lunedì 22 agosto 2016

L'orso russo si è riarmato

L'orso russo si è riarmato



L’anno è il 1991, Mikhail Gorbachev, segretario generale del partito comunista sovietico, firmerà le ultime carte che sanciranno la fine dell’URSS. La bandiera rossa sulla cupola del Cremlino verrà sostituita dal nuovo tricolore russo. Seguono gli anni ’90, gli anni della transizione da economia pianificata a libero mercato, gli anni delle svendite, degli oligarchi, della crisi economica. La Russia è allo sbando, il tessuto sociale lacerato, e ogni pretesa di rivestire il precedente ruolo di super potenza pura utopia. Le forze armate in parte congedate, ciò che resta, il minimo sindacale, assisterà impotente all’accumulo nei depositi, nei porti, negli aeroporti, di mezzi aerei marittimi e terrestri, che negli anni ’80 rappresentavano l’ossatura dell’esercito più numeroso del mondo, condannati alla rugginosa erosione.

Gli enormi sottomarini nucleari classe Typhoon,[1] la cui realizzazione era costata al popolo sovietico ben più di un sacrificio, abbandonati sui moli o affondati. Il progetto di costruzione delle super portaerei (per contrastare la US Navy) abbandonato e il secondo prototipo, la Varyag[2], completato all’80% e venduta alla Cina. Nelle regioni centrali enormi parcheggi di veicoli blindati e aeromobili dismessi. Ciò che rimane attivo dell’esercito russo viene scarsamente addestrato e poco motivato, summa di fattori che si paleserà nella rovinosa e scellerata conduzione della prima guerra di Cecenia.

Gli anni 2000 sono gli anni dell’aumento del prezzo del greggio, che in Russia coincide con l’aumento dell’export,[3] sono gli anni del pugno duro antidemocratico di Vladimir Putin, della lotta agli oligarchi e del conflittuale e controverso rapporto con la stampa. Ma sono anche gli anni in cui la Russia costruisce le premesse per ciò che si concretizzerà nell’intervento a fianco della Siria di Assad e il colpo di mano della Crimea.

Se la geopolitica è lo studio dei rapporti fra gli stati nazione, regolati in ultima istanza dalla forza, la Federazione Russa, ha dimostrato di nutrire rinnovate ambizioni di potenza regionale, investendo sull’ammodernamento delle proprie forze armate. Il faraonico progetto è iniziato nel 2008 e dopo alcuni rallentamenti (dovuti alla deflagrazione della famosa bolla finanziaria) nel 2013 è entrato a pieno regime.[4] Il Governo Putin ha dichiarato: “assicurare le capacità di difesa della Russia è una priorità della nostra politica. Sfortunatamente il mondo, per come è oggi, non supporta uno sviluppo tranquillo e sicuro”

Il punto è che il mondo è diverso da come si configurava negli anni ’90, Gli Stati Uniti e la NATO non hanno più le risorse finanziarie per sviluppare autonomamente progetti per di ricerca e ammodernamento dei sistemi d’arma, così come la Russia o la Cina, ecco perché il nostro momento storico è contraddistinto dalla nascita dei consorzi. Associazioni economiche di nazioni che mettono a frutto risorse finanziarie, tecnologiche e di manodopera per la realizzazione di armi comuni che serviranno ad armare gli eserciti alleati.

Il modo migliore, insomma, per abbattere i costi di ricerca e sviluppo. La Russia, insieme ai BRICS, è riuscita a produrre ( e con un certo anticipo rispetto all’occidente) il primo caccia da superiorità aerea di quinta generazione: Il SU-T50 PAK-FA[5] (PAK-FA è l’acronimo russo del nostrano V-TOL, Vertical Take OFF and Landing, decollo e atterraggio verticale) Un aereo che ,a detta degli analisti occidentali, supererebbe in prestazioni il tanto blasonato F-35 Lightning II.

Ma il SU-T50 non è l’unico mezzo su cui il governo russo ha investito, hanno giovato dei nuovi fondi anche gli apparecchi già in servizio costruiti in epoca sovietica, come i SU-33 nella loro versione navale, aggiornati e portati allo standard di generazione 4.5, le pesanti navi di superficie classe Kirov[6] ammodernate e messe alla testa delle quattro flotte della marina russa, si è avuto anche l’ammodernamento dell’unica super portaerei in forza alla flotta, l’Admiral Kuznetsov,[7] garantendo quindi alla federazione una notevole capacità operativa anche al di fuori delle proprie acque territoriali. 

A ciò si affianca l’aggiunta di 12 nuovi sommergibili a propulsione diesel, che vanno a rimpinguare la flotta sottomarina numericamente più consistente del mondo. Anche le truppe di terra hanno subito un notevole potenziamento, il giorno della celebrazione della vittoria nella grande guerra patriottica (è così che i russi chiamano la seconda guerra mondiale) è stato presentato al mondo il T-14 Armata,[8] il nuovo MBT (Main Battle Tank) che entro il 2020 dovrebbe sostituire gran parte degli ottimi T-80/90 ancora in servizio nell’esercito. 

La presentazione di un nuovo carro da battaglia, ad una parata pubblica, da parte di un governo che da tradizione è sempre stato fanaticamente geloso dei propri segreti militari, dimostra come la Russia intenda mandare un messaggio chiaro all’occidente e soprattutto alla NATO, “la Russia prenderà tutte le contromisure necessarie”.[9] Il che implica anche l’ammodernamento dei sistemi di difesa antiaerea con l’ingresso dei modernissimi S-400[10] (schierati anche in Siria dopo l’abbattimento del SU-24 Fencer da parte dell’aviazione turca) e il potenziamento delle truppe missilistiche per garantire quel margine di deterrenza nucleare cui Mosca crede ancora.

In ultima istanza è bene sottolineare come anche dal punto di vista informatico la Russia abbia fatto notevoli passi avanti con l’inserimento (ancora in via sperimentale) del sistema RATNIK.[11] Un sistema di Data-Link che dovrebbe collegare in tempo reale ogni soldato al centro di comando, permettendo una fruizione più chiara degli ordini ed un’incrementata efficacia sul campo. Tutti questi investimenti dimostrano in maniera evidente come Mosca abbia deciso di abbandonare il ruolo di remissiva e instabile nazione datale dagli sconvolgimenti degli anni ’90, decidendo di tornare ad essere protagonista della politica internazionale, utilizzando l’efficacia del proprio esercito come strumento di pressione soprattutto nei confronti dei vicini. Sull’efficacia di tale manovra è presto per esprimersi, di certo la Russia dovrà pensare di differenziare le proprie fonti di guadagno andando oltre la vendita di petrolio e gas naturale, perché tali progetti a lungo termine è bene farli senza la schiavitù del prezzo del barile che incide ora positivamente, ora negativamente, sul PIL.
Fabrizio Tralongo

Note:
[2] http://www.naval-technology.com/projects/varyag-aircraft-carrier-china/

martedì 16 agosto 2016

Cambiare si può ma non a tutti i costi: brevi riflessioni sulla riforma costituzionale

Cambiare si può ma non a tutti i costi: brevi riflessioni sulla riforma costituzionale



Sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi si è già detto molto, da parte di studiosi del diritto costituzionale, politologi, politici, giornalisti, esponenti della società civile...ognuno ha espresso la propria opinione, chi a favore e chi contro. Per cui, senza addentrarci troppo nel merito della riforma, ci preme solo esprime alcune considerazioni di metodo e di sostanza. Partiamo dal metodo.

La materia delle riforme costituzionali è una materia, per eccellenza, parlamentare, nel senso che, essendo la Costituzione l'atto fondativo e fondamentale dello Stato, un bene che appartiene a tutti e non ad una sola parte politica, si è sempre lasciato alla libera determinazione delle forze politiche presenti in Parlamento la materia della revisione della Costituzione, dovendo mantenere il Governo, che è espressione di una maggioranza politica, una posizione di neutralità. Scriveva, al riguardo, Piero Calamandrei nel 1947: «Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana» ( P. Calamandrei, Come nasce la nuova Costituzione, ne Il Ponte, 1947, 1ss ).

Come noto, la procedura di revisione della Costituzione è disciplinata dall'articolo 138, il quale prevede una doppia lettura di entrambe le Camere del progetto di riforma, con un intervallo di almeno tre mesi ed un referendum confermativo, nel caso in cui la riforma non venga approvata da una maggioranza qualificata corrispondente ai 2/3 dei componenti del Parlamento: la ratio della norma è appunto quella di favorire la più ampia convergenza delle forze parlamentari, atteso che non si tratta di adottare una semplice legge ordinaria ma di modificare la Carta fondamentale della Repubblica. In passato, il Parlamento, in diversi tentativi di riforma dell'impianto istituzionale, anziché usare la procedura ordinaria di revisione di cui al citato art. 138, ha preferito istituire degli organismi ad hoc, ossia delle commissioni parlamentari, a composizione bicamerale, i cui progetti di riforma non hanno mai visto la luce. Dopo il fallimento dell'ultima Bicamerale del 1997, quella presieduta dall'allora segretario del PDS Massimo D'Alema, tuttavia il Parlamento ha abbandonato il ricorso alle commissioni bicamerali, utilizzando invece la procedura ordinaria “secca” di revisione di cui all'articolo 138 citato: ciò è accaduto, ad esempio, con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 e con il progetto di riforma costituzionale del 2006, voluto dal Governo Berlusconi, ma non approvato dal referendum confermativo. Con il tramonto del metodo bicamerale, si è avuto, quindi, un progressivo abbandono della originaria e naturale posizione di neutralità ed un maggiore e più incisivo intervento del Governo nei processi di revisione costituzionale, il quale ha assunto sempre più il ruolo di propulsore principale del procedimento di revisione costituzionale.

L'attuale disegno di riforma costituzionale, per l'appunto, nasce da una proposta del Governo, il cui disegno di legge porta la firma del Presidente del Consiglio Matteo Renzi e del Ministro delle riforme Maria Elena Boschi. Da un un punto di vista costituzionale, nulla da eccepire, atteso che l'iniziativa legislativa del Governo non è esclusa nella procedura di revisione di cui all'art. 138. Tuttavia, la scelta del Governo e dell'attuale Parlamento di farsi carico di riformare la Costituzione lascia parecchio perplessi. In primo luogo, quello attuale non è un Governo con una diretta legittimazione popolare: vero è che il nostro attuale sistema parlamentare consente al Presidente della Repubblica di dare incarico per formare il Governo a chi abbia una maggioranza parlamentare; ma è pur vero, a Costituzione invariata, che nel nostro Paese, a partire dal 1994, le leggi elettorali hanno sempre indirizzato gli elettori a scegliere una coalizione di governo, il cui leader è stato poi chiamato a ricoprire il ruolo di Capo del Governo: il cd. Porcellum prevedeva addirittura che il partito o la coalizione indicassero all'atto di presentazione del simbolo e delle liste il relativo capo, proprio per sottolineare una quasi elezione o investitura popolare del futuro premier. Il Governo Renzi non è il Governo uscito dalle consultazioni politiche del 2013: quelle elezioni furono vinte sì dal centrosinistra, ma senza una maggioranza in Senato, tant'è che la situazione di empasse venne superata dall'allora Presidente Napolitano con la formazione di un governo di “larghe intese” , guidato da Enrico Letta, la cui maggioranza parlamentare era costituita da gran parte delle forze politiche presenti in Parlamento, sia di sinistra che di destra.

Il governo Renzi nacque con la caduta del “governo delle larghe intese” e si sostituì ad esso, con una nuova maggioranza parlamentare, non più ispirata al modello della “grande coalizione”, ma allargata a spezzoni che si erano staccati dalla destra: un Governo costituzionalmente legittimo, per carità, ma privo di una legittimazione popolare, e che nonostante ciò ha deciso di revisionare, stravolgendola, gran parte della Costituzione. Un secondo aspetto, riguarda poi l'attuale Parlamento, figlio di una legge elettorale, il già citato
Porcellum, che con sentenza 1/2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima. Può un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale ergersi a potere costituente? Possiede quella "coscienza costituente " di cui parlava l'insigne Maestro Costantino Mortati?

Andiamo ora alla sostanza, nei suoi aspetti principali. In primo luogo, la riforma utilizza un linguaggio poco chiaro, eccessivamente tecnico e strapieno di continui rinvii ad altre norme. Basta leggere il nuovo articolo 70 Cost., che disciplina la potestà legislativa, per rendersene conto. Ciò premesso, il fulcro centrale della riforma è il superamento del bicameralismo perfetto, che i Padri costituenti vollero introdurre non per mero capriccio ma come elemento imprescindibile di democraticità di ciascuna legge. Il Governo ha voluto in questo modo tagliare o ridurre i costi della politica: una sola Camera eletta direttamente dai cittadini, mentre il Senato, la cui composizione scende dagli attuali 315 a 100 componenti, non sarà più eletto dai cittadini ma sarà espressione delle autonomie territoriali. Inoltre, esso interverrà nel procedimento legislativo solo per poche e specifiche leggi, indicate per rinvio dall'art. 70 cost., mentre tutte le altre leggi saranno approvate dalla sola Camera. Osserva, al riguardo, Ugo De Siervo, costituzionalista e presidente emerito della Corte Costituzionale: “perché non è stato abolito il Senato, questo deve essere ben chiaro; il Senato è stato depotenziato, è stato ridotto a fare meno cose. Una cosa grossa in meno fa, non da più la fiducia al governo che è un vantaggio per i governi il che non è né diabolico, né nulla, comunque è un vantaggio per i governi. Poi però per tenere in piedi questo organo gli hanno dato tanti altri pezzi di funzioni; un organo per avere legittimazione da una parte deve avere una rappresentatività e dall'altra delle funzioni; ecco, qui le funzioni erano debolucce; intanto c’era la revisione della Costituzione che è una cosa importantissima, e poi gli hanno aggiunto un po’ di competenze legislative piene, sedici materie. Dunque il Senato può votare leggi, queste sedici leggi possono passare solo con il consenso di Camera e Senato. Ma in questa riforma queste materie sono, come dire, un pot pourri, cioè prese un po’ da una parte un po’ dall’altra, soprattutto non toccano il punto decisivo; il punto decisivo sarebbe che il Senato dovrebbe avere più potere laddove si discute di articolazione periferica dello Stato, dove si parla di autonomie regionali e locali e invece quelle competenze non gli sono state date, tutto ciò che il Parlamento dovrà decidere sulle regioni viene deciso dalla Camera dei deputati con solo un parere del Senato. Il Senato decide sui trattati con l’Unione Europea, sulla legislazione fondamentale sugli enti locali, su Roma capitale e quant'altro, cioè su cose marginali relativamente meno importanti, soprattutto poco significative, se il Senato dovesse davvero garantire le regioni, che sono state al contempo molto depotenziate. Poi avrebbe delle fantastiche funzioni di controllo sul governo; però è strano un Senato che non dà più la fiducia al governo ma ne controlla l’operato. E qui c’è un po’ una scissione, una contraddizione”. ( intervista di Giovanni Floris al prof. Ugo De Siervo nel programma “Di Martedì” de “La 7” del 7 giugno 2016).

Se la ratio della riforma del bicameralismo perfetto era un risparmio economico, lo stesso risultato, e forse ancora meglio, si poteva ottenere mantenendo l'attuale bicameralismo perfetto, con alcuni correttivi limitativi della cd. navicella, ma riducendo i componenti della Camera dei deputati a 400 e i componenti del Senato a 100, per un totale di 500 parlamentari, a fronte degli attuali 730 previsti dalla riforma. Il superamento del bicameralismo perfetto prevede inoltre che il rapporto di fiducia esista solo tra la Camera dei Deputati ed il Governo. E fin qui, nulla di strano, rispetto anche ad altre esperienze costituzionali straniere. Solo che, in Italia, la legge elettorale della Camera dei Deputati, il cd. Italicum entrato in vigore il 1 luglio di quest'anno, prevede un sistema in cui i capilista sono bloccati e al partito vincitore, anche nell'eventuale turno di ballottaggio, è assicurato un premio di maggioranza tale da avere 340 deputati: in buona sostanza, il segretario del partito che vincerà le elezioni e che con elevata probabilità sarà chiamato a svolgere il ruolo di Capo del Governo, avrà scelto i capilista e quindi si ritroverà con una maggioranza parlamentare di suoi nominati, che difficilmente potranno sfiduciarlo.

L'impianto istituzionale che viene fuori dalla riforma, pertanto, rischia di creare un disequilibrio tra i poteri dello Stato, con un Governo in posizione di supremazia nei confronti del Parlamento e senza che sia stato previsto un controbilanciamento, ad esempio, delle garanzia costituzionali, attraverso il sistema del ricorso diretto alla Corte Costituzionale, così come accade in Germania o, ancora meglio, in Spagna attraverso l'istituto del ricorso d'amparo. Con l'ulteriore gravissima aggravante che i cittadini, che a novembre saranno chiamati ad esprimersi con il referendum confermativo, si troveranno davanti un quesito referendario che farà riferimento ad una legge di riforma titolata sul superamento del bicameralismo paritario e sui tagli dei costi della politica, quando, invece, la riforma inciderà pesantemente sull'attuale forma di governo, introducendo, nel silenzio dei più ma soprattutto senza dirlo chiaramente ai cittadini, un surrettizio premierato forte. 

Infine, un aspetto curioso che riguarda la ratifica dei trattati internazionali: la riforma, infatti, crea una distinzione tra i trattati in generale ed in trattati che riguardano l'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea. Per i primi, la ratifica è autorizzata dalla sola Camera dei Deputati, mentre per i secondi la ratifica dovrà essere autorizzata da entrambe le Camere. Tale discrasia appare incomprensibile, soprattutto se si considera che le Regioni, di cui il Senato riformato dovrebbe essere la massima espressione di rappresentanza e coordinamento, a norma dell'art. 117 Cost,, anche nel testo novellato, provvedono a dare esecuzione ed attuazione non solo ai vincoli derivanti dall'appartenenza all'Unione europea ma anche ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
A cura di
Dott. Rosario FioreCultore di diritto pubblico comparato e diritto internazionale all'Università degli Studi di Palermo
Dott. Gabriele MessinaPresidente IMESI

giovedì 11 agosto 2016

La “Jihad” in Europa: Percorsi di radicalizzazione

La “Jihad” in Europa: Percorsi di radicalizzazione



Nel mese trascorso, l’Europa è stata nuovamente colpita da una serie di gravi attentati messi in atto  da singoli individui e rivendicati nel nome dello Stato Islamico ( ISIS ). Il 14 Luglio, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, un cittadino tunisino residente in Francia, uccide più di 80 persone e ne ferisce un centinaio lanciandosi alla guida di un camion di 19 tonnellate nel mezzo della folla spettatrice alla celebrazione della festa nazionale della “Presa della Bastiglia” sul lungomare di Nizza. Alcuni giorni dopo, in Germania, un ragazzo afghano di soli 17 anni, richiedente asilo, attacca con un coltello e un’ascia i passeggeri di un treno diretto a Wurzburg, ferendone 4 prima di essere ucciso dalla polizia. Altri due attacchi rivendicati nel nome dell’ISIS vengono perpetrati successivamente: un attacco suicida il 24 Luglio ferisce 15 persone nella città tedesca di Ansbach, e il 26 Luglio, due attentatori che giurano fedeltà allo Stato Islamico attaccano una chiesa nei sobborghi di Rouen, tagliando la gola al parroco di 84 anni e prendendo in ostaggio altre 4 persone. Alcuni giorni fa un immigrato regolare, a Charleroi in Belgio, aggredisce a colpi di machete due poliziotte, ferendole, al grido di “Allah Akbar”.
Questi attentati sono parte di una più ampia escalation di violenza portata avanti da singoli individui. Analisti, giornalisti e studiosi hanno inquadrato i responsabili nel fenomeno del “lupo solitario”: singoli individui che mancano di un sostanziale collegamento all’ISIS o ad altri gruppi jihadisti che compiono queste operazioni senza l’assistenza di altri membri.
Un fattore in controtendenza adesso, rispetto agli attacchi di Charlie Hebdo, del Bataclan e di Bruxelles, dove gli autori erano ex-foreign fighters ritornati in Francia e Belgio per condurre attacchi e mostravano chiara alleanza allo Stato Islamico nelle cui fila avevano già militato.
Il fenomeno dei foreign fighters sembra essere più controllato dalle intelligence europee che adesso collaborano maggiormente con un paese di passaggio di jihadisti come la Turchia, in base a un controverso accordo che rischia adesso di vacillare visti i recenti fatti accaduti in Turchia, dove il fallito golpe ha mostrato l’inasprimento di una politica sempre più nazionalista e accentratrice del presidente Erdogan.
In Siria e in Iraq, lo Stato Islamico arretra sempre di più nel controllo dei territori, sotto gli attacchi della coalizione a guida statunitense, supportata dalle milizie curde e dall’esercito iraqeno.
Questo arretramento e il capillare controllo del passaggio dei foreign fighters ha portato l’ISIS ad un cambio di strategia nella lotta all’Occidente. La propaganda on-line è stata potenziata al fine di “radicalizzare” individui già presenti nel territorio europeo e mondiale per colpire con qualsiasi mezzo qualsiasi obiettivo presente sul territorio. L’enfasi viene data ai cosiddetti “soft target” ovvero luoghi poco sensibili e sorvegliati, come parchi, chiese, spiagge.
Il fenomeno della radicalizzazione è tutt’oggi alquanto complesso. Vari studi sono stati condotti a riguardo e alcuni fattori giocano un ruolo fondamentale nel facilitare il processo di estremizzazione ideologica in alcuni individui presenti nel tessuto sociale delle città europee, perpetrato dalla propaganda jihadista con quella che oggi è una vera e propria ideologia alternativa all’Occidente.
I fattori e i processi coinvolti nella radicalizzazione e il reclutamento sono altamente individualizzati e complessi. La sostanziale ricerca accademica ha effettivamente screditato la nozione secondo cui esistono previsioni generalizzanti per la radicalizzazione. Anche all’interno delle aree calde di alta radicalizzazione che formano un significativo numero di jihadisti pronti al martirio, esiste un’alta proporzione di popolazione con caratteristiche demografiche similari che non si radicalizza o non si unisce a gruppi estremisti. Tuttavia esistono dei “trend” che possono aiutare a spiegare perché certe aree o contesti sociali favoriscono la radicalizzazione di individui piuttosto che altre.
Il primo e più significativo trend è quello del “risentimento sociale” legato a “problemi individuali” che può portare molto spesso alla radicalizzazione e al reclutamento. La situazione critica dei musulmani sunniti in Siria ed Iraq e le atrocità commesse dal regime brutale di Bashar al-Assad, sicuramente servono come sufficiente motivazione per coloro i quali decidono di partire in Siria ed Iraq per unirsi allo Stato Islamico, che sembrano farlo per ragioni ed impeto personali. La prospettiva di trovare identità, scopo, appartenenza ed avventura sembrano guidare maggiormente giovani europei musulmani verso la jihad, più che per ragioni teologiche.[1] Le stesse ragioni sembrano influenzare singoli individui a compiere la guerra santa in “casa propria”, casa che verosimilmente li ha in qualche modo traditi e fuorviati.
Un altro trend comune è la presenza in certe aree, nelle nostre città, di una o più figure carismatiche già affiliate alla causa jihadista. Ci sono numerosi esempi di influenti reclutatori dell’ISIS, in particolare negli “hotbeds” di reclutamento sul territorio europeo prevalenti in Francia, Belgio, Bosnia. Questi leader carismatici tendono a predicare a target di individui particolarmente vulnerabili nelle città o nei quartieri nei quali operano, spesso parlando a giovani disillusi e con crimini alle spalle. La loro presenza e la conoscenza dei problemi della comunità nella quale vivono, sommata all’interazione fatta “in presenza” dei potenziali reclutati, permette loro di affermare il loro messaggio estremista come soluzione al risentimento sociale e di massimizzarne l’efficacia. I reclutatori riescono a “capitalizzare” i propri reclutati, partendo dal loro senso preesistente di non appartenenza alla società in cui vivono. L’interazione fatta di presenza è poi accompagnata da una fitta comunicazione tramite i social network e applicazioni di messaggistica che danno luogo alla “tempesta perfetta” per il reclutamento, mettendo in comunicazione i reclutati con i reclutatori o amici già presenti nel sedicente Stato Islamico, e quindi ben posizionati per fornire istruzioni e ordini da parte del Califfato. Per fornire un esempio di comunicazione adottata dai jihadisti, l’applicazione di messaggistica istantanea più usata oggi, è Telegram.
Telegram è un software liberamente e gratuitamente scaricabile su diverse piattaforme, ed è stato ideato dal programmatore russo, Pavel Durov, nel 2014.
Durov, profondo sostenitore dell’indipendenza dei dati e della privacy, aveva lanciato nel 2006 il social network Vkontakte, che diventa il primo social network russo. Tuttavia con VK, Durov incontra dei problemi con Putin, il quale gli aveva chiesto, invano, di fornirgli informazioni sui ribelli ceceni nel 2014.
Sotto pressione, Durov decide di cedere l’azienda di Vk, e concepisce l’idea di lanciare un’applicazione impenetrabile, che non lasci tracce visibili. Da quest’idea nasce Telegram, che con il criptaggio completo dei messaggi, che si autodistruggono, insieme ai profili utenti, rende Telegram ad oggi, molto difficile da tracciare. Inoltre Telegram si muove al contempo su diverse giurisdizioni ( anche se la sede legale è a Berlino ) il che evita il più delle volte di essere soggetti a richieste di dati da parte dei governi
L’esistenza di un programma di messaggistica come Telegram permette quindi la comunicazione tra “gruppi di fratellanza” per potere scambiare informazioni senza essere facilmente scoperti.
Un altro trend comune e’ l’ideologia jihadista, ispirata dalla corrente salafita. Il “jihadismo” e’ stato frequentemente descritto come “la chiamata alle armi” secondo l’ideale della jihad contro i nemici comuni non-musulmani e contro i governanti dei paesi musulmani che vengono considerati apostati. Allo stesso tempo, il jihadismo viene raffigurato come l’idea radicale della religione islamica secondo cui l’incessante lotta contro l’Occidente e i suoi alleati, rappresenta un dovere morale.
L’ideologia jihadista differisce da altre ideologie militanti radicali per la sua ambizione di conferire al “credente-militante” una sorta di purificazione, un nuovo inizio e un’identità autentica, e allo stesso tempo configura una missione chiara nel mondo presente e nel mondo ultra-terreno.[2]
E’ con questa ideologia, diffusa ampiamente attraverso la rete che l’ISIS al giorno d’oggi, ancora piu’ di Al Qaeda qualche tempo fa, riesce a fare sempre piu’ proseliti. E’ diventato ormai un brand che viene pubblicizzato e venduto sul mercato, e piu’ diventa di moda, ancor piu’ può svilupparsi a macchia d’olio soprattutto fra i giovani, di diversa provenienza geografica e condizione socio-economica.
Secondo Oliver Roy, per capire il fenomeno della radicalizzazione bisogna prendere le distanze da due false affermazioni. In primo luogo, e’ falso pensare che i giovani musulmani, nella loro condizione odierna siano endemicamente impossibilitati all’integrazione nelle società occidentali e nel sistema internazionale moderno. In secondo luogo, gli effetti negativi del post-colonialismo, come la percezione di essere inevitabilmente esclusi dalle società occidentali, e l’identificazione nella causa palestinese con la relativa opposizione all’intervento “crociato” in Medio Oriente, sono erroneamente considerati i fattori scatenanti decisivi alla causa jihadista. In realtà, queste non sono le piu’ grandi ragioni che guidano le nuove generazioni musulmane alla militanza anti-occidentale. Secondo l’autore, il jihadismo di oggi non e’ ne’ una rivolta dell’Islam, ne’ una rivolta dei musulmani. E’ un fenomeno che investe due specifiche categorie di giovani: le seconde/terze generazioni di immigrati e i nuovi convertiti all’Islam. Questi due gruppi condividono le stesse esperienze di scontro generazionale con i genitori per la loro cultura “originale” che in principio simboleggiano. Questo fa si’ che i giovani non assumano un’identità ben definita e inclusiva dei valori originali dei genitori e dei nuovi valori dati dalla società nella quale sono cresciuti. Vivono in una specie di “limbo” identitario, in cui non affermano e non sviluppano una nuova identità. L’ideologia jihadista invece, e’ capace di conferire una missione, uno scopo, un nome di battaglia. Ed ecco che una nuova identità viene fuori, da poter “acquistare” sul mercato. E’ la dinamica dell’islamizzazione del radicalismo. Il jihadismo di oggi e’ la chiara espressione di una rivolta che esiste già nelle menti di molti giovani e nelle nostre società, fomentata piu’ dal nichilismo che dall’idealismo.[3]
Il quarto e ultimo trend e’ il cambiamento del processo di radicalizzazione che passa dai luoghi fisici alla rete, usando le piu’ sofisticate tecnologie.
Con il boom dei social media e della comunicazione decriptata, la radicalizzazione e la pianificazione possono facilmente aver luogo interamente online. L’ISIS ha capitalizzato l’evoluzione delle tecnologie di comunicazione creando coese comunità in rete che sviluppano un senso di “remota prossimità” così da facilitare la radicalizzazione. Il gruppo ha inoltre creato un team di “pianificatori virtuali” che usano Internet per identificare i reclutati e coordinare gli attacchi, spesso senza mai incontrare fisicamente gli esecutori.[4]
Un’importante fattore da considerare e’ che il fenomeno dei “lupi solitari” e’ spesso fuorviante, in quanto la maggior parte degli attacchi perpetrati apparentemente da singoli individui, dimostravano poi la compiacenza, l’appoggio e la complicità di altri individui, facenti parte dello stesso “network”.
In conclusione, analizzati questi trend comuni e ricorrenti nel processo di radicalizzazione del terrorismo di matrice jihadista, e’ necessario comprendere il fenomeno in se’, e cercare di comprendere in cosa l’Occidente ha sbagliato nell’annoverare nelle proprie fila, aspiranti combattenti e oppositori. E’ necessario un recupero di valori umani come la tolleranza, l’inclusione sociale e il dialogo, cercando di costruire sempre piu’ ponti e sempre meno muri tra culture e credenze diverse. Dal canto suo, la società islamica presente in Europa, avendone sposato la cultura e gli ideali, debba prendere coscienza del problema jihadista al proprio interno e debba opporvisi in maniera ferma e manifesta, prendendone le distanze, denunciando anche il minimo movimento sospetto, non identificandosi in nessun modo con questa ideologia, e recuperando i giovani, salvandoli da questa crisi identitaria profonda. Facendo un parallelismo con quella che e’ la mentalità mafiosa nelle realtà del meridione italiano, e’ necessario che cessi una certa “omerta’” presente in alcuni contesti sociali delle comunita’ islamiche in Europa, vedi Molenbeek in Belgio.
Per quanto riguarda i network e il trend digitale del radicalismo, e’ necessaria una riorganizzazione capillare delle intelligence e delle forze dell’ordine europee, al fine di cooperare nello scambio di informazioni e dati nella lotta al jihadismo radicale. In Europa è un lavoro che viene fatto a livello interstatale da Europol e Interpol. E’ necessario potenziare il lavoro di queste due agenzie e cooperare il piu’ possibile con esse contro quello che oggi e’ ormai un fenomeno globale, non piu’ inquadrabile entro i propri confini nazionali, destinato purtroppo a durare nel tempo.
Danilo Lo Coco



[1] Soufan, A, Shoenfeld, D, “Regional Hotbeds as Drivers of Radicalization”, in “Jihadist Hotbeds – Understanding Local Radicalization Processes”, Ispi, 2016, http://www.ispionline.it/it/EBook/Rapporto_Hotbeds_2016/JIHADIST.HOTBEDS_EBOOK.pdf
[2] Maggiolini, P., Varvelli, A., “Conclusions” in “Jihadist Hotbeds – Understanding Local Radicalization Processes”, Ispi, 2016,
 http://www.ispionline.it/it/EBook/Rapporto_Hotbeds_2016/JIHADIST.HOTBEDS_EBOOK.pdf
[3] Roy, O., “Le djihadisme est une revolte generationnelle et nihiliste”, Le Monde, 24 November 2015,
http://www.lemonde.fr/idees/article/2015/11/24/le-djihadismeune-revolte-generationnelle-et-nihiliste_4815992_3232.html
[4] Gartenstein-Ross D. and Barr, N., “The Myth of Lone-Wolf Terrorism – The Attacks in Europe and Digital Extremism, in “Foreign Affairs”, 26 Luglio 2016,


 

mercoledì 27 luglio 2016

La solitudine di Donald Trump


La solitudine di Donald Trump



 



“ Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Con questa frase, in Ecce Bombo, Nanni Moretti rendeva evidente come certe assenze, in particolari occasioni, possano risultare fragorosamente stridenti.
E probabilmente il pensiero di quei nomi mancanti alla convention repubblicana, dove è stata ufficializzata la sua nomination, avrà dato al neo candidato repubblicano alla Casa Bianca ben piu’ di un’ amara certezza e parecchi spunti di riflessione.

Ebbene sì, colui che del Self-Made ne ha fatto una filosofia di vita (oltre che un’efficacissima campagna pubblicitaria), l’uomo delle inconsapevoli citazioni a Mussolini, degli slogan a sfondo razziale, e del piu’ generico menefreghismo nei confronti dei media, dell’opinione pubblica e del politically correct, non avrà potuto ignorare l’assenza di fondamentali nomi che hanno retto la storia recente dell’elefantino a stelle e strisce. Parliamo chiaramente dei fautori delle due guerre del Golfo, i due presidenti Bush senior e Bush Junior, una famiglia che ha, in un certo senso, aperto la stagione della controversa ( e fallimentare) lotta al terrorismo americana, è vuoto anche il posto di John McCain, repubblicano di ferro, reduce del Vietnam, uscito sconfitto dal confronto con Obama, e mancano anche i suoi rivali diretti che, nonostante gli iniziali sondaggi, sono finiti uno dopo l’altro, sotto lo schiacciasassi demagogico e populista targato Donald Trump.

Malgrado la sicurezza che ostenta, il contraccolpo sull’astro nascente dal parrucchino platinato, sortirà degli effetti. Si può pensare di vincere facendo leva sulle piu’ ataviche e intime paure legate alle diversità, si puo’ pensare di porsi come colui che rigetta il vecchio appellandosi ai piu’ tradizionali valori dell’America rurale, si puo’ cercare di corteggiare l’elettore medio, promettendo un futuro libero dal crimine degli immigrati latini, un futuro in cui la zavorra Europa non dovrà piu’ essere puntellata con l’aiuto dell’esercito e degli onesti contribuenti statunitensi, perché ” Make America Great Again” non è soltanto uno slogan, ma una filosofia, è l’America che rivuole l’ottimismo, la supremazia, l’apparente inviolabilità dei suoi anni ’50.

Ma non si puo’ sperare di vincere senza l’appoggio del proprio partito, quel partito di cui oggi Trump dice di poter fare a meno ma che costituirà inevitabilmente l’ago della bilancia nello scontro con Hillary. La stessa Hillary che al momento attuale ha sanato i suoi dissapori col rivale Sanders,[1] che è riuscito a strapparle forse la vera vittoria cui ambiva: Il voto giovanile, che la Clinton non potrà non tenere in considerazione, e che dovrà dimostrare di sapersi guadagnare, attuando, se non tutte, almeno in parte, le istanze “socialisteggianti” del navigato Sanders.

Da un lato quindi, un partito repubblicano diviso con un candidato che trae sempre piu’ forza ad ogni attentato commesso o rivendicato dall’Isis, costruendo il proverbiale nemico esterno che deve fare da collante, che vuole smantellare l’ObamaCare[2] e considera diritto di ogni vero, libero, e onesto cittadino americano possedere un’arma a scopi di auto difesa.
Dall’altro un partito Democratico che si dimostra inabile nel saper sfruttare mediaticamente le notizie a proprio vantaggio, trasformandole in percentuale di gradimento, una Hillary che non sa veicolare la generalizzata voglia di rinnovamento presente nell’elettorato e che via via viene percepita sempre piu’ come facente parte di un’epoca già chiusa, di un’America troppo permissiva con gli immigrati e troppo sfruttata dagli alleati. Con un Obama che, allo scadere del suo secondo mandato, non è riuscito a spuntarla circa la sua battaglia piu’ importante: La limitazione nella vendita delle armi da fuoco, anzi, sembra proprio che all’ennesima strage, che sia di matrice islamica, o legata al superomismo bianco, il messaggio che filtra è l’opposto di cio’ che si aspetta Barack: Se i diretti interessati fossero stati bene armati tutto cio’ si sarebbe potuto evitare.

In un mondo sfaccettato, in cui le logiche della guerra fredda sono venute meno, in cui il Drago sovietico è stato sconfitto e gli Stati Uniti, passata l’euforia dei primi anni ’90, si sono ritrovati in una fossa piena di serpenti rappresentati dalla Corea del nord ed i suoi rinnovati propositi nucleari, il terrorismo, la destabilizzazione del medio oriente, il ritorno di una Russia col ruolo di potenza regionale[3] in grado di influenzare la politica dei paesi limitrofi e che si oppone apertamente all’allargamento NATO verso oriente[4], e le rinnovate tensioni razziali sul fronte interno, l’amministrazione Obama si è trovata sempre piu’ in difficoltà nello stare al passo durante questi anni. Difficoltà legate al ruolo di unica superpotenza ereditato dagli USA nel 1991.

Ed e’ qui che il businessman Trump è riuscito a ritagliarsi la propria nicchia facendo credere di nuovo realizzabile un’America sicura, risoluta e salda attorno ai valori tradizionali. Un’America di nuovo grande. Un’America che per milioni di contingenze non potrà piu’ tornare, ma questo l’elettore medio lo ignora, o forse no, di sicuro non vuole accettarlo, e preferisce farsi cullare dalle tanto rassicuranti quanto familiari parole dell’ imprenditore deciso, con fiuto per gli affari, magari mentre accarezza la propria pistola nella fondina, perché difendere se stessi e la propria famiglia è un diritto inalienabile di ogni uomo, soprattutto in un’epoca di incertezze come questa.

E Trump è contagioso quando parla della sua America di nuovo grande. Un’America che per essere “great again” deve liberarsi di certi spettri ( e costruire ciclopiche mura difensive a spese dei messicani) [5]

E l’ago della bilancia probabilmente sarà non la percentuale di chi si recherà alle urne questo Novembre, ma i repubblicani della vecchia guardia, la frangia moderata del partito, quella legata alla tradizione neoliberalista che non si arrocca su posizioni nettamente xenofobe e populiste e che, percependo l’uragano Trump come fonte di imbarazzo e danno di immagine, vaglia concretamente la possibilità dell’astensionismo, o in extremis, l’appoggio velato e l’amara concessione di qualche voto alla Clinton.
In ogni caso l’assenza dei “Big” alla convention di Cleveland, e l’appello all’unità del Grand Old Party, da parte della massima carica istituzionale del partito, Paul Ryan, non lascia spazio a molti dubbi: Nell’elefantino la testa e le zampe comunicano male e vorrebbero andare in direzioni diverse. Di sicuro Trump ci darà nuovi spunti per far parlare di sé, speriamo almeno siano un qualcosa di originale e non soltanto un discorso fotocopia preso dal lontano 2008.[6]


Fabrizio Tralongo


NOTE:


[1] http://www.internazionale.it/video/2016/06/08/clinton-nomination-democratica


[2] http://www.ontheissues.org/2016/Donald_Trump_Health_Care.htm


[3] http://www.limesonline.com/cartaceo/a-che-serve-la-russia?prv=true&refresh_ce


[4] https://www.foreignaffairs.com/articles/russia-fsu/2014-08-11/broken-promise


[5] http://www.politifact.com/truth-o-meter/article/2016/jul/26/how-trump-plans-build-wall-along-us-mexico-border/


[6] http://www.usatoday.com/story/news/politics/onpolitics/2016/07/19/melania-trump-republican-convention-speech-plagiarism/87278088/

domenica 24 luglio 2016

How definitional impasses lead to legal uncertainty: the 'terrorism' case

How definitional impasses lead to legal uncertainty: the 'terrorism' case
1. Introductory note
Terrorism is a widespread phenomenon in the world we live on today. Particularly the last fifteen
years have been characterized by a number of terrorist attacks which are both more deadly and close in time than in the past. As a result of the considerable media coverage of such phenomenon, people have gradually learnt how to live with the frightening news, becoming progressively inured to them. Broadcasting news should instead represent an opportunity to common people to reflect on facts they are continuously exposed, by developing a critical thinking on such crucial global issue and refusing to be mere addressees of the media. Indeed, common people have never wondered what actually terrorism is, most likely because factual details of the attacks shift the attention from the most important question. Particularly for those scholars interested in the study of the phenomenon under the legal framework of international law, such question should sound like the following: 'what is the legal definition of terrorism?''.

Regrettably, a universal definition of terrorism does not actually exist so far. Despite the different conventions against very specific forms of terrorism issued by the United Nations (UN) from 19631 onwards, the latter has not yet succeeded in legally defining what terrorism is. It is essential to bear in mind that the lack of a comprehensive legal definition is not an issue per se, but it has become a real concern since 9/11, when the international community has strongly called for states to take action against terrorism. The urgency to counter the new global and undefined threat has increasingly led many states to take advantage of the high degree of arbitrariness in determining the definition of 'terrorism' at national level, misusing the term to adopt policies that constitute human rights violations under international law and that establish 'oppressive regimes'2, in the worst-case scenarios.

2. Is one man's terrorist another man's freedom fighter?
'One man's terrorist is another man's freedom fighter', attributed to the British author Gerald Seymour3, is an oft-heard quotation in the academic realm. It captures indeed the essence of the controversial debate about the definition of terrorism, especially referring to the thin line that distinguishes terrorism, the greatest offence to human rights, from the struggle for national liberation which instead founds its legitimacy under the right of self-determination of peoples4. As 'a meaningful and multi-faceted phenomenon'5, terrorism is undoubtedly hard to be categorized. Nevertheless, Jean-Marc Sorel has succeeded in identifying three essential criteria which could assist such inspirational aim: first, 'how the act was undertaken and its consequences […]; second, by whom the act was perpetrated; and, third, the reasons why the act was committed [...].'. Although the international community seems to agree on methods, 'indiscriminate use of violence'6, consequences, 'serious public or private material or human damage'7 and aims, 'to spread terror by dissociating victim and target'8, the qualification of perpetrators, causes and legitimation are still strongly debated. According to Sorel, as long as the different 'religious, cultural or political'9 aims of different terrorist groups are not seriously taken into account, the phenomenon can never be understood effectively and, consequently, an appropriate comprehensive legal definition of terrorism will always be difficult to reach.

3. The worrisome implications of the definitional problem of terrorism
The lack of a precise definition is not without consequences. As noticed by Conor Gearty, both 'the breadth of the definition of terrorism'10 and the 'overbroad discretionary powers'11 granted to states in time of public emergency12, invite the latter to 'depart from the rule of law'13, especially jeopardizing the enjoyment of fundamental human rights14. Despite both international15 and regional16 provisions on the 'state of emergency' allow derogation exclusively from those human rights which can been actually derogated, states have been often charged with violating 'absolute' human rights17, by implementing countermeasures which have failed to respect the required derogation limitations of 'necessity and proportionality'18. Andrea Bianchi particularly focuses on the way many states have seized the 'opportunity afforded by the implementation of the SC's (UN Security Council) anti-terror measures'19, by introducing over time new legislation and practices 'not mandated by the SC'20 and not even related to terrorism. All the elements considered above equally contribute to aggravate the legal uncertainty spread into the legal framework of terrorism, both at the national and international level: indeed, it is the 'lack of a universally shared definition of what amounts to an act of terrorism'21 which materializes the risk of controversial legislation and measures which are not actually 'limited to countering terrorism'22.

4. Attempts to define 'terrorism'
Notably, Sorel has proposed his personal definition of terrorism which reads as follows: 'international terrorism is an illicit act (irrespective of its perpetrator or its purpose) which creates a disturbance in the public order [...], by using serious and indiscriminate violence (in whatever form, whether against people or public or private property) in order to generate an atmosphere of terror with the aim of influencing political action'23.

5. Conclusion
The lack of a universally accepted definition of terrorism, both in the political and academic field, has not been overcome yet, instigating the long-term debate which involves not only regional and international organisations as, respectively, the European Union or the UN, but even individual States and non-state actors which aim to finally define terrorism. Unfortunately, as previously considered, many governments are too often reluctant to define terrorism specifically at national level as they would surely lose that flexibility currently allowed by the present vague and broad definition. It is especially for this reason that the international community should extensively keep working on the definitional problem of terrorism, encouraging more the understanding of the actual threat, rather than a superficial and blind 'denunciation'24.

Notes
1 The first convention against terrorism was the 'Convention on Offences and Certain Other Acts Committed on Board
Aircraft' (adopted 14 September 1963, entered into force 04 December 1969) 704 UNTS 219; 20 UST 2941; 2 ILM
1042
2 Daniel Moeckli, Sangeeta Shah & Sandesh Sivakumaran, International Human Rights Law (first published 2010, 2nd
edn, OUP 2014) 555
3 Ibid, p. 554
4 Article 1§1 of the International Covenant on Civil and Political Rights declares as follows: 'All peoples have the right
of self-determination. By virtue of that right they freely determine their political status and freely pursue their
economic, social and cultural development.'.
5 Jean-Marc Sorel, 'Some questions about the definition of terrorism and the fight against its financing' (2003) 14 EJIL
365, 367
6 Ibid, p. 368
7 Ibid
8 Ibid
9 Ibid
10 Conor Gearty, 'Terrorism and Human Rights' (2007) 42 Government and Opposition 340, 356
11 Ibid, p. 361
12 National 'state of emergency' is usually declared by governments in the aftermath of deadly terrorist attacks.
The wide range of discretionary powers granted to States during time of public emergency includes: the power to
conduct house searches without warrants, place under house arrest suspects without judicial warrant, ban associations
and public demonstrations, dissolve groups deemed to threaten public order, block certain websites and social media
accounts.
13 Conor Gearty, 'Terrorism and Human Rights' (2007) 42 Government and Opposition 340, 361
14 Sabine von Schorlemer stated that counter-terrorism measures may affect particularly: the presumption of
innocence; the right to fair trial; freedom from torture; freedom of thought; privacy rights; freedom of expression and
peaceful assembly; the right to seek asylum.
15 Article 4§1 of the International Covenant on Civil and Political Rights declares as follows: 'in time of public
emergency which threatens the life of the nation and the existence of which is officially proclaimed, the States Parties to
the present Covenant may take measures derogating from their obligations under the present Covenant to the extent
strictly required by the exigencies of the situation, provided that such measures are not inconsistent with their other
obligations under international law and do not involve discrimination solely on the ground of race, colour, sex,
language, religion or social origin.'.
16 Article 15 of the European Convention on Human Rights states as follows: 'in time of war or other public
emergency threatening the life of the nation any High Contracting Party may take measures derogating from its
obligations under this Convention to the extent strictly required by the exigencies of the situation, provided that such
measures are not inconsistent with its other obligations under international law.'.
17 The absolute rights under the International Covenant on Civil and Political Rights are: right to life (Article 6),
prohibition of torture or cruel, inhuman or degrading treatment (Article 7), prohibition of slavery (Article 8), prohibition
of imprisonment because of inability to fulfill a contractual obligation (Article 11), principle of no punishment without
law (Article 15), right to recognition of everyone as a person before the law (Article 16), right to freedom of though,
conscience, religion (Article 18).
18 Daniel Moeckli, Sangeeta Shah & Sandesh Sivakumaran, International Human Rights Law (first published 2010, 2nd
edn, OUP 2014) 554
19 Andrea Bianchi, 'Assessing the effectiveness of the UN Security Council’s anti-terrorism Measures: the quest for
legitimacy and cohesion' (2006) 17 EJIL 881, 899
20 Ibid
21 Andrea Bianchi, 'Assessing the effectiveness of the UN Security Council’s anti-terrorism Measures: the quest for
legitimacy and cohesion' (2006) 17 EJIL 881, 899
22 Ibid
23 Ibid
24 Jean-Marc Sorel, 'Some questions about the definition of terrorism and the fight against its financing' (2003) 14
EJIL 365, 370

Bibliography

Textbooks
Moeckli D., Shah S. & Sivakumaran S., International Human Rights Law (first published 2010, 2nd
edn, OUP 2014)

Journal Articles
Bianchi A., 'Assessing the effectiveness of the UN Security Council’s anti-terrorism measures: the
quest for legitimacy and cohesion' (2006) 17 EJIL 881
Gearty C., 'Terrorism and Human Rights' (2007) 42 Government and Opposition 340
Sorel J., 'Some questions about the definition of terrorism and the fight against its financing' (2003)
14 EJIL 365
von Schorlemer S., 'Human Rights: substantive and institutional implications of the war against
terrorism' (2003) 14 EJIL 265
European Conventions
European Convention on Human Rights (adopted 4 November 1950, entered into force 3 September
1953) ETS 5
International Conventions
Convention on Offences and Certain Other Acts Committed on Board Aircraft (adopted 14
September 1963, entered into force 04 December 1969) 704 UNTS 219; 20 UST 2941; 2 ILM 1042
International Covenant on Civil and Political Rights (adopted 16 December 1966, entered into force
23 March 1976) United Nations, Treaty Series, vol. 999, p. 171

giovedì 21 luglio 2016

Francia, Turchia, Stati Uniti. Tre teatri di tragedia sui quali non dobbiamo far calare il sipario


Francia, Turchia, Stati Uniti. Tre teatri di tragedia sui quali non dobbiamo far calare il sipario se si vuole evitare che si rivelino anelli di una catena ancora lunga e dolorosa.


La Francia è stata nuovamente colpita da una strage di innocenti che malgrado il minuzioso lavorio investigativo presenta ancora punti oscuri e solleva in ogni caso interrogativi importanti. Due in particolare: il primo riguarda l’assassino la cui figura, malgrado i tentativi per dimostrare il contrario, risulta lontana dall’identikit del jihadista islamista e vicina invece a quelle di un criminale in erba, pieno di debiti, violento e vizioso, privo anche della più sottile patina di islamismo: una persona suscettibile di essere convinto a compiere un’azione anche rischiosa, ma magari no, da un’offerta (100mila euro) con la quale trovare una via d’uscita ai suoi problemi e riscattarsi agli occhi della sua famiglia. Mi soffermo su questa tesi che francamente vorrei vedere contraddetta dai fatti perché, se dovesse risultare consistente la strage di Nizza ci porrebbe di fronte ad un inedito: un attacco terroristico realizzato da un giovane “non attenzionato” dai servizi di sicurezza, uno qualunque, un anonimo, anonimo come il camion frigorifero, rivelatosi strumento di morte tanto imprevedibile proprio perché banale, quanto di efficacia terrificante con l’involontaria (ma colpevole) complicità di quanti non dovevano permetterne il passaggio in una zona pedonalizzata e stracolma di persone festose, distratte, tragicamente vulnerabili. 

La strage di Nizza non ci deve far sottovalutare un altro fatto: i fischi e gli insulti rivolti al primo ministro Valls durante la cerimonia di commemorazione, episodio del tutto inimmaginabile in terra di Francia che ci ha dato tutto il senso di un popolo stanco, impaurito, sfiduciato, che si chiede il perché dell’accanimento stragista contro la Francia, del perché del male oscuro che la attraversa e che ne vuole minare l’unità, quell’unità nazionale fatta anche di un processo di “assimilazione” di cui è andata orgogliosa per tanto tempo e che adesso appare incompiuto, discutibile, almeno per quanto riguarda le grandi periferie parigine e il sud del paese. E si risponde addebitandone la responsabilità alla sua attuale dirigenza politico-governativa e istituzionale. Un segnale che mescolandosi ai gesti di rabbia verso il punto nel quale è stato abbattuto l’assassino, offre preziosa linfa all’investimento politico identitario e nazionalistico di Marine Le Pen. E preoccupa. 


Anche gli Stati Uniti si trovano nuovamente feriti nella loro unità/identità nazionale, ma per ragioni diverse. Si trovano nuovamente bersaglio del fuoco di quella discriminazione razziale che solo ad uno sguardo superficiale poteva apparire ormai spento o in ogni caso in via di spegnimento. Con buona pace di otto anni di presidenza di Obama, il primo presidente nero della storia americana. In realtà, in questi ultimi anni erano emersi non pochi segnali di conflittualità razziale che avrebbero dovuto far suonare il campanello d’allarme della responsabilità politica per quell’originaria patologia americana. Ma sono stati trascurati, quasi fossero fenomeni occasionali, manifestazioni di carattere congiunturali e non fossero invece la spia di un male più profondo.


E adesso, nel giro di pochi giorni, la piaga della discriminazione si è riaperta in maniera allarmante, fino a raggiungere l’estremo della premeditazione, dell’imboscata omicida, a Baton rouge, in Louisiana, vittima questa volta la polizia. Nel seguire gli eventi sono stato colpito dall’espressione del Presidente Obama: vi ho visto un'ombra di impotente tristezza e di frustrazione dolorosa molto più scura di quanto le sue parole coraggiose e appassionate volessero trasmettere al popolo americano. Tanto più che nelle stesse ore, da Cleveland, quel popolo veniva investito dalle luci accecanti dell’aggressiva spregiudicatezza di Trump e consorte la cui esibita, irridente estraneità al sistema politico-istituzionale del paese sta dando inedita forza d’attrazione ai suoi richiami alla riconquista della perduta grandezza americana: via il linguaggio perbenista, via la retorica formale, via tutto ciò che sa di rito, di convenzione, di politicamente corretto, via alle paratie dell’intermediazione. E porte spalancate ad un rapporto diretto, quasi casalingo e come tale anche sgangherato e contraddittorio, tra leader e popolo. Populismo? Qualcosa di più e di diverso, forse premonitore anche per l’Europa.


Infine la Turchia dove il vero colpo di stato è in corso dal venerdì notte del 16 luglio e si sta consumando con una violenza e pesantezza raccapricciante ai danni non solo dei malaugurati responsabili e sodali della fallita sollevazione popolare, ma anche di quanti, molti più dei primi, risultavano annotati in chilometriche liste di proscrizione per i più diversi motivi di supposta o reale avversità al regime. Migliaia e migliaia di civili e di militari, una purga di massa di cui solo col tempo conosceremo le dimensioni e le sofferenze. 


In questi giorni Erdogan sta spillando gli assi del poker di quella partita del potere cui agogna da tempo. E si tratta di un potere che affonda ora i suoi pilastri in una gran parte della massa turca che si riconosce in un islam robustamente ancorato nelle moschee, e in un apparato civile, militare e giudiziario organicamente a lui asservito. E’ vero, con quest’operazione Erdogan è emerso più forte di sempre; almeno nel breve periodo. Ma è anche vero che quella parte consistente del paese che lo detestava anche prima adesso lo detesterà ancora di più e farà proseliti. Salvo che non cambi registro, come non pare sia orientato a fare Erdogan dovrà pertanto fare i conti con un paese percorso da fattori di tensione e di instabilità dall’esito imprevedibile; al di là della minaccia del PKK, destinata ad accentuarsi. 


L’Erdogan post-golpe vorrà certamente capitalizzare la sua maggior forza interna anche a livello internazionale e regionale. Ha subito voluto mostrare i muscoli con Washington accusandola neanche tanto velatamente di una qualche forma di vicinanza ai rivoltosi con la complicità del suo arci-nemico Fethullah Gülen, esiliato negli USA e di cui ha chiesto l’estradizione, ben sapendo che non l’otterrà mai. Così facendo ha indubbiamente alzato l’asticella del suo posizionamento nell’area, sunnita e sciita. Si è visto recapitare messaggi di solidarietà e appoggio da tutti gli autocrati della regione. A cominciare da Riyadh che gli sta riconsegnando l’addetto militare turco di cui Ankara ha chiesto l’estradizone.  Si è subito stabilito un contatto tra Erdogan e Putin, intenzionati più che mai a proseguire nel processo di riavvicinamento avviato nelle ultime settimane, con prevedibili riflessi anche sulla dinamica siriana e sulle ambizioni curde che il Sultano farà di tutto per frustrare. 

Criticità invece con l’Occidente, nella versione NATO, in quella dell’Unione europea e dei rispettivi paesi membri. 


Bene hanno fatto Merkel e Kerry a rivolgere fin da subito un fermo monito ad Ankara in tema di rispetto dello stato di diritto. E bene hanno fatto i ministri degli esteri dell’Unione europea a ribadire lo stesso concetto nel Consiglio di lunedì 18 luglio, in piena assonanza con Washington.  Meno bene hanno fatto a mio giudizio a indicare nell’eventuale reintroduzione della pena di morte una sorte di linea rossa da non valicare perché così facendo hanno in qualche modo accettato di non pronunciarsi in termini adeguati, cioè ultimativi, sulla strage della notte del 16 luglio e soprattutto sulla pratica della quotidiana violazione dei diritti della persona e della democrazia, precipitata a livelli inaccettabili proprio a partire da quella notte.  Non vorrei che pur di trattenere sul suolo turco i profughi siriani si sia disposti a chiudere un occhio di fronte alle tante nefandezze di cui veniamo progressivamente a conoscenza.


Armando Sanguini
Armando Sanguini è un Ambasciatore in pensione. Capo missione in Cile, Tunisia e Arabia saudita, è stato tra l'altro Direttore Generale per le relazioni culturali all'estero, gli Istituti di cultura e le scuole italiane e Rappresentante personale del Presidente del Consiglio per l'Africa.