrazione regionale liberiste. Si ricordano anche: l’Unione delle Nazioni Sudamericane, ovvero una piattaforma di integrazione economica regionale sul modello dell'Unione Europea istituito nel 2008 e operativo nel 2011, e infine la Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici sorto nel 2011. I progetti di integrazione regionale di stampo bolivariano e il conseguente peso geopolitico acquisito grazie al petrolio, hanno rappresentato dei tasselli fondamentali per la politica estera venezuelana.[5]

L’opposizione agli Stati Uniti ha costituito una componente essenziale della politica internazionale del Venezuela, in ottimi rapporti con tutti i paesi rivali di Washington: Russia, Bielorussia,  Libia, Corea del Nord,  Cina, Iran e Siria. Nell’ultimo periodo però, forse complice il peggioramento delle sue condizioni di salute, Hugo Chàvez decide di attuare un cambio di rotta che lo porta ad un rinsaldamento dei rapporti con gli USA.

Il comandante morente aveva designato come suo successore Nicolàs Maduro. Volontà assai profetica e che trova conferma nella vittoria delle elezioni avvenute quaranta giorni dopo la morte di Hugo Chavez ( 5 marzo 2013)  con un margine assai ridotto sull’oppositore Henrique Capriles e tra polemiche su possibili brogli. Un risultato così risicato da mettere in dubbio la legittimità del processo elettorale.[6]  Ha votato quasi l’80% degli aventi diritto. Nicolás Maduro ha vinto le prime elezioni presidenziali del Venezuela post Hugo Chávez con il 50,7% dei voti; 7 milioni 500 mila voti contro i 7 milioni 270 mila del rivale Henrique Capriles Radonsky.[7]

Seguendo la scia del socialismo boliviano, Maduro si trovava a fare i conti con la gravosa eredità economica, politica e internazionale lasciata dal suo predecessore: un paese politicamente polarizzato e istituzionalmente indebolito. Da una parte le classi più povere si trovavano in una situazione di vantaggio dall’altra la bilancia economica dipendeva dal petrolio  a cui si aggiungevano corruzione e cattiva gestione del governo del paese a cui fecero seguito una serie di proteste popolari che vanno dalla metà del 2013 ad oggi.[8]

Per cercare di mantenere il controllo sulla macchina statale, Maduro ha dato inizio ad una Blitzkrieg caratterizzato da una serie di misure anti-democratiche, segnale che mostra come il governo venezuelano non voglia dialogare con le opposizioni.

Oggi in Venezuela c’è scarsità di generi alimentari, il deficit pubblico ha assunto dimensioni preoccupanti e sono frequenti i black out.

Nel mese di maggio del  2016 viene dichiarato  lo stato di emergenza: l’esercito e la polizia vengono autorizzati a  distribuire e vendere cibo mentre i comitati locali  dovranno garantire la sicurezza del paese.

Nei  primi anni del governo Maduro la situazione economica, non ha fatto che peggiorare, dalla caduta del Pil intorno al 9%, all’inflazione che ha sfiorato il 200% all’anno, mentre il valore del bolivar si è polverizzato rispetto al dollaro. Nelle botteghe mancano i beni di prima necessità, il mercato nero comincia a ritagliarsi una fetta consistente del mercato a cui si  aggiunge una carenza di medicine, condizioni lavorative disumane e spesso svolte in assenza di acqua. Le disfunzioni dell’economia possono essere imputate alle scelte radicali e populiste di Chávez: l’attacco all’imprenditoria privata, il controllo dei prezzi, l’eccesso di spesa pubblica, l’esplosione della corruzione.

Un altro problema è quello del controllo delle nascite, ma contraccettivi comuni sono diventati introvabili  motivo per il quale un numero sempre più alto di donne decide di ricorrere alla sterilizzazione grazie anche ad un programma sanitario che ne prevede la procedura, in maniera gratuita, alcune volte a settimana. Malgrado il Venezuela sia è un paese molto cattolico, le donne rinunciano ad avere figli.

Si tende spesso a paragonare l’attuale condizione venezuelana con quella del Cile di Salvador Allende prima del golpe di Pinochet.[9]

L’opposizione tutt’ora fa terra bruciata al leader venezuelano, che ha chiesto già nel 2015 un referendum sulla sua destituzione ma il governo si è opposto; dure anche le parole di Luis Almagro, segretario generale dell’organizzazione degli stati americani in cui etichetta Maduro come un dittatore. [10]

Ne vengono rivalutati i meriti che non fanno di lui un leader carismatico  e politicamente sagace come il suo predecessore; ci si interroga inoltre sulle capacità del Venezuela di riuscire o meno e in che tempi a uscire dalla crisi. Sembrano esserci dei buoni presupposti dati, ad esempio, da accordi con la Cina per ottenere nuovi finanziamenti in cambio rifornimenti petroliferi potrebbe dare un po’ di respiro all’economia venezuelana e le permettono di ripagare parte dei debiti e interessi maturati.[11]

Maria Martina Bonaffini




[3] https://it.wikipedia.org  ultimo accesso in data 21-08-2016
[4] http://www.limesonline.com/maduro-un-presidente-delegittimato-per-il-venezuela-del-dopo-chavez  ultimo accesso in data 19-08-2016
[7] http://www.limesonline.com/maduro-un-presidente-delegittimato-per-il-venezuela-del-dopo-chavez  ultimo accesso in data 19.08-2016
[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Nicol%C3%A1s_Maduro ultimo accesso in data 21-08-2016

lunedì 22 agosto 2016

L'orso russo si è riarmato

L'orso russo si è riarmato



L’anno è il 1991, Mikhail Gorbachev, segretario generale del partito comunista sovietico, firmerà le ultime carte che sanciranno la fine dell’URSS. La bandiera rossa sulla cupola del Cremlino verrà sostituita dal nuovo tricolore russo. Seguono gli anni ’90, gli anni della transizione da economia pianificata a libero mercato, gli anni delle svendite, degli oligarchi, della crisi economica. La Russia è allo sbando, il tessuto sociale lacerato, e ogni pretesa di rivestire il precedente ruolo di super potenza pura utopia. Le forze armate in parte congedate, ciò che resta, il minimo sindacale, assisterà impotente all’accumulo nei depositi, nei porti, negli aeroporti, di mezzi aerei marittimi e terrestri, che negli anni ’80 rappresentavano l’ossatura dell’esercito più numeroso del mondo, condannati alla rugginosa erosione.

Gli enormi sottomarini nucleari classe Typhoon,[1] la cui realizzazione era costata al popolo sovietico ben più di un sacrificio, abbandonati sui moli o affondati. Il progetto di costruzione delle super portaerei (per contrastare la US Navy) abbandonato e il secondo prototipo, la Varyag[2], completato all’80% e venduta alla Cina. Nelle regioni centrali enormi parcheggi di veicoli blindati e aeromobili dismessi. Ciò che rimane attivo dell’esercito russo viene scarsamente addestrato e poco motivato, summa di fattori che si paleserà nella rovinosa e scellerata conduzione della prima guerra di Cecenia.

Gli anni 2000 sono gli anni dell’aumento del prezzo del greggio, che in Russia coincide con l’aumento dell’export,[3] sono gli anni del pugno duro antidemocratico di Vladimir Putin, della lotta agli oligarchi e del conflittuale e controverso rapporto con la stampa. Ma sono anche gli anni in cui la Russia costruisce le premesse per ciò che si concretizzerà nell’intervento a fianco della Siria di Assad e il colpo di mano della Crimea.

Se la geopolitica è lo studio dei rapporti fra gli stati nazione, regolati in ultima istanza dalla forza, la Federazione Russa, ha dimostrato di nutrire rinnovate ambizioni di potenza regionale, investendo sull’ammodernamento delle proprie forze armate. Il faraonico progetto è iniziato nel 2008 e dopo alcuni rallentamenti (dovuti alla deflagrazione della famosa bolla finanziaria) nel 2013 è entrato a pieno regime.[4] Il Governo Putin ha dichiarato: “assicurare le capacità di difesa della Russia è una priorità della nostra politica. Sfortunatamente il mondo, per come è oggi, non supporta uno sviluppo tranquillo e sicuro”

Il punto è che il mondo è diverso da come si configurava negli anni ’90, Gli Stati Uniti e la NATO non hanno più le risorse finanziarie per sviluppare autonomamente progetti per di ricerca e ammodernamento dei sistemi d’arma, così come la Russia o la Cina, ecco perché il nostro momento storico è contraddistinto dalla nascita dei consorzi. Associazioni economiche di nazioni che mettono a frutto risorse finanziarie, tecnologiche e di manodopera per la realizzazione di armi comuni che serviranno ad armare gli eserciti alleati.

Il modo migliore, insomma, per abbattere i costi di ricerca e sviluppo. La Russia, insieme ai BRICS, è riuscita a produrre ( e con un certo anticipo rispetto all’occidente) il primo caccia da superiorità aerea di quinta generazione: Il SU-T50 PAK-FA[5] (PAK-FA è l’acronimo russo del nostrano V-TOL, Vertical Take OFF and Landing, decollo e atterraggio verticale) Un aereo che ,a detta degli analisti occidentali, supererebbe in prestazioni il tanto blasonato F-35 Lightning II.

Ma il SU-T50 non è l’unico mezzo su cui il governo russo ha investito, hanno giovato dei nuovi fondi anche gli apparecchi già in servizio costruiti in epoca sovietica, come i SU-33 nella loro versione navale, aggiornati e portati allo standard di generazione 4.5, le pesanti navi di superficie classe Kirov[6] ammodernate e messe alla testa delle quattro flotte della marina russa, si è avuto anche l’ammodernamento dell’unica super portaerei in forza alla flotta, l’Admiral Kuznetsov,[7] garantendo quindi alla federazione una notevole capacità operativa anche al di fuori delle proprie acque territoriali. 

A ciò si affianca l’aggiunta di 12 nuovi sommergibili a propulsione diesel, che vanno a rimpinguare la flotta sottomarina numericamente più consistente del mondo. Anche le truppe di terra hanno subito un notevole potenziamento, il giorno della celebrazione della vittoria nella grande guerra patriottica (è così che i russi chiamano la seconda guerra mondiale) è stato presentato al mondo il T-14 Armata,[8] il nuovo MBT (Main Battle Tank) che entro il 2020 dovrebbe sostituire gran parte degli ottimi T-80/90 ancora in servizio nell’esercito. 

La presentazione di un nuovo carro da battaglia, ad una parata pubblica, da parte di un governo che da tradizione è sempre stato fanaticamente geloso dei propri segreti militari, dimostra come la Russia intenda mandare un messaggio chiaro all’occidente e soprattutto alla NATO, “la Russia prenderà tutte le contromisure necessarie”.[9] Il che implica anche l’ammodernamento dei sistemi di difesa antiaerea con l’ingresso dei modernissimi S-400[10] (schierati anche in Siria dopo l’abbattimento del SU-24 Fencer da parte dell’aviazione turca) e il potenziamento delle truppe missilistiche per garantire quel margine di deterrenza nucleare cui Mosca crede ancora.

In ultima istanza è bene sottolineare come anche dal punto di vista informatico la Russia abbia fatto notevoli passi avanti con l’inserimento (ancora in via sperimentale) del sistema RATNIK.[11] Un sistema di Data-Link che dovrebbe collegare in tempo reale ogni soldato al centro di comando, permettendo una fruizione più chiara degli ordini ed un’incrementata efficacia sul campo. Tutti questi investimenti dimostrano in maniera evidente come Mosca abbia deciso di abbandonare il ruolo di remissiva e instabile nazione datale dagli sconvolgimenti degli anni ’90, decidendo di tornare ad essere protagonista della politica internazionale, utilizzando l’efficacia del proprio esercito come strumento di pressione soprattutto nei confronti dei vicini. Sull’efficacia di tale manovra è presto per esprimersi, di certo la Russia dovrà pensare di differenziare le proprie fonti di guadagno andando oltre la vendita di petrolio e gas naturale, perché tali progetti a lungo termine è bene farli senza la schiavitù del prezzo del barile che incide ora positivamente, ora negativamente, sul PIL.
Fabrizio Tralongo

Note:
[2] http://www.naval-technology.com/projects/varyag-aircraft-carrier-china/

martedì 16 agosto 2016

Cambiare si può ma non a tutti i costi: brevi riflessioni sulla riforma costituzionale

Cambiare si può ma non a tutti i costi: brevi riflessioni sulla riforma costituzionale



Sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi si è già detto molto, da parte di studiosi del diritto costituzionale, politologi, politici, giornalisti, esponenti della società civile...ognuno ha espresso la propria opinione, chi a favore e chi contro. Per cui, senza addentrarci troppo nel merito della riforma, ci preme solo esprime alcune considerazioni di metodo e di sostanza. Partiamo dal metodo.

La materia delle riforme costituzionali è una materia, per eccellenza, parlamentare, nel senso che, essendo la Costituzione l'atto fondativo e fondamentale dello Stato, un bene che appartiene a tutti e non ad una sola parte politica, si è sempre lasciato alla libera determinazione delle forze politiche presenti in Parlamento la materia della revisione della Costituzione, dovendo mantenere il Governo, che è espressione di una maggioranza politica, una posizione di neutralità. Scriveva, al riguardo, Piero Calamandrei nel 1947: «Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana» ( P. Calamandrei, Come nasce la nuova Costituzione, ne Il Ponte, 1947, 1ss ).

Come noto, la procedura di revisione della Costituzione è disciplinata dall'articolo 138, il quale prevede una doppia lettura di entrambe le Camere del progetto di riforma, con un intervallo di almeno tre mesi ed un referendum confermativo, nel caso in cui la riforma non venga approvata da una maggioranza qualificata corrispondente ai 2/3 dei componenti del Parlamento: la ratio della norma è appunto quella di favorire la più ampia convergenza delle forze parlamentari, atteso che non si tratta di adottare una semplice legge ordinaria ma di modificare la Carta fondamentale della Repubblica. In passato, il Parlamento, in diversi tentativi di riforma dell'impianto istituzionale, anziché usare la procedura ordinaria di revisione di cui al citato art. 138, ha preferito istituire degli organismi ad hoc, ossia delle commissioni parlamentari, a composizione bicamerale, i cui progetti di riforma non hanno mai visto la luce. Dopo il fallimento dell'ultima Bicamerale del 1997, quella presieduta dall'allora segretario del PDS Massimo D'Alema, tuttavia il Parlamento ha abbandonato il ricorso alle commissioni bicamerali, utilizzando invece la procedura ordinaria “secca” di revisione di cui all'articolo 138 citato: ciò è accaduto, ad esempio, con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 e con il progetto di riforma costituzionale del 2006, voluto dal Governo Berlusconi, ma non approvato dal referendum confermativo. Con il tramonto del metodo bicamerale, si è avuto, quindi, un progressivo abbandono della originaria e naturale posizione di neutralità ed un maggiore e più incisivo intervento del Governo nei processi di revisione costituzionale, il quale ha assunto sempre più il ruolo di propulsore principale del procedimento di revisione costituzionale.

L'attuale disegno di riforma costituzionale, per l'appunto, nasce da una proposta del Governo, il cui disegno di legge porta la firma del Presidente del Consiglio Matteo Renzi e del Ministro delle riforme Maria Elena Boschi. Da un un punto di vista costituzionale, nulla da eccepire, atteso che l'iniziativa legislativa del Governo non è esclusa nella procedura di revisione di cui all'art. 138. Tuttavia, la scelta del Governo e dell'attuale Parlamento di farsi carico di riformare la Costituzione lascia parecchio perplessi. In primo luogo, quello attuale non è un Governo con una diretta legittimazione popolare: vero è che il nostro attuale sistema parlamentare consente al Presidente della Repubblica di dare incarico per formare il Governo a chi abbia una maggioranza parlamentare; ma è pur vero, a Costituzione invariata, che nel nostro Paese, a partire dal 1994, le leggi elettorali hanno sempre indirizzato gli elettori a scegliere una coalizione di governo, il cui leader è stato poi chiamato a ricoprire il ruolo di Capo del Governo: il cd. Porcellum prevedeva addirittura che il partito o la coalizione indicassero all'atto di presentazione del simbolo e delle liste il relativo capo, proprio per sottolineare una quasi elezione o investitura popolare del futuro premier. Il Governo Renzi non è il Governo uscito dalle consultazioni politiche del 2013: quelle elezioni furono vinte sì dal centrosinistra, ma senza una maggioranza in Senato, tant'è che la situazione di empasse venne superata dall'allora Presidente Napolitano con la formazione di un governo di “larghe intese” , guidato da Enrico Letta, la cui maggioranza parlamentare era costituita da gran parte delle forze politiche presenti in Parlamento, sia di sinistra che di destra.

Il governo Renzi nacque con la caduta del “governo delle larghe intese” e si sostituì ad esso, con una nuova maggioranza parlamentare, non più ispirata al modello della “grande coalizione”, ma allargata a spezzoni che si erano staccati dalla destra: un Governo costituzionalmente legittimo, per carità, ma privo di una legittimazione popolare, e che nonostante ciò ha deciso di revisionare, stravolgendola, gran parte della Costituzione. Un secondo aspetto, riguarda poi l'attuale Parlamento, figlio di una legge elettorale, il già citato
Porcellum, che con sentenza 1/2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima. Può un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale ergersi a potere costituente? Possiede quella "coscienza costituente " di cui parlava l'insigne Maestro Costantino Mortati?

Andiamo ora alla sostanza, nei suoi aspetti principali. In primo luogo, la riforma utilizza un linguaggio poco chiaro, eccessivamente tecnico e strapieno di continui rinvii ad altre norme. Basta leggere il nuovo articolo 70 Cost., che disciplina la potestà legislativa, per rendersene conto. Ciò premesso, il fulcro centrale della riforma è il superamento del bicameralismo perfetto, che i Padri costituenti vollero introdurre non per mero capriccio ma come elemento imprescindibile di democraticità di ciascuna legge. Il Governo ha voluto in questo modo tagliare o ridurre i costi della politica: una sola Camera eletta direttamente dai cittadini, mentre il Senato, la cui composizione scende dagli attuali 315 a 100 componenti, non sarà più eletto dai cittadini ma sarà espressione delle autonomie territoriali. Inoltre, esso interverrà nel procedimento legislativo solo per poche e specifiche leggi, indicate per rinvio dall'art. 70 cost., mentre tutte le altre leggi saranno approvate dalla sola Camera. Osserva, al riguardo, Ugo De Siervo, costituzionalista e presidente emerito della Corte Costituzionale: “perché non è stato abolito il Senato, questo deve essere ben chiaro; il Senato è stato depotenziato, è stato ridotto a fare meno cose. Una cosa grossa in meno fa, non da più la fiducia al governo che è un vantaggio per i governi il che non è né diabolico, né nulla, comunque è un vantaggio per i governi. Poi però per tenere in piedi questo organo gli hanno dato tanti altri pezzi di funzioni; un organo per avere legittimazione da una parte deve avere una rappresentatività e dall'altra delle funzioni; ecco, qui le funzioni erano debolucce; intanto c’era la revisione della Costituzione che è una cosa importantissima, e poi gli hanno aggiunto un po’ di competenze legislative piene, sedici materie. Dunque il Senato può votare leggi, queste sedici leggi possono passare solo con il consenso di Camera e Senato. Ma in questa riforma queste materie sono, come dire, un pot pourri, cioè prese un po’ da una parte un po’ dall’altra, soprattutto non toccano il punto decisivo; il punto decisivo sarebbe che il Senato dovrebbe avere più potere laddove si discute di articolazione periferica dello Stato, dove si parla di autonomie regionali e locali e invece quelle competenze non gli sono state date, tutto ciò che il Parlamento dovrà decidere sulle regioni viene deciso dalla Camera dei deputati con solo un parere del Senato. Il Senato decide sui trattati con l’Unione Europea, sulla legislazione fondamentale sugli enti locali, su Roma capitale e quant'altro, cioè su cose marginali relativamente meno importanti, soprattutto poco significative, se il Senato dovesse davvero garantire le regioni, che sono state al contempo molto depotenziate. Poi avrebbe delle fantastiche funzioni di controllo sul governo; però è strano un Senato che non dà più la fiducia al governo ma ne controlla l’operato. E qui c’è un po’ una scissione, una contraddizione”. ( intervista di Giovanni Floris al prof. Ugo De Siervo nel programma “Di Martedì” de “La 7” del 7 giugno 2016).

Se la ratio della riforma del bicameralismo perfetto era un risparmio economico, lo stesso risultato, e forse ancora meglio, si poteva ottenere mantenendo l'attuale bicameralismo perfetto, con alcuni correttivi limitativi della cd. navicella, ma riducendo i componenti della Camera dei deputati a 400 e i componenti del Senato a 100, per un totale di 500 parlamentari, a fronte degli attuali 730 previsti dalla riforma. Il superamento del bicameralismo perfetto prevede inoltre che il rapporto di fiducia esista solo tra la Camera dei Deputati ed il Governo. E fin qui, nulla di strano, rispetto anche ad altre esperienze costituzionali straniere. Solo che, in Italia, la legge elettorale della Camera dei Deputati, il cd. Italicum entrato in vigore il 1 luglio di quest'anno, prevede un sistema in cui i capilista sono bloccati e al partito vincitore, anche nell'eventuale turno di ballottaggio, è assicurato un premio di maggioranza tale da avere 340 deputati: in buona sostanza, il segretario del partito che vincerà le elezioni e che con elevata probabilità sarà chiamato a svolgere il ruolo di Capo del Governo, avrà scelto i capilista e quindi si ritroverà con una maggioranza parlamentare di suoi nominati, che difficilmente potranno sfiduciarlo.

L'impianto istituzionale che viene fuori dalla riforma, pertanto, rischia di creare un disequilibrio tra i poteri dello Stato, con un Governo in posizione di supremazia nei confronti del Parlamento e senza che sia stato previsto un controbilanciamento, ad esempio, delle garanzia costituzionali, attraverso il sistema del ricorso diretto alla Corte Costituzionale, così come accade in Germania o, ancora meglio, in Spagna attraverso l'istituto del ricorso d'amparo. Con l'ulteriore gravissima aggravante che i cittadini, che a novembre saranno chiamati ad esprimersi con il referendum confermativo, si troveranno davanti un quesito referendario che farà riferimento ad una legge di riforma titolata sul superamento del bicameralismo paritario e sui tagli dei costi della politica, quando, invece, la riforma inciderà pesantemente sull'attuale forma di governo, introducendo, nel silenzio dei più ma soprattutto senza dirlo chiaramente ai cittadini, un surrettizio premierato forte. 

Infine, un aspetto curioso che riguarda la ratifica dei trattati internazionali: la riforma, infatti, crea una distinzione tra i trattati in generale ed in trattati che riguardano l'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea. Per i primi, la ratifica è autorizzata dalla sola Camera dei Deputati, mentre per i secondi la ratifica dovrà essere autorizzata da entrambe le Camere. Tale discrasia appare incomprensibile, soprattutto se si considera che le Regioni, di cui il Senato riformato dovrebbe essere la massima espressione di rappresentanza e coordinamento, a norma dell'art. 117 Cost,, anche nel testo novellato, provvedono a dare esecuzione ed attuazione non solo ai vincoli derivanti dall'appartenenza all'Unione europea ma anche ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
A cura di
Dott. Rosario FioreCultore di diritto pubblico comparato e diritto internazionale all'Università degli Studi di Palermo
Dott. Gabriele MessinaPresidente IMESI

giovedì 11 agosto 2016

La “Jihad” in Europa: Percorsi di radicalizzazione

La “Jihad” in Europa: Percorsi di radicalizzazione



Nel mese trascorso, l’Europa è stata nuovamente colpita da una serie di gravi attentati messi in atto  da singoli individui e rivendicati nel nome dello Stato Islamico ( ISIS ). Il 14 Luglio, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, un cittadino tunisino residente in Francia, uccide più di 80 persone e ne ferisce un centinaio lanciandosi alla guida di un camion di 19 tonnellate nel mezzo della folla spettatrice alla celebrazione della festa nazionale della “Presa della Bastiglia” sul lungomare di Nizza. Alcuni giorni dopo, in Germania, un ragazzo afghano di soli 17 anni, richiedente asilo, attacca con un coltello e un’ascia i passeggeri di un treno diretto a Wurzburg, ferendone 4 prima di essere ucciso dalla polizia. Altri due attacchi rivendicati nel nome dell’ISIS vengono perpetrati successivamente: un attacco suicida il 24 Luglio ferisce 15 persone nella città tedesca di Ansbach, e il 26 Luglio, due attentatori che giurano fedeltà allo Stato Islamico attaccano una chiesa nei sobborghi di Rouen, tagliando la gola al parroco di 84 anni e prendendo in ostaggio altre 4 persone. Alcuni giorni fa un immigrato regolare, a Charleroi in Belgio, aggredisce a colpi di machete due poliziotte, ferendole, al grido di “Allah Akbar”.
Questi attentati sono parte di una più ampia escalation di violenza portata avanti da singoli individui. Analisti, giornalisti e studiosi hanno inquadrato i responsabili nel fenomeno del “lupo solitario”: singoli individui che mancano di un sostanziale collegamento all’ISIS o ad altri gruppi jihadisti che compiono queste operazioni senza l’assistenza di altri membri.
Un fattore in controtendenza adesso, rispetto agli attacchi di Charlie Hebdo, del Bataclan e di Bruxelles, dove gli autori erano ex-foreign fighters ritornati in Francia e Belgio per condurre attacchi e mostravano chiara alleanza allo Stato Islamico nelle cui fila avevano già militato.
Il fenomeno dei foreign fighters sembra essere più controllato dalle intelligence europee che adesso collaborano maggiormente con un paese di passaggio di jihadisti come la Turchia, in base a un controverso accordo che rischia adesso di vacillare visti i recenti fatti accaduti in Turchia, dove il fallito golpe ha mostrato l’inasprimento di una politica sempre più nazionalista e accentratrice del presidente Erdogan.
In Siria e in Iraq, lo Stato Islamico arretra sempre di più nel controllo dei territori, sotto gli attacchi della coalizione a guida statunitense, supportata dalle milizie curde e dall’esercito iraqeno.
Questo arretramento e il capillare controllo del passaggio dei foreign fighters ha portato l’ISIS ad un cambio di strategia nella lotta all’Occidente. La propaganda on-line è stata potenziata al fine di “radicalizzare” individui già presenti nel territorio europeo e mondiale per colpire con qualsiasi mezzo qualsiasi obiettivo presente sul territorio. L’enfasi viene data ai cosiddetti “soft target” ovvero luoghi poco sensibili e sorvegliati, come parchi, chiese, spiagge.
Il fenomeno della radicalizzazione è tutt’oggi alquanto complesso. Vari studi sono stati condotti a riguardo e alcuni fattori giocano un ruolo fondamentale nel facilitare il processo di estremizzazione ideologica in alcuni individui presenti nel tessuto sociale delle città europee, perpetrato dalla propaganda jihadista con quella che oggi è una vera e propria ideologia alternativa all’Occidente.
I fattori e i processi coinvolti nella radicalizzazione e il reclutamento sono altamente individualizzati e complessi. La sostanziale ricerca accademica ha effettivamente screditato la nozione secondo cui esistono previsioni generalizzanti per la radicalizzazione. Anche all’interno delle aree calde di alta radicalizzazione che formano un significativo numero di jihadisti pronti al martirio, esiste un’alta proporzione di popolazione con caratteristiche demografiche similari che non si radicalizza o non si unisce a gruppi estremisti. Tuttavia esistono dei “trend” che possono aiutare a spiegare perché certe aree o contesti sociali favoriscono la radicalizzazione di individui piuttosto che altre.
Il primo e più significativo trend è quello del “risentimento sociale” legato a “problemi individuali” che può portare molto spesso alla radicalizzazione e al reclutamento. La situazione critica dei musulmani sunniti in Siria ed Iraq e le atrocità commesse dal regime brutale di Bashar al-Assad, sicuramente servono come sufficiente motivazione per coloro i quali decidono di partire in Siria ed Iraq per unirsi allo Stato Islamico, che sembrano farlo per ragioni ed impeto personali. La prospettiva di trovare identità, scopo, appartenenza ed avventura sembrano guidare maggiormente giovani europei musulmani verso la jihad, più che per ragioni teologiche.[1] Le stesse ragioni sembrano influenzare singoli individui a compiere la guerra santa in “casa propria”, casa che verosimilmente li ha in qualche modo traditi e fuorviati.
Un altro trend comune è la presenza in certe aree, nelle nostre città, di una o più figure carismatiche già affiliate alla causa jihadista. Ci sono numerosi esempi di influenti reclutatori dell’ISIS, in particolare negli “hotbeds” di reclutamento sul territorio europeo prevalenti in Francia, Belgio, Bosnia. Questi leader carismatici tendono a predicare a target di individui particolarmente vulnerabili nelle città o nei quartieri nei quali operano, spesso parlando a giovani disillusi e con crimini alle spalle. La loro presenza e la conoscenza dei problemi della comunità nella quale vivono, sommata all’interazione fatta “in presenza” dei potenziali reclutati, permette loro di affermare il loro messaggio estremista come soluzione al risentimento sociale e di massimizzarne l’efficacia. I reclutatori riescono a “capitalizzare” i propri reclutati, partendo dal loro senso preesistente di non appartenenza alla società in cui vivono. L’interazione fatta di presenza è poi accompagnata da una fitta comunicazione tramite i social network e applicazioni di messaggistica che danno luogo alla “tempesta perfetta” per il reclutamento, mettendo in comunicazione i reclutati con i reclutatori o amici già presenti nel sedicente Stato Islamico, e quindi ben posizionati per fornire istruzioni e ordini da parte del Califfato. Per fornire un esempio di comunicazione adottata dai jihadisti, l’applicazione di messaggistica istantanea più usata oggi, è Telegram.
Telegram è un software liberamente e gratuitamente scaricabile su diverse piattaforme, ed è stato ideato dal programmatore russo, Pavel Durov, nel 2014.
Durov, profondo sostenitore dell’indipendenza dei dati e della privacy, aveva lanciato nel 2006 il social network Vkontakte, che diventa il primo social network russo. Tuttavia con VK, Durov incontra dei problemi con Putin, il quale gli aveva chiesto, invano, di fornirgli informazioni sui ribelli ceceni nel 2014.
Sotto pressione, Durov decide di cedere l’azienda di Vk, e concepisce l’idea di lanciare un’applicazione impenetrabile, che non lasci tracce visibili. Da quest’idea nasce Telegram, che con il criptaggio completo dei messaggi, che si autodistruggono, insieme ai profili utenti, rende Telegram ad oggi, molto difficile da tracciare. Inoltre Telegram si muove al contempo su diverse giurisdizioni ( anche se la sede legale è a Berlino ) il che evita il più delle volte di essere soggetti a richieste di dati da parte dei governi
L’esistenza di un programma di messaggistica come Telegram permette quindi la comunicazione tra “gruppi di fratellanza” per potere scambiare informazioni senza essere facilmente scoperti.
Un altro trend comune e’ l’ideologia jihadista, ispirata dalla corrente salafita. Il “jihadismo” e’ stato frequentemente descritto come “la chiamata alle armi” secondo l’ideale della jihad contro i nemici comuni non-musulmani e contro i governanti dei paesi musulmani che vengono considerati apostati. Allo stesso tempo, il jihadismo viene raffigurato come l’idea radicale della religione islamica secondo cui l’incessante lotta contro l’Occidente e i suoi alleati, rappresenta un dovere morale.
L’ideologia jihadista differisce da altre ideologie militanti radicali per la sua ambizione di conferire al “credente-militante” una sorta di purificazione, un nuovo inizio e un’identità autentica, e allo stesso tempo configura una missione chiara nel mondo presente e nel mondo ultra-terreno.[2]
E’ con questa ideologia, diffusa ampiamente attraverso la rete che l’ISIS al giorno d’oggi, ancora piu’ di Al Qaeda qualche tempo fa, riesce a fare sempre piu’ proseliti. E’ diventato ormai un brand che viene pubblicizzato e venduto sul mercato, e piu’ diventa di moda, ancor piu’ può svilupparsi a macchia d’olio soprattutto fra i giovani, di diversa provenienza geografica e condizione socio-economica.
Secondo Oliver Roy, per capire il fenomeno della radicalizzazione bisogna prendere le distanze da due false affermazioni. In primo luogo, e’ falso pensare che i giovani musulmani, nella loro condizione odierna siano endemicamente impossibilitati all’integrazione nelle società occidentali e nel sistema internazionale moderno. In secondo luogo, gli effetti negativi del post-colonialismo, come la percezione di essere inevitabilmente esclusi dalle società occidentali, e l’identificazione nella causa palestinese con la relativa opposizione all’intervento “crociato” in Medio Oriente, sono erroneamente considerati i fattori scatenanti decisivi alla causa jihadista. In realtà, queste non sono le piu’ grandi ragioni che guidano le nuove generazioni musulmane alla militanza anti-occidentale. Secondo l’autore, il jihadismo di oggi non e’ ne’ una rivolta dell’Islam, ne’ una rivolta dei musulmani. E’ un fenomeno che investe due specifiche categorie di giovani: le seconde/terze generazioni di immigrati e i nuovi convertiti all’Islam. Questi due gruppi condividono le stesse esperienze di scontro generazionale con i genitori per la loro cultura “originale” che in principio simboleggiano. Questo fa si’ che i giovani non assumano un’identità ben definita e inclusiva dei valori originali dei genitori e dei nuovi valori dati dalla società nella quale sono cresciuti. Vivono in una specie di “limbo” identitario, in cui non affermano e non sviluppano una nuova identità. L’ideologia jihadista invece, e’ capace di conferire una missione, uno scopo, un nome di battaglia. Ed ecco che una nuova identità viene fuori, da poter “acquistare” sul mercato. E’ la dinamica dell’islamizzazione del radicalismo. Il jihadismo di oggi e’ la chiara espressione di una rivolta che esiste già nelle menti di molti giovani e nelle nostre società, fomentata piu’ dal nichilismo che dall’idealismo.[3]
Il quarto e ultimo trend e’ il cambiamento del processo di radicalizzazione che passa dai luoghi fisici alla rete, usando le piu’ sofisticate tecnologie.
Con il boom dei social media e della comunicazione decriptata, la radicalizzazione e la pianificazione possono facilmente aver luogo interamente online. L’ISIS ha capitalizzato l’evoluzione delle tecnologie di comunicazione creando coese comunità in rete che sviluppano un senso di “remota prossimità” così da facilitare la radicalizzazione. Il gruppo ha inoltre creato un team di “pianificatori virtuali” che usano Internet per identificare i reclutati e coordinare gli attacchi, spesso senza mai incontrare fisicamente gli esecutori.[4]
Un’importante fattore da considerare e’ che il fenomeno dei “lupi solitari” e’ spesso fuorviante, in quanto la maggior parte degli attacchi perpetrati apparentemente da singoli individui, dimostravano poi la compiacenza, l’appoggio e la complicità di altri individui, facenti parte dello stesso “network”.
In conclusione, analizzati questi trend comuni e ricorrenti nel processo di radicalizzazione del terrorismo di matrice jihadista, e’ necessario comprendere il fenomeno in se’, e cercare di comprendere in cosa l’Occidente ha sbagliato nell’annoverare nelle proprie fila, aspiranti combattenti e oppositori. E’ necessario un recupero di valori umani come la tolleranza, l’inclusione sociale e il dialogo, cercando di costruire sempre piu’ ponti e sempre meno muri tra culture e credenze diverse. Dal canto suo, la società islamica presente in Europa, avendone sposato la cultura e gli ideali, debba prendere coscienza del problema jihadista al proprio interno e debba opporvisi in maniera ferma e manifesta, prendendone le distanze, denunciando anche il minimo movimento sospetto, non identificandosi in nessun modo con questa ideologia, e recuperando i giovani, salvandoli da questa crisi identitaria profonda. Facendo un parallelismo con quella che e’ la mentalità mafiosa nelle realtà del meridione italiano, e’ necessario che cessi una certa “omerta’” presente in alcuni contesti sociali delle comunita’ islamiche in Europa, vedi Molenbeek in Belgio.
Per quanto riguarda i network e il trend digitale del radicalismo, e’ necessaria una riorganizzazione capillare delle intelligence e delle forze dell’ordine europee, al fine di cooperare nello scambio di informazioni e dati nella lotta al jihadismo radicale. In Europa è un lavoro che viene fatto a livello interstatale da Europol e Interpol. E’ necessario potenziare il lavoro di queste due agenzie e cooperare il piu’ possibile con esse contro quello che oggi e’ ormai un fenomeno globale, non piu’ inquadrabile entro i propri confini nazionali, destinato purtroppo a durare nel tempo.
Danilo Lo Coco



[1] Soufan, A, Shoenfeld, D, “Regional Hotbeds as Drivers of Radicalization”, in “Jihadist Hotbeds – Understanding Local Radicalization Processes”, Ispi, 2016, http://www.ispionline.it/it/EBook/Rapporto_Hotbeds_2016/JIHADIST.HOTBEDS_EBOOK.pdf
[2] Maggiolini, P., Varvelli, A., “Conclusions” in “Jihadist Hotbeds – Understanding Local Radicalization Processes”, Ispi, 2016,
 http://www.ispionline.it/it/EBook/Rapporto_Hotbeds_2016/JIHADIST.HOTBEDS_EBOOK.pdf
[3] Roy, O., “Le djihadisme est une revolte generationnelle et nihiliste”, Le Monde, 24 November 2015,
http://www.lemonde.fr/idees/article/2015/11/24/le-djihadismeune-revolte-generationnelle-et-nihiliste_4815992_3232.html
[4] Gartenstein-Ross D. and Barr, N., “The Myth of Lone-Wolf Terrorism – The Attacks in Europe and Digital Extremism, in “Foreign Affairs”, 26 Luglio 2016,