martedì 9 dicembre 2014

Costruiamo il futuro: Susanna Camusso incontra gli studenti

Costruiamo il futuro: Susanna Camusso incontra gli studenti



Si è tenuto giorno 5 Dicembre l'incontro tra il segretario nazionale della CGIL e gli studenti dell'Università Di Palermo, a termine di un tour che ha visto l'Udu Nazionale e la Rete degli Studenti Medi in giro per 13 regioni e 23 città italiane per  raccogliere testimonianze di ragazzi che hanno deciso di abbattere gli ostacoli e costruire un futuro fatto di speranza, tenacia e diversità.
Palermo, ultima tappa, dove vengono raccontante esperienze positive e negative, a testimonianza che i giovani non sanno solo protestare ma anche proporre, un tour in “direzione diritti”, un'esperienza che nasce in un periodo complesso per il nostro stato, fatto di crisi economica, tagli, licenziamente, immigrazione ed emigrazione. Un viaggio che parte da un provvedimento sull'istruzione, in cui il ruolo della scuola viaggia su due binari diversi, quello della meritocrazia e   della competitività, senza tener   conto di un concetto importante, l'uguaglianza. Mettendo a sistema le tematiche del diritto al lavoro e del diritto allo studio, l'una non può esservi senza l'altra, il “viaggio dei ragazzi” tenta di raccontare storie di studenti e lavoratori. Susanna Camusso ha risposto ad una serie di domande, affrontantado argomenti importanti, dall'istruzione, al lavoro, dall'investimento, alla diversità, fino all'immigrazione, tutto racchiuso nel quadro dell'economia della conoscenza, tema dell'incontro.
“Circa quindici anni fa si diceva che questa società doveva essere basata sull'economia della conoscenza, la formazione avrebbe dovuto creare investimento, potenziare l'economia al ritmo della competizione e dei diritti, ma così non è stato, economia e conoscenza non hanno saputo contaminarsi a vicenda.” Si parla innanazitutto del futuro dell'Europa, nel momento in cui il modello del capitalismo finanziario crolla,  della perenne crescita dei consumi senza avere l'idea di un del rapporto con le persone e il territorio. È necessaria una presa di conoscenza delle ricchezze che ha il nostro territorio, e di come, sulla base di queste, si possa dar vita ad una nuova competizione, che richiede innovazioni ed energia, occupandosi delle nuove generazioni, non guardando sempre al passato. Un paese che dichiara di guardare al futuro dovrebbe garantire il diritto allo studio come premessa per una prospettiva verso il futuro, nasce dunque un conflitto tra chi vuole rimanere nell'economia del risparmio, dei tagli, della compatiblità dei bilanci, e chi invece propende verso un'economia dell'investimento che crede nell'innovazione.
“Serve l'istruzione ? Se serve qual'è il tempo di istruzione perchè sia crescente, se dobbiamo guardare all'economia della  conoscenza, il percorso verso l'apprendimento del sapere ha un suo tempo che va di pari passo con la qualità dell'istruzione.” con questa domanda provocatoria il segretario rompe il silenzio e risponde ad un'altra delle domande postele, affermando che  la prima rivoluzione da fare è rendersi conto della necessità di investire nell'istruzione, universitaria e professionale, non guardando indietro ma avanti, rendendosi conto delle esigenze del mercato. Le esperienze di lavoro non sono quelle di questo periodo, date dal rapporto “stage-tirocino-stage”, tutti senza un compenso. Il tema non è inventare lavoro gratuito, ma  se nei luoghi di lavoro si è in grado di costruire una possibile acquisizione di competenze e di verifica nel rapporto che vi è tra
 chi sta imparando e quello che avviene nei luoghi di lavoro per sancire il rapporto “scuola-lavoro”. Necessaria è una riforma del sistema di istruzione che preveda seriamente lo scambio tra la stagione di studio e la stagione di lavoro, abolire l'idea secondo cui dato il percorso d'istruzione intrapreso è  possibile lavorare gratuitamente. Ciò, non solo è ingiusto ma  svalorizza la prodizione, lascia intendere così che l'obiettivo dell'impresa è creare produzione a basso costo non di qualificare competenze. Chi lotta per delle politiche diverse da quelle che ci sono state imposte è visto come un pericolo per il paese e questo non crea  un punto di interlocuzione tra le parti.
“Un paese che non sa cosa farsene dei giovani è un paese che non sa cosa farsene di se stesso “, si passa dunque al tema della flessibilità che ha progressivamente dato vita a varie forme di precarietà,  si è perso l'effettivo carattere valoriale del lavoro, venendo meno qualità e investimento.  Se un'azienda  non spenderà nulla in training, formazione, responsabilizzazione, la situazione del lavoro rimarrà perennemente svalorizzata.


Si constata la consapelovezza per cui non è più un produttore, ha copiato modelli che a  poco a poco le sono stati propinati, si è persa la concezione del legame che esiste tra la formazione professionale e il lavoro, l'unica idea è quella di ridurre i costi. È dunque   necessaria una discussione culturale fondata sulla conquista dei diritti, gli anni delle conquiste dei diritti sono gli anni di crescita di questo paese.Vi  sono delle forme di organizzazioni dei giovani che sono di reaziona al sistema, le proposte  sono egualitarie, non esistono le gerarchie che sanciscono diversità, il lavoro non può essere parcellizzato in via gerarchica, permane invece l'idea del lavoro secondo cui la subordinazione è necessaria. Anche la professionalità dei lavoratori diventa un tema esclusivamente aziendale, se non si ha  la pienezza dei diritti non si avrà la possibilità di essere un punto di interlocuazione per determinare la professionalità, il lavoro e quindi la qualità.
Susanna Camusso, spazia su vari temi tutti in stretto lagame tra di loro, sottolieando anche un tema cardine qual'è quello della fragilità dell'Italia, non soltanto dal punto di vista lavorativo e territoriale, ma anche sociale.
 La gente si è spostata dalle montagne verso le città abbandonando larga parte del terriotorio, non si è considerato quanto si risparmiasse qualora di intestisse in un risanamento di alcuni luoghi, viene considerato, ancora una volta, il bilancio, buttando via una marea di risorse, rinconrrendo le emergenze, mettendo toppe qui e li.
Un'altra piaga, messa in risalto, è quella della mancata coesistenza tra le persone, della segmentazione del soggetto, vi  è sempre qualcuno che deve sottostare ad un altro. Esiste
una netta  separazione tra italiani e stranieri, bisogna costruire l'idea, non solo di essere ospitali con chi viene in Italia, ma anche quella per cui bisogna ricostruire il lavoro, riqualificarlo, non si può sfuggire alle migrazioni, bisogna avere la capacità di mescolarsi.
Se ci si chiude verso il resto del mondo, vengono meno quelli che sono dei  percorsi di trasfigurazione verso il futuro,.bisogna crare una prospettiva che interloquisce con gli italiani, bisogna avere il coraggio di un cambiamento culturale, e abbattere la concezione secondo cui da soli si fa meglio e l'altro è un nemico.
 “Bisogna misurarsi con le nuove libertà, con la diversità, con i fenomeni di migrazione, con quelli di cambiamento, il tema della diversità riguarda anche le normative di riconoscimento non solo dei matrimoni ma anche delle coppie di fatto. Un paese che invecchia su se stesso,  ha paura di confrontarsi col cambiamento, riconoscere la diversità è motivo di ricchezza.”


M.Martina Bonaffini

mercoledì 3 dicembre 2014

Abolizione della pena di morte nel mondo. Un processo ormai irreversibile

#lavoceinternazionale

L'approfondimento settimanale di I.ME.SI.


Abolizione della pena di morte nel mondo. Un processo ormai irreversibile

a cura di Ezio Savasta 


Prof. Ezio Savasta
La pena di morte può essere considerata la sintesi di molte violazioni dei diritti umani, rappresenta sempre, infatti, una forma di tortura mentale dei condannati, contraddice una visione riabilitativa della giustizia, abbassa l'intera società al livello di chi uccide, legittima una cultura di morte al livello più alto, da parte dello stato, mentre dice di voler difendere la vita umana colpisce in maniera sproporzionata minoranze politiche, etniche, religiose e sociali, umiliando l'intera società.
In un tempo non lontano tutti i popoli, tutte le nazioni e tutti i gruppi umani ritenevano che la pena di morte fosse utile, ovvia o necessaria per punire una colpa grave. Questo tempo è durato dall'inizio della storia al XVIII secolo. Cesare Beccaria in questo periodo scriveva un'opera “Dei delitti e delle pene” in cui si riteneva che la ragione dovesse illuminare il dominio dell'azione penale e dedicava un capitolo all'abolizione della pena di morte. Da allora questa cultura giudica e umana è stata recepita da larghi strati della popolazione mondiale. In Europa ormai la pena di morte è bandita dalla sua costituzione ed è una delle clausole per l'ammissione di nuovi Stati membri del Consiglio d'Europa che si devono impegnare ad adottare una moratoria sulle esecuzioni e a ratificare il protocollo n.6 della convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) che li vincola all'abolizione definitiva della pena capitale.
In Europa si può dire quindi che la pena di morte è debellata anche se non completamente: l'unico stato europeo che la pratica è la Bielorussia, e sono forti le pressioni politiche affinché la abolisca e l'Europa possa dirsi totalmente libera da questo retaggio di una cultura giuridica disumana. Questo processo che è prossimo al completamento in Europa sta marciando a grandi passi nel resto del mondo. Progressivamente ogni anno il numero di paesi che smettono la pratica dell'eliminazione fisica del responsabile di gravi reati aumenta.
Una prova evidente è vedere il cammino della moratoria universale della pena di morte in sede ONU.
Vediamo un quadro dello status dei paesi del mondo sulla pena di morte al marzo 2014 secondo i dati forniti da Amnesty International:
98 paesi hanno abolito la pena di morte per ogni reato
7 paesi l'hanno abolita per reati comuni ma la mantengono in condizioni speciali come in caso di guerra
35 sono i paesi abolizionisti de facto: che hanno la pena di morte nei loro ordinamenti giuridici ma non eseguono da più di 10 anni
58 sono quelli che mantengono la pena di morte.
Ma se vediamo le scelte fatte dai vari paesi per l'approvazione della moratoria i numeri cambiano.
La moratoria ha l'efficacia di salvare vite umane, come una sorta di “cessate il fuoco” in attesa che gli ordinamenti degli stati si adeguino giuridicamente per far sparire dal Codice Penale e dalla Costituzione ogni richiamo alla pena di morte. La moratoria è stata proposta per la prima volta dall'Italia nel 1994, la maggioranza dei favorevoli non venne raggiunta per 8 voti. Nel 1997 la Commissione dell'ONU per i Diritti Umani approvò una risoluzione per "una moratoria delle esecuzioni capitali, in vista della completa abolizione della pena di morte”. La moratoria è quindi diventata un passo più facile da compiere, per non compiere esecuzioni per quei paesi che hanno all'interno dei loro ordinamenti la pena capitale ma che ormai nella prassi l'hanno superata o la vogliono superare. Nel recente voto alla VI Commissione delle Nazioni Unite sulla proposta di moratoria universale della pena di morte 114 Stati hanno espresso voto favorevole alla mozione, tre in più rispetto a due anni fa. Nel mese di dicembre si attende la ratifica del voto in Commissione nella Assemblea generale dell'ONU. E' interessante, per valutare il trend positivo verso l'abolizione della pena capitale, vedere come siano andate le votazioni in sede ONU negli ultimi 7 anni: i contrari sono passati da 52 a 36 (- 30%) e 7 anni sono nulla quando si parla di questi fenomeni. In Africa i contrari sono passati da 11 a 6, in pratica dimezzati, in Asia da 25 a 18 (- 28%). Ma questo processo non è solo giuridico, è culturale. La società civile di molti paesi sta cambiando in questa direzione anche grazie a molte iniziative che stanno svolgendo associazioni che lavorano nel campo dei diritti umani e dell'impegno civile. Tra le tante iniziative una che merita di essere citata per la sua efficacia sulla società civile è “Città per la vita: città contro la pena di morte” promossa dal 2002 dalla Comunità di Sant'Egidio che celebra la giornata del 30 novembre e conta l'adesione di 1950 città del mondo. In questo giorno le città che aderiscono accendono di una luce particolare un monumento significativo della propria città e con i cittadini organizzano un evento pubblico contro la pena di morte. A Roma il Colosseo è diventato un simbolo di vita e ogni anno il 30 novembre si illumina di una luce speciale per dire con tutte le altre città che “Non c'è giustizia senza vita”. Il 30 novembre rappresenta l'anniversario della prima abolizione da parte di una stato della pena capitale, il Granducato di Toscana il 30 novembre del 1786. Il movimento delle “Città per la vita”, ha avviato percorsi di sostegno e di negoziato per paesi mantenitori fino all'abolizione della pena capitale – dal Burundi al Gabon, dall'Uzbekistan ala Kazakistan – e promuove annualmente una Conferenza Internazionale dei Ministri della Giustizia che è un laboratorio di dialogo e un workshop internazionale in chiave abolizionista che coinvolge anno dopo anno paesi retenzionisti e abolizionisti in un lavoro comune. Quest'anno lo sviluppo di questo movimento ha permesso che si potesse organizzare un Convegno Internazionale contro la pena di morte e la difesa dei diritti umani, per la prima volta nella storia in Asia, a Manila nelle Filippine. Forse il cammino per l'abolizione totale della pena di morte nel mondo ha bisogno di altri passi per poter arrivare alla sua conclusione, ma il processo è irreversibile, non ha mai subito a livello planetario pause e tanto meno una inversione di rotta. La pena di morte diventerà un retaggio del passato come lo sono le violazioni palesi dei diritti dell'uomo come la schiavitù che ufficialmente è bandita da tutti gli stati. Nei bracci della morte vivono tanti uomini e donne, solo negli USA sono 3.500, sperano che questo processo sia così rapito da poter salvare la loro vita. Non li possiamo dimenticare: è per loro che molti lottano e vogliono che questo processo continui ad accelerare fino alla totale abolizione della pena di morte e salvare molte vite. Queste sono le parole di una donna di 25 anni nel braccio della morte, in attesa dell'esecuzione in Iran:
"Sono una persona come voi, non voglio morire. Ma, proprio ora, mi sento come un corpo senza vita, un corpo che ha dimenticato la felicità e il sorriso. Sono terrorizzata dall'impiccagione e sono a un passo dalla morte. Io, come tutti voi, ho paura di morire.”
Dalle parole di chi vive nel braccio della morte si rinnova l'impegno perché la giustizia non possa essere mai esercitata senza il rispetto della vita.





lunedì 24 novembre 2014

Pensavo fosse amore #25novembre2014

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


Pensavo fosse amore #25novembre2014


Parlare di rieducazione sentimentale, identità, ideali, ruoli non è certo facile soprattutto se si parla di
donne, se si parla di abusi e questi prendono il nome di “femminicidio “. Lento è stato il percorso di sensibilizzazione verso questa realtà fatta di  sopraffazioni e violenze, per mano di uomini il cui gesto di certo non si può dire “fosse d'amore “. Si intrecciano emozioni, diritti ,violazioni , urla sorde in
mezzo al nulla. Il 25 novembre è la giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, stabilita tramite la  risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999, emanata
 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questa data fu scelta in ricordo del brutale assassinio nel 1960 delle tre sorelle Mirabal considerate esempio di donne rivoluzionarie durante il regime dittatoriale di Trujilio nella Repubblica Dominicana . La parola “femmicidio” venne usata per la prima volta nel 1976, durante una seduta del Tribunale internazionale dei crimini contro le donne, svoltosi a Bruxelles. A pronunciarla fu Diane Russell, scrittrice e attivista femminista.
La violenza sulle donne non è frutto di un raptus di follia. L'entità degli abusi e le violenze non devono essere celate o risolte in famiglia, come i “panni sporchi” che un detto popolare cita, debbano essere lavati in famiglia. Ma quale essere umano “merita” la lesione della propria dignità umana in relazione all'integrità fisica e morale ? Quale Costituzione giustifica e autorizza le percosse di un compagno, padre,fratello, ex verso una donna? “Pensavo fosse amore.. “ avrebbero risposto queste donne...
Dopo aver ratificato, il 19 giugno 2013, la Convenzione di Istanbul, l'8 agosto il governo ha approvato un decreto legge contenente una serie di misure repressive nonché di tutela delle vittime della violenza avvenuta (poi convertito in legge con modifiche dalla L. 119/2013 del 15 ottobre 2013), riconoscendo in questo modo l'esistenza di una situazione grave ma non ancora adeguatamente affrontata. Se la legge compie un passo avanti in tema di lotta alla violenza contro le donne in Italia, si rileva tuttavia come alcuni standard richiesti dalla Convenzione di Istanbul, non siano ancora stati raggiunti. Se nella Convenzione vengono palesati quelli che sono gli strumenti di prevenzione e protezione, questo non accade nel testo di legge italiana, dove l'attenzione viene data più all'aspetto punitivo. Forti dubbi risiedono inoltre sull'entità delle risorse economiche dedicate al piano d'azione straordinario, con tutta probabilità non sufficienti a garantire gli obiettivi prefissati dal testo stesso. Si noti poi come ancora manchi in Italia un'istituzione nazionale indipendente per i diritti umani con una sezione dedicata ai diritti delle donne in grado di vigilare sul fenomeno. I dati di Telefono Rosa sono confermati da quelli dell’Istat. Gli omicidi in cui le vittime sono donne fanno registrare preoccupanti picchi, si consuma una mattanza in un paese definito “civile “. Nel 2013, infatti, il 66,4% delle vittime di femminicidio familiare ha trovato la morte per mano del coniuge, del partner o dell'ex partner. Sono le trasformazioni e le dinamiche del rapporto di coppia a spiegare il maggior numero dei casi. Anche per effetto del perdurare della crisi, si rileva un forte aumento dei matricidi, spesso compiuti per "ragioni di denaro" o per una "esasperazione dei rapporti derivanti da convivenze imposte dalla necessita'". Il 2013 è stato l'"anno nero" con un incremento del 14% delle uccisioni, rispetto al 2012. E' uno dei dati contenuti nel secondo Rapporto Eures sul femminicidio in Italia. Sempre nel 2013, quasi il 70% dei femminicidi è avvenuto in famiglia, il 92,4% per mano di un uomo. E' il tarlo della gelosia a spiegare la percentuale più elevata di femminicidi, il 30,3% di quelli familiari,  seguiti da quelli scaturiti da conflitti e dissapori quotidiani 17,6% di vittime. I "femminicidi del possesso" conseguono generalmente alla decisione della vittima di uscire da una relazione di coppia. Sono oltre 330 le donne uccise in Italia, dal 2000 a oggi, per aver lasciato il proprio compagno. Se le armi da fuoco si confermano come strumento principale negli omicidi in genere, nei femminicidi la gerarchia degli strumenti si modifica significativamente. Sconcerta il fatto che sono gli omicidi "a mani nude, rappresentare complessivamente lo strumento più ricorrente, nelle tre forme delle percosse, dello strangolamento, e del soffocamento. Di poco inferiore la percentuale di quelli con armi da fuoco e da taglio , cui seguono quelli compiuti con altri mezzi. E con l'età media cresce anche la percentuale delle vittime in condizione non professionale, confermandosi le pensionate (35,5% del totale) le vittime prevalenti, seguite da casalinghe e disoccupate (15,1%), impiegate e lavoratrici dipendenti (9,9%) e domestiche, colf e badanti 9,9%, Un bollettino 'di guerra' che nelle cronache dei siti internet, dei giornali e dei tg passa ormai quasi inosservato. Nel 2013 il sud diventa l'area a più alto rischio (75 vittime ed una crescita del 27,1%) ma è il centro a presentare l'incremento più consistente passando le donne uccise da 22 a 44: i casi crescono nel Lazio, in Toscana, in Umbria  e nelle Marche. Proprio il Lazio, insieme alla Campania, presenta nel 2013 il più alto numero di femminicidi tra le regioni italiane seguono Lombardia, Puglia, Toscana , Calabria e Sicilia . La graduatoria provinciale vede ai primi posti Roma, Torino e Bari, seguite, con 6 vittime, da Latina, Milano, Palermo e Perugia. I centri anti-violenza si rivelano fondamentali,  ma moltissime donne non ne conoscono neppure l'esistenza. Denunciare è sempre possibile, ma spesso inutile. Si teme che dopo la denuncia sia anche peggio, spesso lo è. In questa giornata di commemorazione, le  città si tingono di rosso. Nelle piazze vengono esposte scarpe rosse di vario tipo e misura. Il colore non a caso è il simbolo del sangue di queste donne, divenute vittime. Rivolgendo lo sguardo al resto del mondo, sessantaseimila donne e bambine vengono uccise ogni anno nel mondo, una cifra enorme che rappresenta circa un quinto di tutti gli omicidi. Il dato, raccolto dalla Small ArmsSurvey, è un numero approssimativo perché l’informazione in molti Paesi è carente. A  guidare la classifica degli omicidi femminili sono le regioni quali Sud Africa, il Sud America, i Caraibi e l’America centrale. Tra i singoli Paesi al primo posto c’è El Salvador con 12 femminicidi ogni centomila donne, seguito da Jamaica (10.9), Guatemala (9.7), Sud Africa (9.6) . In questi Paesi le donne vengono attaccate nei luoghi pubblici da bande criminali o da gang in un clima che sembra loro garantire l’impunità. Secondo le Nazioni Unite la metà delle donne uccise in Europa tra il 2008 e il 2010 è morta per mano di qualcuno che la amava, un membro della famiglia. In molti Paesi del Vecchio Continente resiste il tabù culturale che tende a considerare la violenza domestica una questione privata e a non denunciare i fatti.

Shedishe M. (37 anni), Usselina Denise F.G (42 anni) Adriana C. (80 anni) Egidia M. (68 anni)Marilena C. (34 anni) Annamaria G. (57 anni) Franca I. (50 anni)   Antonia S. (47 anni ) Jamila Assafa(31 anni) Giuseppina D.F. (52 anni) Favour O. (24) Giuseppina B. (87 anni) Michela F.(41 anni) Florentia B.( 19 anni) Francesca D.G E Martina I. (56 e 19 anni) Giuseppina N. (51 anni) Angelica T.(35 anni) Fabiana L. (15 anni)  Erika P. e Micaela G. (entrambe 34 anni) Immacolata R. (53 anni) Marta F.(50 anni) Olena T.(50 anni) Samanta F. (35 anni) Irma H.(33 anni) Chiara B. (25 anni) Maria N. (46 anni) Rosi B.( 26 anni) Tiziana R. (36 anni )Angela A. (65 anni) Erika C. (43 anni) 
Siete tante, troppe, centinaia in Italia, migliaia in Europa, milioni nel mondo, così tante da non riuscire a contarvi tutte, così tante da non potervi elencare tutte..quelle mani che avrebbero dovuto prendersi cura di voi e invece... pensavate fosse amore?



M.Martina Bonaffini

lunedì 3 novembre 2014

Giustizia negata: il caso Cucchi


#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


GIUSTIZIA NEGATA
Foto da fanpage.it

«Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. È quello che i miei giudici hanno fatto anche questa volta, questo è il compito del giudice - afferma il presidente della Corte d’Appello di Roma - per evitare di aggiungere orrore ad obbrobrio e far seguire ad una morte ingiusta la condanna di persone di cui non si ritiene provata la responsabilità».
La sentenza di primo grado aveva ritenuto responsabili per omicidio colposo soltanto i medici, assolvendo gli altri imputati: i tre infermieri e i tre agenti della penitenziaria. Ma Stefano era arrivato in ospedale con lesioni alle vertebre e al coccige.

La Corte di Appello di Roma addirittura li assolve. Li assolve per insufficienza di prove. Il seconda comma dell'art 530 del Codice penale lo prevede. Tutti assolti, anche i medici. Questa è la sentenza.
La vicenda di Stefano Cucchi fa riflettere ancora una volta sul rapporto fra giustizia e diritto. La Giustizia non è un concetto astratto. Si applica tramite norme e sentenze e in uno stato di diritto il suo esercizio è affidato alle istituzioni. Quando però è incapace di dare risposte produce un bisogno di giustizia inattesa, che si diffonde come una macchia e ti tocca. Ti tocca anche se non sei tu la sorella di Stefano, anche se non è tuo figlio ad essere stato percosso in carcere, anche se non sei tu quello direttamente interessato; la tragedia sta accadendo in un'altra casa, non nella tua. Però ti senti coinvolto. Ti senti meno sicuro. Quell'ingiustizia riguarda anche te, riguarda il tuo status di membro di una comunità di cui condividi diritti e doveri e dove godi di tutela giuridica, quella tutela che ti permette di sentirti sicuro e di vivere pienamente la tua vita.
Perché la Giustizia di uno è una garanzia per tutti e l'Ingiustizia di uno, in uno stato di diritto, è una sconfitta sociale. Resta drammatica la domanda: chi ha ucciso Stefano?

Angiolina Ferraiolo

giovedì 30 ottobre 2014

Speciale ISIS

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Speciale ISIS
a cura di
Fabio MarcelliGiurista internazionale e ricercatore dell’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR


ISIS e Occidente, il nemico/alleato perfetto
Fenomeno inatteso e scarsamente conosciuto, per nulla previsto, la rapida e apparentemente irresistibile ascesa dell’ISIS costituisce una nuova conferma della sostanziale inettitudine dei servizi d’informazione delle principali Potenze. In pochi giorni i suoi combattenti, apparentemente ben addestrati e meglio armati, hanno conquistato estesi territori in Iraq e Siria, facendosi poi conoscere con una dirompente strategia mediatica basata sulle decapitazioni in diretta degli ostaggi inermi ed innocenti ed instaurando nei territori occupati un regime basato sull’applicazione delle leggi islamiche nella versione più estrema, la schiavizzazione delle donne, la confisca dei beni di coloro che non accettano convertirsi.
I proclami lanciati dall’ISIS terrorizzano l’Occidente. Eppure lo stesso ISIS è in buona misura il prodotto di politiche e scelte occidentali che hanno gettato le basi del fenomeno e fertilizzato il terreno da cui è scaturito.
Venirne a capo implica pertanto il rovesciamento di queste politiche. Cosa che non risulterà per nulla facile dato che esse sono strettamente implicate con gli interessi di fondo delle classi dominanti occidentali. La cosa principale da intendere è tuttavia come tali politiche e la crescita del fondamentalismo, anche nelle forme assunte dall'ISIS siano strettamente connesse. Simul stabunt et simul cadunt.
Si tratta di un’esigenza alquanto urgente. Le orde fondamentaliste infatti si riversano su tutta l’area medio-orientale. La loro capacità di attrazione è direttamente proporzionale al vuoto di prospettive di futuro che la società occidentale presenta di fronte ai giovani, specie alle seconde generazioni provenienti da Paesi islamici. Sintomatico peraltro il fatto che perfino in Giappone la polizia ha intercettato un tredicenne che avrebbe voluto unirsi all’ISIS. E non si trattava neanche, a quanto pare, di una persona di fede islamica.
Come in tutti  i momenti di grave crisi, non solo economica, ma sociale, politica, culturale, ideale, quello attuale si rivela particolarmente propizio all’emergere di forze estremiste, che sotto la copertura di un’ideologia pseudoreligiosa di stampo fondamentalista praticano il terrorismo e la violazione su larga scala dei diritti umani. Non è pensabile un loro contrasto sul terreno prettamente militare e dell’intelligence se non accompagnato dalla promozione di modelli alternativi. Occorrono quindi un’approfondita conoscenza del nemico e dei fattori che ne hanno consentito la nascita e la crescita e una controffensiva sul terreno politico e del modello di società.
La minaccia è concreta e vicina. Infatti, i recenti successi delle forze fondamentaliste in Siria ed Iraq rappresentano sempre più una minaccia diretta nei confronti dell’area mediterranea. Esse si proiettano verso il Libano e in prospettiva verso l’Europa, dove si attende il ritorno delle centinaia di combattenti che stanno svolgendo il loro tirocinio militare in Iraq e Siria approfittando delle contraddizioni delle politiche occidentali.
Anche se, come dimostrato dai ripetuti successi delle forze kurde di autodifesa, specie a Kobané,  non si tratta per nulla di guerrieri invincibili, non va per nulla sottovalutata la potenzialità esplosiva della miscela tra fanatismo religioso ed interessi geopolitici ed economici di varia natura rappresentata dal gruppo, frutto del resto a sua volta della metamorfosi, scissione e riunificazione di forze preesistenti. Come ogni gruppo fascista che si rispetti, anche l’ISIS del resto trae il suo potere e la sua legittimazione in primo luogo, se non esclusivamente, dall’uso sfrenato della violenza armata, preferibilmente ai danni di popolazioni inermi. Sarebbe interessante in questo senso approfondire il significato del rientro in forze del gruppo sulla scena dopo che, alcuni fa, i suoi eccessi e le reazioni destate in vari settori del mondo sunnita irakeno lo avevano fortemente indebolito.
Scenari e fattori: il tragico minuetto tra Occidente e fondamentalismo
Va quindi detto per cominciare che la nascita di questo movimento ha trovato un terreno particolarmente fertile nella situazione di caos programmato che le principali Potenze, Stati Uniti in testa, hanno voluto imporre alla regione, a partire dall’invasione dell’Iraq nel 2003. A tale invasione, che ha costituito una gravissima violazione del diritto internazionale rimasta priva di ogni sanzione e condanna significativa, si sono accompagnate massicce violazioni dei diritti umani, come le uccisioni extragiudiziali, le torture e le sparizioni. Di tali episodi si sono resi protagonisti in un primo tempo direttamente i militari statunitensi che hanno poi delegato le relative attività al governo fantoccio presieduto da Maliki. Si è trattato evidentemente di un gravissimo errore, dato che la politica settaria, corrotta e repressiva attuata da quest’ultimo ha aggravato la divisione esistente fra sunniti e sciiti.  I primi, emarginati da ogni livello di governo e sottoposti a brutale repressione, hanno infine trovato nell’ISIS un proprio paladino.
Parallelamente, negli ultimi anni, e a partire dalle rivoluzioni arabe del 2011, le Potenze occidentali hanno fomentato la guerra civile in Siria, approfittando della delegittimazione del regime di Assad, che scatenava una feroce repressione contro le proteste democratiche. L’azione di destabilizzazione si è appoggiata anche qui sulla divisione fra sunniti e sciiti. E’ infatti alawita, e quindi facente parte dell’islamismo sciita, la minoranza di cui fa parte la famiglia Assad, che è al potere da tempo. L’azione di destabilizzazione esterna ha teso a fomentare il ricorso alla lotta armata contro il regime, che ha visto il prevalere, di fronte alle fragili milizie del cosiddetto Esercito siriano libero, le componenti fondamentaliste organizzate in un primo tempo in Al Nusra, una frazione locale di Al Qaeda, e poi nell’ISIS.
Un ruolo di fondamentale importanza nel sostegno a queste forze fondamentaliste è stato svolto dai regimi reazionari dell’area, soprattutto Arabia Saudita e Qatar, ma in misura minore anche la Turchia. Oltre a riprendere un ruolo di fiancheggiamento dell’imperialismo occidentale svolto a partire dall’intervento sovietico in Afghanistan, tali Stati mirano in tal modo a conseguire propri obiettivi di interesse strategico, quali l’attuazione di una controrivoluzione preventiva volta ad impedire che l’afflato liberatorio delle Rivoluzioni arabe li coinvolga e il contenimento della potenza iraniana, molto attiva nel sostegno sia ad Assad che a Maliki. Nel caso della Turchia, vi è anche l’interesse a combattere la rivoluzione kurda, che si è consolidata nella Siria nordorientale con l’instaurazione della regione autonoma della Rojava e si sta consolidando in tutta la Turchia, in stretto rapporto con le forze democratiche che si oppongono al regime di Erdogan.
Non si deve d’altronde sottovalutare l’importanza acquisita, sullo scenario internazionale, da regimi come quello saudita e quello qatariota, i quali grazie all’accumulazione finanziaria conseguente al boom petrolifero degli anni Settanta, si sono convertite non sono in alleate (lo erano già prima) ma anche in finanziatrici degli Stati Uniti. Con i settori più reazionari dell’amministrazione statunitense, che sono coloro che, Obama o non Obama, controllano, dirigono e decidono la politica estera di Washington, tali regimi intrattengono d’altronde strettissimi rapporti, sottolineati proprio nel contesto successivo all’attentato dell’11 settembre, che presenta d’altronde come noto aspetti per nulla chiari, al punto che taluno si è spinto ad ipotizzare una certa accondiscendenza nei confronti degli attentatori da parte dell’apparato di sicurezza statunitense. Una sorta di incendio del Reichstag in chiave islamico-bushista.
Non va peraltro nascosto che in alcuni casi sono stati gli Stati Uniti in prima persona a decidere di finanziare ed armare l’ISIS, nella stolida convinzione che la sua espansione potesse in qualche modo servire i loro interessi, dopo che era fallito il piano di attacco ad Assad e si sentiva la necessità di bilanciare in qualche modo l’evidente influenza dell’Iran sul governo irakeno. Thierry Meissan ha reso noto in questo senso che una sessione segreta del Congresso avrebbe deliberato il sostegno all’ISIS nel gennaio 2014. Notizia interessante e indubbiamente da verificare.
Come evidenziato da Meissan, ciascuna delle potenze facenti parte dell’evanescente coalizione anti-ISIS (che fino a poco tempo fa appariva molto di più come coalizione pro-ISIS) appare ispirata da suoi obiettivi: il controllo delle enormi fonti petrolifere della zona per gli Stati Uniti, la salvaguardia delle proprie frontiere e lo svolgimento indisturbato del proprio progetto di colonizzazione e tendenziale annientamento dei Palestinesi per Israele, la penetrazione nel proprio ex impero coloniale per la Francia, il ripristino di una sorta di Impero ottomano del Terzo Millennio per la Turchia.
In tutti questi casi l’ISIS e in genere il fondamentalismo islamico costituisce un asset strategico di tutto rispetto, anche per la forza di attrazione ideale che esercita sulla diaspora dei jihadisti. Esso infatti presenta un potenziale di destabilizzazione strategica enorme nei confronti delle principali Potenze antagoniste dell’Occidente, Russia e Cina, che contano ciascuna delle regioni popolate da islamici. Come pure dell’India, dove l’avvento al potere dell’integralista indù Modi appare destinata ad aggravare le tensioni interreligiose e quelle con il Pakistan.
L’ISIS tuttavia persegue un proprio obiettivo che può entrare in contraddizione diretta con i suoi mentori diretti e indiretti. La sua rapida avanzata, e il deliberato ricorso alle spettacolari e disumane esecuzione di cittadini britannici e statunitensi, ha spinto il governo degli Stati Uniti a ricercare un’alleanza regionale volta a contrastarla, ma che si rivela di non facile attuazione, come dimostrato dal rapido sgretolamento del potere del governo irakeno nella zona del cosiddetto triangolo sunnita e dalle “esitazioni” della Turchia che ha impedito ai Kurdi di portare soccorso alla città di Kobane, assediata oramai da varie settimane. Salvo concedere alla fine il passaggio di qualche centinaio di peshmerga provenienti dal governo regionale di Erbil, a condizione che fossero comunque salvaguardate le proprie esigenze di lotta ad Assad e al PKK kurdo che intrattiene fraterni rapporti con le milizie kurdo siriane del YPG e dell’YPJ.
Lo studioso Mohammed Hassan ha peraltro messo in luce le convergenze esistenti fra Occidente e forze fondamentaliste in varie situazioni. L’Occidente, e il governo statunitense in primo luogo, attua, nei confronti di tali forze, una politica che è poco definire schizofrenica, utilizzandole in taluni contesti, come da ultimo in Libia e Siria, salvo poi tentare di sganciarle quando si avvede che possono diventare un pericolo anche per i propri interessi. Quasi mai tuttavia lo “sganciamento” è possibile in termini rapidi e indolori.  La vicenda libica appare esemplare in questo senso, laddove si pensi che il console statunitense a Bengasi fu ucciso assieme ad altri funzionari dell’Intelligence statunitense, proprio dai fondamentalisti che aveva fino a poco tempo prima finanziato, armato e sostenuto in ogni modo.
Un elemento strategico di convergenza tra ISIS ed analoghe milizie fondamentaliste da una parte, e potenze occidentali dall’altra, risiede, pertanto, nella volontà di promuovere la guerra.  Per gli uni quest’ultima rappresenta l’estrema garanzia che i propri interessi non saranno scalfiti dall’avvento di situazioni nuove o dal mantenimento di vecchi equilibri che più non li soddisfano, per gli altri la guerra costituisce lo strumento principale per affermarsi.  Non è pertanto casuale che le potenze occidentali si siano adoperate, rispetto al conflitto libico, per scongiurare in ogni modo la possibilità di un negoziato e di una soluzione pacifica caldeggiata dall’Unione africana, che aveva raggiunto dei risultati con una missione in loco sostenuta soprattutto dal Sudafrica, abusando del mandato ottenuto dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, intervenendo apertamente a fianco degli insorti e arrivando fino all’estrema conseguenza del linciaggio di Gheddafi. Risultato: la Libia è tuttora in preda a un caos indescrivibile dal quale difficilmente potrà uscire. Mentre il governo italiano, interessato a una soluzione pacifica e, mediante ENI, allo sfruttamento delle risorse petrolifere libiche, assiste impotente e privo di idee.
Il caso della Libia peraltro è esemplare anche per la proiezione su scala internazionale del jihadismo cui esso ha dato luogo, dopo che parte degli islamisti insorti contro Gheddafi con l’aiuto della NATO si sono diretti in Mali dando luogo a nuovi focolai di insurrezione repressi dall’intervento francese. E’ lecito porsi la domanda se questa alimentazione reciproca fra intervento occidentale e jihadismo non sia voluta per creare instabilità politica e soddisfare le aspirazioni dei mercanti di armi e di mafie varie. Il fondamentalismo islamico armato, quindi, risulta pienamente funzionale all’instaurazione dello stato d’eccezione che consente di tenere sotto controllo ampie (sempre più ampie) aree del pianeta che rischierebbero altrimenti di sfuggire all’emprise di multinazionali e neocolonialisti.
L’ISIS costituisce anche da questo punto di vista un case in point, dato che la conquista degli stabilimenti petroliferi da parte dell’organizzazione in una delle aree più ricche di combustibile del pianeta, ha allontanato la minaccia della penetrazione di imprese appartenenti ai BRICS, cinesi e russe in particolare, che si stavano avvalendo della mediazione iraniana per accedere a queste risorse.
Non bisogna del resto scartare l’ipotesi che la carta dell’ISIS sia stata giocata consapevolmente dopo il fallimento, data la ferma opposizione di Russia e Cina, di attuare anche in Siria il giochino libico.
La complementarietà tra ISIS e classi dominanti occidentali è stata affermata di recente da Nazaran Arminian, che ha enunciato ben 23 “verità scomode” a proposito dell’ISIS. In primo luogo il costante utilizzo di forze fondamentaliste armate e terroristiche per destabilizzare varie situazioni: dall’Afghanistan ai tempi dell’intervento sovietico, al Kosovo (va sottolineato che Abdelmajid Bouchar, coinvolto nell’attentato dell’11 marzo a Madrid, fu arrestato a Belgrado nel 2005), ad Ansar al-Sharia in Libia, ai gruppi fondamentalisti operanti contro Assad in Siria.
Il ruolo del governo qatariota come “bancomat” dell’ISIS è stato affermato dal ministro dello sviluppo tedesco, Gerd Mueller,  mentre è stata in qualche occasione Hillary Clinton, a sottolineare quello dell’Arabia Saudita come finanziatore globale del terrorismo jihadista. Lo stesso regime saudita con il quale gli Stati Uniti hanno firmato un’accordo di vendita di armi per un importo pari a 640 milioni di dollari, armi utilizzate  per reprimere le proteste democratiche in Bahrein e Yemen, ma sicuramente finite in mano agli ottimamente equipaggiati fondamentalisti, in particolare ISIS. D’altra parte gli Stati Uniti chiudono entrambi gli occhi sul contrabbando di petrolio effettuato da quest’ultimo e che ne costituisce a oggi la principale fonte di finanziamento. Né hanno avuto alcuna reazione dopo che ISIS si era impadronito di un magazzino militare iracheno contenente 2.500 missili caricati a gas Sarin e 40 kg di uranio sottratti nel momento dell’attacco all’Università di Mosul.
Perché gli Stati Uniti impiegano oggi solo una piccola parte del proprio enorme potenziale militare nei confronti di ISIS, dopo aver annientato in poco tempo le ben più temibili armate di Saddam Hussein? Perché tollerano il persistente appoggio di Arabia Saudita, Qatar e Turchia ad ISIS? Anche nel caso di Kobané i pur essenziali bombardamenti degli assedianti sono venuti solo dopo la mobilitazione dell’opinione pubblica statunitense e mondiale e tuttora con una certa reticenza. E’ evidente la volontà degli strateghi statunitensi di continuare a contare su questa organizzazione o su organizzazioni analoghe per portare avanti i propri interessi. Determinante risulta come accennato il ruolo di controrivoluzione preventiva affidato a gruppi di questo tipo che agitano la bandiera dell’anti-imperialismo in modo puramente strumentale e che portano avanti una battaglia anticolonialista solo per restaurare un regime, in gran parte frutto di puro vaneggiamento  ideologico-religioso, ancora peggiore quanto a rispetto dei diritti dei singoli e della collettività. Non sarà quindi da Washington e dai suoi alleati che verrà la sconfitta di ISIS, strumento che viceversa essi continuano ad utilizzare con notevole spregiudicatezza al fine di accentuare la destabilizzazione dell’area e contenere la penetrazione di soggetti considerati ostili nel contesto di una generale contrapposizione fra Occidente e potenze emergenti, ma anche della necessità che le forze reazionarie avvertono sempre più fortemente di impedire lo sviluppo nell’area di esperienze autenticamente democratiche e rivoluzionarie.
Identità: interpretazione reazionaria della religione come alternativa al modernismo in tutte le sue salse
L’identità dell’ISIS è fortemente legata all’interpretazione più estrema della Sunna. Tale ideologia prevede nel modo più estremo l’impossibilità di separare la religione dalla politica. La politica quindi va subordinata alla regione e a un modello gerarchico e teocratico, che vede l’interpretazione del messaggio e della volontà di Allah come prerogativa assoluta di una ristretta élite di guerrieri che si autolegittimano con l’esercizio della violenza. Una via di mezzo fra la Chiesa preconciliare e la mafia degli ultimi decenni. Da questo nasce l’obiettivo del Califfato, inteso come progetto religioso e politico al tempo stesso, che intende dare una risposta alle frustrazioni più o meno recenti vissute dai musulmani sunniti, incontrando appunto il favore degli Stati reazionari dove sono al potere delle élites sunnite.
Fra tali frustrazioni vale la pena di ricordare quella, vissuta in un passato relativamente recente, con il tradimento da parte delle Potenze occidentali della promessa di restaurazione del Califfato fatta agli arabi per fomentarne la rivolta contro l’Impero ottomano, che culminò nella spartizione coloniale dei territori arabi con la cosiddetta linea Sykes-Picot e con la Dichiarazione Balfour, relativa alla formazione di un “focolaio ebraico” in Palestina. Va anche ricordato ai regimi coloniali, in Paesi come l’Iraq e la Siria, ma anche per molti versi in Egitto, Libia ed altrove, successero regimi militari dediti a reprimere la propria popolazione e a soffocare ogni tentativo democratico.  Questi stessi regimi si scontrarono, e continuano a scontrarsi, con le forze islamiche, come la Fratellanza musulmana in Egitto le quali vennero quindi a interpretare per certi aspetti le istanze popolari.
Ciò spiega oggi la loro popolarità in alcune situazioni. Ciò non toglie che, come spiega Mohamed Hassan, forze come “Ennahada” in Tunisia o i Fratelli musulmani in Egitto sono da un lato a favore del capitalismo come sistema economico e dall’altro presentano un’ideologia fortemente anticomunista e reazionaria. Hassan spiega come, a partire dalla guerra contro i sovietici in Afghanistan, si sia formata e alimentata una massa d’urto formata da giovani islamici provenienti da vari Paesi, che hanno fatto della guerra la propria professione e nutrono l’ideale di uno Stato islamico governato in tutto e per tutto dalla shari’a. La relativa ideologia si nutre delle frustrazioni personali e sociali di uno strato di maschi in genere appartenenti alle classi medie che di fronte alla crisi e alla persistente politica di dominazione imperialista dei loro territori, e in assenza di alternative popolari, si rivolgono al fondamentalismo.
Tale ideologia presenta parecchi punti in comune con il nazismo e in genere l’estrema destra occidentale. Se il primo è nato e si è sviluppato individuando gli ebrei come capro espiatorio, se la seconda tenta oggi di prosperare additando i migranti come causa del disagio delle popolazioni indigene europee, i fondamentalisti islamici aspirano al ripristino dell’epoca d’oro del Califfato e vaneggiano l’instaurazione di una società dove agli eletti siano riservati i privilegi mentre il resto della popolazione è condannata alla schiavitù e all’assoluta mancanza di diritti.
Un ruolo chiave in tale contesto è rappresentato dalla subordinazione della donna, relegata nei ruoli tradizionali di moglie/madre/oggetto sessuale. A tale fine, come ad altri, si attinge alle parti più discutibili del testo sacro, il Corano che d’altronde costituisce, come del resto altri testi del genere, quali la Bibbia, un magazzino di citazioni e di norme con le quali si può praticamente affermare tutto e il suo contrario.
E’ stato peraltro ravvisata una sostanziale convergenza tra le correnti più “solidariste” dell’islamismo politico, quali soprattutto i Fratelli musulmani, da un lato, e quelle più radicali e belligeranti, come l’ISIS, ravvisando una comune radice ideologica in Sayid Qutb, che operò negli anni Trenta e Quaranta dello scorso secolo. Quest’ultimo presenta, nell’analisi svolta da Hassan, significative analogie con il pensiero della destra cattolica che assunse “la difesa del capitalismo, del colonialismo e anche del nazismo” di fronte alla minaccia rappresentata dai bolscevichi. Cardine di tale ideologia è la difesa di un ordine di tipo feudale, che si accredita come “naturale” a fronte di qualsiasi velleità di cambiamento e di aspirazione a un ordine sociale più giusto. Anche se occorre ravvisare una certa ambiguità per quanto attiene al rapporto con l’imperialismo e con il colonialismo, che per certi versi vengono rigettati dalle tendenze islamiste in quanto negano la loro autonomia e il loro sogno di reviviscenza del Califfato.
Sayyid Qutb radicalizzò molto il suo approccio nel corso del suo viaggio negli Stati Uniti dal 1948 al 1950, durante il quale rimase scioccato dalla “degenerazione spirituale e morale” ed ebbe a constatare che “nessuno è lontano dalla spiritualità e dalla pietà quanto gli Americani”.   Il rifiuto della civiltà occidentale in quanto materialista e corrotta, si estendeva anche ad aspetti quali democrazia e nazionalismo.
La negazione della democrazia, sia nella sua versione capitalista che, a maggior ragione, in quella socialista, costituisce quindi un aspetto di tale ideologia, aspetto che peraltro essa condivide con i regimi reazionari della regione, specie Arabia Saudita e Qatar, che escludono da ogni diritto buona parte delle rispettive popolazioni, in particolare donne e immigrati. La democrazia, di qualsiasi genere, non costituisce del resto affatto un ingrediente immancabile del sistema capitalistico, che da esse prescinde volentieri ogniqualvolta siano messi in pericolo i propri fondamentali interessi.
E' bene tuttavia sottolineare con forza, come, contrariamente a quanto affermano analisti frettolosi e in qualche caso tendenziosi, lo scontro fra fondamentalismo islamico e Occidente non costituisce affatto la traduzione in pratica dello scontro fra civiltà vaticinato da Huntington come alternativa praticabile all'eclissi del nemico che si era determinata a seguito del venire meno dei blocchi contrapposti.
Proprio l'analisi della situazione appena descritta mostra infatti come esistano, in seno all'Islam, molteplici visioni e approcci differenziati che vanno ben al di  là della spaccatura fondamentale tra sunniti e sciiti. Anche in seno ai sunniti, infatti, esistono scuole di pensiero fra loro molto differenti, anche se va registrata per effetto parallelo della diffusione dei jihadisti e del denaro saudita, una forte crescita di quella wahabita, ispirata dalla lettura più rigorista e reazionaria possibile degli insegnamenti del Corano.
A conferma dell'assunto generale secondo il quale la religione, come ogni ideologia, serve più che altro a coprire e giustificare interessi concreti, giova rilevare come questo fondamentalismo esasperato costituisca la scelta compiuta da giovani, provenienti anche dall'Europa, che scelgono la jihad come una sorta di avventura esistenziale basata su di una carriera militare alternativa alle frustrazioni della crisi, della disoccupazione e dell'emarginazione giovanile, tanto più grave nelle periferie di Parigi, Londra e altre città europee, come pure in quelle delle metropoli senza speranza del Maghreb. Un’interessante analisi dell’ideologia e della base sociale dell’ISIS è quella compiuta dalla giornalista Claire Talon, in un articolo riportato su Internazionale: “Il fenomeno dello Stato islamico può essere visto come la copertura di un’avventura coloniale che trova nelle periferie di Londra, Strasburgo e Stoccolma le reclute più adatte. Le motivazioni di questi combattenti spesso non hanno molto a che vedere con l’Islam”.
Del resto il carattere estremo dei metodi di combattimento adottati e la natura estremista dell’ideologia nutrita da ISIS hanno condotto alla sua scomunica da parte di quasi tutte le autorità religiose sunnite. Ad ulteriore smentita dello schemino interpretativo semplicista e strumentale adottato, sulla scia di Huntington, da parte di taluni commentatori occidentali superficiali, disinformati o in aperta malafede.

Prospettive della lotta al fondamentalismo
Per certi versi l'ISIS, con il suo sogno di restaurazione del Califfato, sia pure, almeno per il momento, su di un'area territorialmente delimitata (a differenza di Al Qaeda, che da tempo si sta peraltro articolando in una serie di organizzazioni a base territoriale più definita), costituisce una risposta in chiave reazionaria alla globalizzazione e alla crisi dello Stato-nazione. Come scriveva vent’anni fa Jean-Marie Guéhenno (La fine della democrazia)  “non vi è dunque incompatibilità tra la globalizzazione astratta dell’età imperiale e l’arcaicità della frammentazione religiosa”. Tale arcaica frammentazione viene oggi riproposta da ISIS in chiave innovativa e fortemente moderna.
Il successo della lotta contro l’ISIS e forze fondamentaliste analoghe è quindi legato alla possibilità di rilanciare risposte differenti agli stessi fenomeni, che siano basate  sulla democrazia di base nell’area, come soluzione alternativa alla dominazione imperialista e alla divisione settaria che quest’ultima ha sempre promosso come proprio instrumentum regni in questa ed altre regioni.
Ciò spiega il particolare accanimento con il quale l’ISIS tenta di liquidare ad ogni costo esperimenti di autogoverno democratico e multietnico come quello attuato nella Rojavà. Per tale motivo la difesa di Kobané assume portata strategica e simbolica fondamentale.
E’ illusorio d’altronde pensare che l’ISIS potrà essere soffocato solo con il ricorso alle armi, tanto più che, per una serie di motivi, le potenze occidentale appaiono comprensibilmente restie ad intervenire sul terreno impiegando truppe di terra.
L’unica arma finale contro l’ISIS è la promozione della democrazia, che implica il superamento delle divisioni settarie. Beninteso deve trattarsi di una democrazia in grado di autodifendersi anche sul terreno militare. Un progetto di lungo periodo ma che già vive nella resistenza armata di Kobané ed altre situazioni.
Situazioni nelle quali il ruolo della donna, anche nella lotta armata, appare fondamentale per smontare dalle fondamenta l’ideologia maschilista e patriarcale su cui l’ISIS si fonda, promettendo anche facili soddisfazioni sessuali ai maschi mediamente frustrati che ne costituiscono la truppa d’assalto.
Come ha affermato la ricercatrice curda Dilar Dirik al Convegno svoltosi presso la Casa internazionale delle donne nello scorso ottobre: “Is è solo la forma attualmente più estrema non solo di oppressione fisica delle donne; ma cerca anche di distruggere ideologicamente tutto ciò che la liberazione delle donne rappresenta. La lotta delle donne curde non è solo una lotta militare contro Is per l’esistenza, ma una posizione politica contro l’ordine sociale e la mentalità patriarcale alla base dell’ordine sociale e della mentalità patriarcale. Sfidare le strutture sociali attraverso la mobilitazione politica e l’emancipazione sociale, insieme all’autodifesa armata, è un contro potere sostenibile a lungo termine per sconfiggere la mentalità di Is. Le donne del Kurdistan si percepiscono come le garanti di una società libera. È facile usare adesso le combattenti curde per dare un’immagine simpatetica di un nemico di Is, senza riconoscere i principi che stanno dietro alla loro lotta. L’apprezzamento per queste donne non dovrebbe essere correlato soltanto alla loro lotta militare contro Is, ma anche al riconoscimento della loro politica, delle loro ragioni e visioni. Se ci sarà una vittoria contro Is, avverrà per mano delle donne curde”. E, si potrebbe aggiungere, delle donne arabe, turche, assire e appartenenti alle altre etnie del Medio Oriente.
La resistenza di Kobané assume un valore di esempio anche nei confronti di tutte quelle forze tendenzialmente maggioritarie, ad impronta non fondamentalista e in alcuni casi decisamente laica, che pur avendo appoggiato in talune occasioni l’ascesa del Califfato, ne soffrono oggi il dominio disumano e le assurde imposizioni. Ciò vale per i settori che facevano riferimento al partito Baath in Iraq, come per numerose realtà tribali sunnite sia in Iraq che in Siria. Tali realtà subiscono infatti oggi la feroce repressione di ISIS, che procede alla decapitazione sia fisica che politica delle loro leadership.
La possibilità di mobilitare queste forze contro il fondamentalismo richiede peraltro la progettazione di un ordine di tipo nuovo ed effettivamente democratico per l’intera area. Di forte interesse appare a tale riguardo l’elaborazione compiuta, nella solitaria prigionia di Imrali,  dal leader kurdo Abdullah Ocalan. Il popolo kurdo, data la marginalità del fondamentalismo islamico al suo interno, la sua esistenza transnazionale in alcuni dei principali Paesi dell’area (Turchia, Iran, Iraq, Siria) e l’esperienza di oppressione subita da molto tempo dai vari regimi, appare nelle condizioni migliori ad assumere un ruolo di leadership verso tale nuovo ordine. A condizione beninteso di non chiudersi in uno sterile ed escludente nazionalismo, ma di far proprie le istanze democratiche a lungo soffocate da tali regimi in stretta cooperazione con l’imperialismo occidentale ed oggi violentemente aggredite dall’ISIS ed altre forze fondamentaliste.
Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno rappresentato una reazione a regimi corrotti e repressivi che avevano acquisito (o credevano di aver acquisito), lo status di mandatari delle potenze dominanti a livello politico ed economico, pur mantenendo in taluni casi (Gheddafi, Assad) dei margini di autonomia che li rendevano ben più invisi a tali potenze.
E' interessante segnalare come, secondo le interpretazioni più convincenti, il primo atto o addirittura il preludio di tali rivoluzioni sia stato costituito dalla rivolta della popolazione saharoui di Al Ayoun, nel territorio occupato dal Marocco da oramai più di quaranta anni, che si verificava nel settembre 2010. Dopo l'esplosione della Tunisia e dell'Egitto contro due regimi direttamente dipendenti dalle potenze occidentali, i primi fermenti di ribellione in Libia e Siria venivano prontamente dirottati in direzione della guerra civile dall'intervento di queste stesse potenze, ansiose di trovare nuovi capisaldi nella zona, dopo il rovesciamento dei fedelissimi Ben Ali e Mubarak. Nel frattempo, nella zona più direttamente prossima all'Arabia Saudita, avveniva la spietata repressione del movimento popolare del Bahrein e la guerra civile investiva anche lo Yemen.
A quasi ormai quattro anni di distanza da quei fatti, l'impatto liberatorio delle rivoluzioni arabe si è in buona parte dissolto per effetto anche del pesante intervento politico delle forze fondamentaliste, variamente articolate. E' tuttavia possibile che un nuovo impulso al fenomeno sia dato dalla resistenza kurda che al tempo stesso affronta l'ISIS, il regime turco e quello siriano.
Da un estremo all'alto del Mediterraneo continuano quindi a prodursi fenomeni di protagonismo popolare, ispirato a ideologie politiche non religiose, cui occorre guardare con attenzione. E’ importante quindi che la resistenza al fondamentalismo si nutra, come nei casi evidenziati del Sahara occidentale e del Kurdistan, di istanze nazionali e sociali, ma assunte in una prospettiva di convivenza interetnica e interreligiosa che sia autenticamente democratica.
Parlando di Mediterraneo, pare evidente come tutta questa vicenda ci riguardi molto da vicino. Non solo perché moltissimi membri dell'ISIS che provengono dalle sue sponde (più da quella Sud ovviamente), oltre che dall'Europa e da altre parti del mondo.
Ma anche e soprattutto perché la realizzazione, su entrambe le sponde del Mediterraneo, di una società effettivamente multiculturale basata sul rispetto reciproco fra le etnie, le culture e le religioni, come pure su di una democrazia effettiva (che comporta anche il superamento della condizione di inferiorità degli immigrati cui si continua a negare la cittadinanza), costituisce il migliore antidoto all'affermazione dei fondamentalismi come pure alla perpetuazione dei poteri, di varia natura, dispotici e incontrollati che ne hanno favorito in vario modo lo scatenamento.
In ultima analisi quindi la sconfitta del fondamentalismo richiede quella del modello dominante capitalistico-patriarcale basato sull’assoggettamento imperialistico delle risorse e delle popolazioni dei territori già soggetti allo sfruttamento coloniale, nonché la piena attuazione del principio di autodeterminazione, basato sulla democrazia territoriale multietnica, la partecipazione popolare, l’uguaglianza sociale e la parità di genere. Su di un piano più generale ciò dimostra l’importanza di dar vita a una cultura universale dei diritti umani che sia effettivamente plurale e non basata sull’assiomatizzazione del punto di vista di un Occidente che, in questa come altre materie, ha ben poco da insegnare e anzi molte colpe da espiare.
















Ebola: il coraggio della verità

#lavoceinternazionale

L'approfondimento settimanale di I.ME.SI.

Ebola: il coraggio della verità

a cura del
Prof. Francesco Scarlata
 Docente di malattie infettive presso l'Università degli studi di Palermo

Come spesso accade in Italia, dall’ampia trattazione di un argomento sui media sfuggono alcuni elementi essenziali alla comprensione della problematica.
Ebola (dal nome di un fiume africano) è un virus dei pipistrelli e delle scimmie africane che si è adattato alla specie umana e può trasmettersi da uomo infetto ad uomo sano attraverso  la contaminazione di cute lesa o di mucose (congiuntivale, orofaringea, genitale) sia lese che integre con  sangue o secrezioni (saliva, feci, urine, fluidi genitali, etc..).In teoria quindi la trasmissione potrebbe essere evitata con l’adozione di grossolane precauzioni e indossando dei semplici guanti.
Purtroppo abbiamo visto come decine di operatori sanitari si siano ammalati pur indossando dispositivi di protezione individuale ben più efficienti, inclusi gli “scafandri” delle infermiere americane che assistevano il paziente deceduto a Dallas.
L’elevata contagiosità dell’Ebola dipende dalla sua alta virulenza (cioè capacità di indurre malattia), così che piccolissime quantità del virus, presente anche su oggetti o alimenti contaminati da secrezioni dell’infetto sono in grado di trasmettere il contagio e la stessa protezione con “scafandri” non esclude la contaminazione durante il processo di svestizione e di discarica dei dispositivi di protezione a perdere.
Inoltre le linee guida internazionali, adottate a metà ottobre anche dal Ministero della Salute italiano, considerano a rischio anche chi, pur senza alcun contatto, si sia avvicinato a meno di un metro ad un paziente con Ebola. E’ lecito pertanto supporre che, malgrado le rassicurazioni sulla non trasmissibilità del virus per via aerogena (cioè inalando con il respiro particelle virali disperse nell’aria sotto forma di aerosol), non vi siano certezze a proposito.
Viene inoltre ripetuto fino alla noia che il virus non si trasmette durante il periodo di incubazione e che pertanto debba essere considerato possibile fonte di contagio soltanto chi inizia ad avere sintomi.
Tuttavia tale asserzione (che d’altra parte non mi risulta ad oggi poggiare su dati virologici significativi) contrasta con quanto è da tempo ben noto nelle altre malattie infettive (dall’influenza alle malattie esantematiche, dalle gastroenteriti alle epatiti) laddove senza dubbio alcuno la maggiore contagiosità si ha nella seconda parte del periodo di incubazione quando una già ampia replicazione microbica non è ancora contrastata dalla produzione di anticorpi.
D’altra parte se l’infetto ancora senza sintomi non può trasmettere il virus, per quale motivo l’efficientissimo servizio sanitario dell’esercito americano mette in quarantena tutti i suoi militari di ritorno dalle aree di epidemia?
Un altro interrogativo che è lecito porsi è quello relativo al livello di rischio Ebola per la Sicilia e all'efficienza delle nostre strutture sanitarie di fronte ad un caso probabile o accertato di infezione.
In atto la possibilità che un paziente con Ebola giunga in Sicilia è di certo un evento molto più improbabile rispetto ad altre regioni italiane od europee che hanno voli diretti o comunque intrattengono rapporti più stretti con le aree di epidemia (Liberia,Sierra Leone,Guinea). Gli stessi immigrati che giungono sulle nostre coste, ancor che la provenienza sia difficilmente tracciabile (mancanza di documenti di identità, false dichiarazioni, etc..), sbarcano dopo un viaggio attraverso il deserto e un soggiorno sulle coste libiche di diverse settimane o mesi, ampiamente superiore ai 21 giorni di massima incubazione.
Bisogna tuttavia ammettere che l’operazione Mare Nostrum (“ servizio informale di taxi sul mare”, come affermato da una Commissione UE) ha portato non soltanto ad un aumento dell’immigrazione clandestina ma anche ad una notevole accelerazione dei tempi della migrazione dall’Africa Nera alle coste nord-africane e da qui in Sicilia per cui non si può escludere che focolai di Ebola possano verificarsi nei campi profughi di quella terra di nessuno che è diventata la Libia e in questo caso la Sicilia diverrebbe da regione europea a bassissimo rischio a ventre molle dell’importazione del virus in Europa in quanto la nostra “frontiera” marittima non potrebbe filtrare i casi come si cerca oggi di fare in ogni parte del mondo con i controlli allo sbarco in porti e aeroporti.
Per quanto riguarda infine l’eventuale isolamento di casi sospetti o accertati (questi ultimi in attesa di essere trasferiti allo Spallanzani di Roma, unico centro deputato alla loro cura) non mi risulta che negli ospedali siciliani vi siano posti letto con i criteri di sicurezza biologica da tempo codificati per le febbri emorragiche virali, alle quali la malattia da virus Ebola appartiene. Ad oggi non sono neppure pervenuti i dispositivi di sicurezza individuale dal cui assemblaggio deriva l’ormai ben nota bardatura dei sanitari predisposti all’assistenza degli ammalati o dei sospetti.

giovedì 23 ottobre 2014

‘Clash of the Titans’

‘Clash of the Titans’

Un articolo di Zbigniew Brzezinski e John J. Mearsheimer tratto da Foreign Policy, No. 146 (January/February 2005)
La Cina è più interessata ai soldi o ai missili? Proveranno gli Stati Uniti a contenere la Cina così come facevano una volta con l'Unione Sovietica? Un faccia a faccia tra Zbigniew Brzezinski e John Mearsheimer su se queste due grandi potenze sono destinate a scontrarsi, prima o poi.


Fate soldi, non la guerra - di Zbigniew Brzezinski 


Oggi, in Asia orientale, la Cina sta crescendo pacificamente finora. Per motivi comprensibili, la Cina nutre risentimento e persino umiliazione per alcuni capitoli della sua storia. Il nazionalismo è una forza importante, e ci sono gravi lamentele riguardanti questioni di politica estera, in particolare Taiwan. Ma il conflitto non è inevitabile e addirittura probabile. La Leadership cinese non è incline a sfidare gli Stati Uniti militarmente, e la sua attenzione rimane posta sullo sviluppo economico e sul guadagnare consenso come grande potenza.
La Cina è preoccupata, e quasi affascinata, dalla traiettoria della propria ascesa. Quando ho incontrato i vertici politici cinesi, non molto tempo fa, quello che mi ha colpito è stata la frequenza con cui mi sono state chieste previsioni circa i prossimi 15 o 20 anni. Non molto tempo fa, il Politburo cinese ha invitato due distinti professori occidentali per una riunione speciale. Il loro compito era quello di analizzare nove grandi potenze dal XV secolo per capire il motivo per cui sorgevano e poi cadevano. E' un esercizio interessante per la Leaderhisp di un paese tanto vasto e complesso.
Questo interesse per l'esperienza delle grandi potenze del passato potrebbe portare alla conclusione che leggi di ferro possono condurre a qualche scontro o conflitto inevitabile. Ma ci sono altre realtà politiche. Nei prossimi cinque anni, la Cina ospiterà diversi eventi che limiteranno la conduzione della sua politica estera. I Giochi Olimpici del 2008 sono l’evento più importante, naturalmente. L’ammontare degli investimenti economici e psicologici nei giochi di Pechino è sbalorditivo. La mia aspettativa è che saranno magnificamente organizzati. E, naturalmente, la Cina intende vincerle le Olimpiadi. 
Una seconda data è il 2010, quando la Cina ospiterà il World Expo di Shanghai. Organizzare con successo questi incontri internazionali è importante per la Cina e suggerisce che una politica estera prudente prevarrà.
Più in generale, la Cina è determinata a sostenere la sua crescita economica. Una politica estera conflittuale potrebbe altrimenti disturbare la crescita, danneggiare centinaia di milioni di cinesi, e minacciare la presa del partito comunista al potere. La Leadership cinese sembra comportarsi razionalmente, e consapevole non solo della crescita della Cina, ma anche della sua continua debolezza.
Ci saranno inevitabili attriti nel momento in cui la Cina proverà ad aumentare il suo ruolo a livello regionale e quando una "sfera di influenza" cinese si svilupperà. Il potere degli Stati Uniti potrebbe affievolirsi gradualmente nei prossimi anni, e il declino inevitabile dell’ influenza giapponese potrebbe aumentare il senso di preminenza a livello regionale della Cina. Ma perché si crei un vero e proprio scontro, la Cina ha bisogno di un apparato militare che sia in grado di competere con quello gli Stati Uniti. A livello strategico, la Cina mantiene una posizione di deterrenza minima. Quarant’anni dopo aver acquisito la tecnologia di armi nucleari, la Cina ha solo 24 missili balistici in grado di colpire gli Stati Uniti. Anche al di là del regno della guerra strategica, un paese deve avere la capacità di raggiungere i propri obiettivi politici prima che possa impegnarsi in una guerra limitata. E 'difficile immaginare come la Cina potrebbe promuovere i suoi obiettivi quando è altamente vulnerabile a un blocco e all’isolamento imposto dagli Stati Uniti. In un conflitto, il commercio marittimo cinese si bloccherebbe. Il flusso di petrolio cesserebbe, e l'economia cinese si paralizzerebbe.
Ho la sensazione che i cinesi sono cauti su Taiwan, malgrado i loro ruggiti. Lo scorso Marzo, una rivista del Partito comunista ha dichiarato che "abbiamo sostanzialmente contenuto la manifesta minaccia dell’indipendenza di Taiwan nel momento in cui [il presidente] Chen [Shuibian] è entrato in carica, evitando uno scenario peggiore e mantenendo lo status di Taiwan come parte della Cina." Un sondaggio dell’opinione pubblica fatto a Pechino, allo stesso tempo ha rilevato che il 58 % pensava che l’intervento militare non era necessario. Solo il 15 % era a favore dell'azione militare per "liberare" Taiwan.
Sicuramente, la stabilità di oggi non assicura la pace di domani. Se la Cina dovesse soccombere alla violenza interna, per esempio, tutte le scommesse sarebbero perse.
Se le tensioni socio-politiche o le disuguaglianze sociali diventassero ingestibili, la Leadership potrebbe essere tentato a sfruttare passioni nazionalistiche. Ma la remota possibilità che questo tipo di catastrofe si verifichi, non indebolisce la mia convinzione che siamo in grado di evitare le conseguenze negative che spesso accompagnano l'ascesa di nuove potenze. La Cina si sta chiaramente assimilando al sistema internazionale. La sua Leadership sembra rendersi conto che il tentativo di far sloggiare gli Stati Uniti sarebbe inutile, e che una cauta estensione dell’ influenza cinese è la strada più sicura per la preminenza globale.

Meglio essere Godzilla che Bambi - By John J. Mearsheimer

La Cina non può crescere pacificamente, e se continua la sua drammatica crescita economica nei prossimi decenni, gli Stati Uniti e la Cina sono propensi a impegnarsi in una intensa competizione riguardante la sicurezza, comportando un notevole rischio per una possibile guerra. La maggior parte dei Paesi vicini alla Cina, tra cui India, Giappone, Singapore, Corea del Sud, Russia e Vietnam, sarebbe lieti di supportare gli Stati Uniti per contenere il potere della Cina.
Per prevedere il futuro in Asia, bisognerebbe disporre di una teoria che spieghi come i poteri in ascesa agirebbero con ogni probabilità e come reagirebbero gli altri Stati. La mia teoria di politica internazionale dice che gli Stati più potenti tentano di stabilire l'egemonia nella propria regione, assicurandosi contemporaneamente che nessuna grande potenza rivale domini un'altra regione. L'obiettivo finale di ogni grande potenza è quello di massimizzare la propria porzione di potere mondiale e infine dominare il sistema.
Il sistema internazionale ha diverse caratteristiche distintive. Gli attori principali sono Stati che operano nell’anarchia - il che significa semplicemente che non vi è alcuna autorità superiore al di sopra di questi. Tutte le grandi potenze hanno una qualche capacità militare offensiva, il che significa che possono farsi male a vicenda. Infine, nessuno Stato può conoscere le intenzioni future di altri Stati con certezza. Il modo migliore per sopravvivere in un tale sistema è quello di essere il più potenti possibile, rispetto a potenziali rivali. Più potente è uno Stato,  meno è probabile che un altro Stato lo attaccherà.
Le grandi potenze non puntano meramente ad essere il potere più forte. Il loro obiettivo finale è quello di essere la potenza egemone - l'unica grande potenza nel sistema. Ma è quasi impossibile per qualunque Stato ottenere l'egemonia globale nel mondo moderno, perché è troppo difficile da mostrare e mantenere. Persino gli Stati Uniti sono un potere egemone a livello regionale, ma non globale. Il risultato migliore a cui uno Stato può aspirare è quello di dominare il proprio cortile di casa.

Gli Stati che ottengono l'egemonia regionale hanno un ulteriore obiettivo: impedire che altre grandi potenze dominino altre aree geografiche. I Paesi che esercitano egemonia su una regione, in altre parole, non vogliono concorrenti. Al contrario, vogliono mantenere altre regioni divise tra diverse grandi potenze in modo da farle entrare in competizione. Nel 1991, poco dopo la fine della Guerra Fredda, la prima amministrazione Bush ha coraggiosamente dichiarato che gli Stati Uniti avevano raggiunto lo status di Stato più potente del mondo e che l’intenzione era quella di mantenerlo. Lo stesso messaggio è stato ripreso nella famosa National Security Strategy rilasciata dalla seconda amministrazione Bush nel settembre 2002. La posizione di questo documento sulla guerra preventiva generò aspre critiche, ma a malapena una parola di protesta ha accolto l'affermazione che gli Stati Uniti dovrebbero controllare l’ascesa di certi poteri e mantenere la propria posizione dominante nel bilancio globale del potere.

La Cina probabilmente cercherà di dominare l'Asia allo stesso modo in cui gli Stati Uniti dominano l'emisfero occidentale. In particolare, la Cina cercherà di massimizzare il divario di potere tra se ei suoi vicini, in particolare il Giappone e la Russia, e per assicurarsi che nessuno Stato in Asia possa minacciarla.
E’ improbabile che la Cina esca di senno e conquisti altri Paesi asiatici. Piuttosto, la Cina vorrà dettare i limiti del comportamento accettabile per i paesi limitrofi, così come gli Stati Uniti fanno nelle Americhe. Una Cina sempre più potente cercherà anche, con ogni probabilità, di spingere gli Stati Uniti fuori dall'Asia, più o meno come gli Stati Uniti hanno spinto le grandi potenze europee fuori dell'emisfero occidentale. Non a caso, guadagnare l'egemonia regionale è probabilmente l'unico modo che la Cina ha per riavere indietro Taiwan.
Perché dovremmo aspettarci che la Cina agisca diversamente dagli agli Stati Uniti? I politici americani, dopo tutto, reagiscono duramente quando altre grandi potenze inviano forze armate nell’emisfero occidentale. Tali forze straniere sono sempre viste come una potenziale minaccia alla sicurezza americana. Sono i cinesi più saggi, più morali, meno nazionalisti, o meno preoccupati per la loro sopravvivenza degli occidentali? Non sono nessuna di queste cose, che è il motivo per cui la Cina rischia di imitare gli Stati Uniti e tenterà di diventare una potenza egemone nella propria regione. La Leadership cinese e la gente ricordano bene quello che è successo nel secolo scorso, quando il Giappone era potente e la Cina era debole. Nel mondo anarchico della politica internazionale, è meglio essere Godzilla che Bambi.
Grazie alla storia è prevedibile come reagirebbero i politici americani se la Cina tentasse di dominare l'Asia. Gli Stati Uniti non tollerano rivali. Come hanno dimostrato nel 20 ° secolo, sono determinati a rimanere l’unico potere egemone regionale del mondo. Pertanto, gli Stati Uniti cercheranno di contenere la Cina e, infine, indebolirla a tal punto da non essere in grado di dominare l'Asia. In sostanza, gli Stati Uniti rischiano di comportarsi nei confronti della Cina così come si comportarono con l'Unione Sovietica durante la Guerra Fredda.

Le testate nucleari cambiano  tutto - Zbigniew Brzezinski risponde:

Come studioso occasionale, sono rimasto colpito dal potere della teoria. Ma la teoria - almeno nelle relazioni internazionali - è essenzialmente retrospettiva. Quando succede qualcosa che non rientra nella teoria, viene rivisitata. E ho il sospetto che accadrà nel rapporto Usa-Cina.
Viviamo in un mondo molto diverso da quello in cui potenze egemoniche potevano andare in guerra senza cancellarsi l’un l'altra come società. L'era nucleare ha modificato le politiche di potenza in un modo che era già evidente nella competizione USA-URSS. L'elusione di un conflitto diretto in quella situazione di stallo deve molto a quelle armi che rendono la totale eliminazione delle società conseguenza dell’escalation dinamica della guerra. A questo proposito, dice qualcosa il fatto che i cinesi non stiano cercando di acquisire le capacità militari per raggiungere gli Stati Uniti.
Il modo in cui si comportano le grandi potenze non è predeterminato. Se i tedeschi e i giapponesi non si fossero comportati così come hanno fatto, i loro regimi potrebbero non essere stati distrutti. La Germania non era tenuta ad adottare la politica che ha adottato nel 1914 (anzi, il cancelliere tedesco Otto von Bismarck ha seguito un percorso molto diverso). I giapponesi nel 1941 avrebbe potuto rivolgere il loro espansionismo verso la Russia, piuttosto che verso la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Da parte sua, la Leadership cinese appare molto più flessibile e sofisticata di molti precedenti aspiranti allo status di grande potenza.

Mostrando la porta agli Stati Uniti - John J. Mearsheimer risponde:

La dicotomia che lei ha sollevato tra la teoria e la realtà politica è importante. La ragione per cui dobbiamo privilegiare la teoria sulla realtà politica è che non possiamo sapere quale sarà la realtà politica se guardiamo ad esempio l'anno 2025. Lei ha detto di aver viaggiato in Cina di recente e parlato con i leader cinesi che le sono sembrati molto più prudenti riguardo  Taiwan. Questo può essere vero, ma è in gran parte irrilevante. La questione chiave è: cosa penseranno riguardo Taiwan i leaders ed il popolo cinese nel 2025?
Non possiamo saperlo saperlo. Quindi, realtà politiche odierne vanno eslcuse dall'equazione, e ciò che conta davvero è la teoria che si impiega per predire il futuro.
Lei sostiene anche che il desiderio della Cina per la continua crescita economica rende il conflitto con gli Stati Uniti improbabile. Una delle principali ragioni per cui la Cina ha avuto tanto successo economico negli ultimi 20 anni è che ha scelto di non scontrarsi con gli Stati Uniti. Ma la stessa logica avrebbe dovuto applicarla nel caso della Germania prima della Prima Guerra Mondiale e in Germania e in Giappone prima della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1939, l'economia tedesca era in forte crescita, ma Hitler iniziò la Seconda Guerra Mondiale. Il Giappone ha dato via al conflitto in Asia, nonostante la sua impressionante crescita economica. Chiaramente, ci sono fattori che a volte sostituiscono le considerazioni economiche e spingono le grandi potenze ad iniziare una guerra - anche quando le danneggia economicamente.
E 'anche vero che la Cina non ha i mezzi militari per competere con gli Stati Uniti. Questo è assolutamente corretto - per ora. Ma ancora una volta, ciò di cui stiamo parlando è la situazione nel 2025 o 2030, quando la Cina avrà un apparato militare tale da raggiungere quello degli Stati Uniti. Cosa succederebbe, poi, quando la Cina avrà un prodotto interno lordo molto più grande e un esercito molto più temibile di quello che ha oggi? La storia delle grandi potenze offre una risposta immediata: la Cina cercherà di spingere gli americani fuori dall'Asia e dominare la regione. E se dovesse riuscirci, sarà la situazione ideale per affrontare Taiwan.

La capacità di resistenza Americana - Zbigniew Brzezinski risponde:

Come può la Cina spingere gli Stati Uniti fuori dell'Asia orientale? O, più acutamente, come può la Cina spingere gli Stati Uniti fuori del Giappone? E se gli Stati Uniti venissero in qualche modo spinti fuori del Giappone o decidessero di abbandonarlo a se stesso, che cosa farebbero i giapponesi? Il Giappone ha un imponente programma militare e, nel giro di pochi mesi, potrebbe avere un significativo deterrente nucleare. Francamente, dubito che la Cina potrebbe spingere gli Stati Uniti fuori dell'Asia. Ma anche se potesse, non credo che vorrebbe subirne le conseguenze: un Giappone potente, nazionalista, e dotato di armi nucleari.
Naturalmente, le tensioni con Taiwan sono il pericolo strategico più preoccupante. Ma qualunque pianificatore militare cinese deve tener conto della probabilità che, anche se la Cina potesse invadere Taiwan, gli Stati Uniti si intrometterebbero nel conflitto. Tale prospettiva vizia qualsiasi calcolo politico che giustifichi un'operazione militare finché e a meno che gli Stati Uniti restino fuori dal quadro. E gli Stati Uniti non saranno fuori del quadro per molto, moltissimo tempo.

Non è uno scenario sereno - John J. Mearsheimer risponde:

Se i cinesi sono intelligenti, sceglieranno di non attaccare Taiwan ora. Non è il momento giusto. Quello che dovrebbero fare è concentrarsi sul costruire la loro economia in modo che diventi più grande di quella statunitense. Poi potranno tradurre quella forza economica in potenza militare e creare una situazione in cui sarebbero in grado di tenere in pugno gli Stati della regione e di dare gli Stati Uniti filo da torcere.
Dal punto di vista della Cina, dominare l'Asia sarebbe l’ideale, e per il Brasile, l'Argentina, o il Messico, sarebbe ideale diventare una grande potenza e costringere gli Stati Uniti a concentrarsi sul proprio territorio. Il grande vantaggio che gli Stati Uniti hanno in questo momento è che nessuno Stato nell'emisfero occidentale può minacciare la sua sopravvivenza o la sicurezza dei suoi interessi. Così gli Stati Uniti sono liberi di vagare per il mondo disturbando le altre persone nei propri cortili di casa. Altri Stati, tra cui la Cina, naturalmente, hanno acquisito interesse nel causare difficoltà nel cortile di casa degli Stati Uniti per concentrare lì l’attenzione. Il quadro che ho dipinto non sereno. Vorrei poter raccontare una storia più ottimista per il futuro, ma la politica internazionale è un business brutto e pericoloso. Neanche tutta la buona volontà del mondo potrebbe migliorare l’intensa concorrenza esistente tra gli Stati in termini di sicurezza che si metterà in moto non appena un aspirante egemone apparirà in Asia.
 
Da Mearsheimer, J. J., and Z. Brzezinski, ‘Clash of the Titans’, Foreign Policy, No. 146 (January/February 2005)