sabato 7 novembre 2015

Scenario Turco: alle radici del successo di Erdogan

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Scenario Turco: alle radici del successo di Erdogan


Le elezioni anticipate del 1° novembre in Turchia hanno chiaramente premiato il partito del presidente Erdoğan.  Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) ha riportato il 49,3% delle preferenze, ottenendo 315 seggi, mentre l’Hdp, partito filo–curdo che aveva rappresentato la grande sorpresa delle elezioni di giugno, ha superato di poco la soglia di sbarramento del 10%, ottenendo solo 61 seggi. Pur non riuscendo a raggiungere il numero di seggi necessari (330) per indire un referendum volto a cambiare la Costituzione,  né quello per approvare in maniera diretta una modifica costituzionale (367), Erdogan ha nettamente vinto la sua scommessa. Per quali motivi il presidente turco ha stravinto ?? Erdogan ha saputo far leva sulla paura diffusa di vedere la destabilizzazione contagiare anche la repubblica fondata da Kemal Ataturk, paura che attanaglia non soltanto i sostenitori del partito islamico Akp ma il popolo turco in generale. Il clima della vigilia elettorale è stato scandito da una serie di attentati terroristici, ultimo quello del 10 ottobre ad Ankara, nonché dai crescenti timori per l'affermazione del movimento curdo che aspira all'autonomia di una parte tormentata del Paese già in conflitto, ai confini bollenti di una Siria in disgregazione da dove arrivano ogni giorno senza sosta migliaia di profughi. Il voto della paura ha visto Erdogan risollevarsi dalla batosta subita nella precedente tornata elettorale di giugno, quando l’Akp aveva perso la maggioranza assoluta dopo oltre un decennio di dominio incontrastato. La ricetta vincente prevedeva un uomo solo al comando ed un partito solo al governo per evitare coalizioni, esecutivi deboli ed inefficaci. La democrazia turca, forse ancora troppo giovane per non arrendersi alle scorciatoie proposte dall'uomo forte, ha ceduto alle sue lusinghe. Abile ad intimidire gli avversari, a spaccare il Paese su fronti contrapposti per poi riunificarlo sotto il mantello della sua leadership, Erdogan si è confermato raìs dai tratti sempre più mediorientali e sempre meno europei, come dimostrano i recenti attacchi proditori alla stampa d'opposizione ed anche le diverse invettive contro le testate giornalistiche della stampa estera. Altra chiave importante del successo politico di Erdogan sta nell’ascesa economica di questa Turchia. Rappresentando meglio di chiunque altro l'affermazione della media e piccola borghesia conservatrice musulmana dell'Anatolia, cioè di quella gran parte del Paese che per decenni era stata estromessa dalle stanze del potere da parte dei kemalisti, Erdogan si è assicurato una vasta fetta di consenso elettorale, che negli anni si è confermata alla prova delle urne. Difficile per questa Turchia popolare, trasformata dall'Akp in nuovi ceti affluenti che in questi anni hanno vissuto il grande miracolo economico della modernizzazione, voltargli le spalle.Erdogan rimane il simbolo di una sorta di peronismo all'islamica, definito da più parti “Erdoganismo”, che riesce ancora a far presa sulla maggioranza dei turchi che votano. La Turchia risulta essere una nazione costruita su alcune fondamentali contraddizioni: il governo turco infatti include le masse ma contemporaneamente esclude le opposizioni, si fonda su valori etici ma anche sul più cinico pragmatismo, si batte per il consolidamento e, allo stesso tempo, per la frammentazione della società. L’Erdoganismo è proprio il prodotto derivante da queste contraddizioni, un modello culturale proposto ed implementato dal suo principale protagonista. Nonostante il suo inespugnabile palazzo presidenziale e la debolezza delle forze politiche all’opposizione, Erdoğan appare comunque vulnerabile. La crescita economica della Turchia, carta vincente per costruire il suo consenso, sembra oggi non essere più sostenuta. Di recente ben tre newspapers autorevoli quali il New York Times, il Financial TimesForeign Affairs, hanno incluso la Turchia tra le Fragile Five, ovvero le cinque economie emergenti che nascondono profonde debolezze strutturali, insieme a Brasile, India, Indonesia e Sud Africa. L’economia turca infatti ha a lungo beneficiato di un’abbondante liquidità internazionale dovuta alla politica espansiva della Federal Reserve: tale liquidità significava abbondanti investimenti a basso tasso d’interesse, che ora, con la fine delle politiche espansive americane, rischiano di venir meno, costringendo la Turchia a far leva sulla propria politica monetaria per compensare tale deficit. Questi problemi sono tipici dei mercati emergenti, dove l’afflusso di capitali stranieri a buon prezzo permette al settore privato di indebitarsi facilmente con valuta straniera, per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano quando i capitali stranieri scappano via. Al di là di queste considerazioni di carattere economico (comunque parecchio rilevanti), la stabilità del nuovo mandato presidenziale di Erdoğan vacilla soprattutto sul fronte strettamente politico. La guerra al confine con la Siria, con gli americani che combattono a fianco dei curdi contro i terroristi dello Stato Islamico (Isis) chiedendo a gran voce il supporto di Ankara, non gioca di certo a favore del leader turco. Erdoğan sa di giocarsi il tutto per tutto nel voler perseguire ancora volta l'irrealistico e velleitario progetto di una nuova centralità turca nel Levante.  La sua strategia è stata ambigua fin dall’inizio. La complicità con i jihadisti e la resistenza ad aiutare i curdi al fronte hanno incrinato fortemente i rapporti con gli alleati occidentali e così quello che sembrava uno spazio di manovra per un grande ritorno della Turchia come potenza regionale sembra sgonfiarsi inesorabilmente. Per anni la Turchia di Erdoğan si è sentita al centro di un grande gioco, che poteva essere comodo e rischioso al tempo stesso. Da una parte aveva la Nato, gli Stati Uniti e la mano tesa, seppur fredda, dell’Unione Europea. Dall'altra aveva una regione in subbuglio che sembrava poter essere un campo rigoglioso dove sperimentare le proprie aspirazioni da potenza regionale. Fare il doppio gioco ha fatto perdere credibilità alla Turchia da entrambe le parti. La Turchia è sì un membro della Nato ed un alleato formale di Washington, ma possiede una propria agenda politica che non prevede affatto che gli Stati Uniti rafforzino la loro presenza significativa in Medio oriente. Per la sua posizione è un vero e proprio ponte tra due mondi, a metà tra Oriente ed Occidente, ma il rischio di un ponte, è quello di rompere i collegamenti con entrambe le sue due sponde, rimanendo pericolosamente isolato nel mezzo. Su scala internazionale, la vittoria di Erdogan può far storcere il naso a parecchi, ma nel concreto sia gli Stati Uniti  sia l’Europa si chiedono, anche loro timorosi non meno dei turchi: qual è l'alternativa in un Medio Oriente disgregato e di fronte ad ondate di rifugiati ? In un Paese segnato all’interno da crescenti polarizzazioni e contrasti ed all’esterno dall’aggravarsi della crisi siriana e da rinnovate ambiguità nei rapporti con l’Unione europea, la conferma di Erdogan si presenta come elemento di stabilità, ma le ripercussioni che essa potrà avere dentro e soprattutto al di fuori dei confini turchi, sono svariate e non di facile lettura.
Francesco Polizzotto

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