martedì 7 giugno 2016

C'è morte perché...

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

C'è morte perché...

 a cura di S.E. Armando Sanguini, già Ambasciatore d'Italia a Tunisi e Ryiad


In Europa c’è disoccupazione e c’è povertà. Le statistiche e le ultime dichiarazioni del Presidente della Banca centrale europea non aprono alla speranza di una ripresa rapida e certa e ciò non contribuisce a sollevare la diffusa percezione di incertezza e di timore per il nostro futuro prossimo. Lo si può e lo si deve comprendere. Ma questa constatazione non può e non deve indurre a distogliere l’attenzione dall’ombra cupa che sovrasta il nostro intorno e a sorprenderci calamitati verso una sorta di assuefazione, quasi di rimozione se non proprio di fastidio. Rispetto alla morte che è tutt’intorno a noi. 

C’è morte nel mare nostrum. C’è morte in questo Mediterraneo che si vorrebbe ponte levatoio verso la salvezza dalla guerra, dalla persecuzione, dall’oppressione dalla fame e che spesso, troppo spesso si tramuta in un orrendo buco nero che non dà scampo e la inghiotte, quella vita. E con essa la fine di un sogno, anche per chi aveva condiviso da lontano questo sogno e vi faceva affidamento. C’è morte anche sulle terre attorno a noi, dall’Europa dell’Est al Medio Oriente al Nord Africa, nei villaggi, nelle città, sulle montagne, nei boschi e nei deserti di questa grande prossimità geografica: dall’Ucraina al Sahel dalla Tunisia alla Libia, all’Egitto, dal Sinai alla striscia di Gaza, dalla Siria all’Iraq, allo Yemen: gli occhi della mente vedono una lunga striscia di morte di cui la cronaca quotidiana riesce ad illuminare solo i brandelli più eclatanti, quando si materializza una strage come quella incorso ad Aleppo e quella che incombe a Fallujah e a Sirte.

C’è morte perché c’è guerra, ogni genere di guerra; le guerre feroci, insensate del terrorismo e quelle forse inadeguate contro il terrorismo, quelle che chiamiamo eufemisticamente guerre civili, cioè tra appartenenti allo stesso popolo; quelle per procura, come si dice con un tristo linguaggio notarile; quelle insufflate dalle agende di grandi attori internazionali. E con la guerra, qualunque ne sia la tipologia, non c’è solo morte, c’è anche distruzione: del tessuto sociale, del sistema economico e produttivo, e dunque dei posti di lavoro, dell’apparato infrastrutturale e dunque delle strade, delle piazze, dei luoghi di incontro, delle case dove riunirsi e trovare rifugio e conforto. E con la morte e la distruzione si fermenta il mosto del risentimento, dell’odio, della ribellione verso …..tutti gli altri, quelli che in un modo o nell’altro sono accomunati ad una responsabilità per la guerra che si patisce. Incubatori di altre guerre.

C’è morte anche perché c’è fame; che è fame di cibo, fame di un futuro di vita, con più speranza, per sé, per i familiari, per i compagni di un destino comune. Ed è anche fame di comprensione, di solidarietà, di accoglienza da parte di chi più ha e sta dalla parte del benessere diffuso: lo ha mostrato la televisione, lo ha raccontato la radio, lo hanno fatto sapere i parenti, gli amici che già sono arrivati, le grandi molle dell’esodo, costi quel che costi. C’è morte perché c’è anche quella banalità del male che pervade l’umanità che di questa fame di futuro, di libertà e di sicurezza, ha fatto un cinico business. Che non si riesce a stroncare o che non si è sufficientemente determinati a contrastare, così come non si riesce a fermare la guerra, anzi le guerre da cui siamo circondati o non si è sufficientemente determinati a rimuoverne le cause; così come non si riesce o non si è sufficientemente impegnati a ridurre la disuguaglianza fra noi che abbiamo e gli altri che non hanno.

In questi ultimi anni e mesi si sono moltiplicati i vertici europei e gli incontri internazionali ai più diversi livelli con un ritmo inversamente proporzionale alla loro efficacia. Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: si fanno proclami ma poi non si riesce neppure a creare canali umanitari; si esaltano comuni volontà di tregua cui fanno eco violazioni sempre più patenti; tra gli stessi che dichiarano di lavorare per la stabilizzazione in Libia, tanto per fare un esempio, si celano coloro che non la vogliono affatto; si invoca la pace e si aumentano vertiginosamente le vendite di armi; si tracciano meccanismi di ripartizione degli oneri (cioè dei migranti) che vengono contestati nella maniera più pretestuosa; si arriva all’imbarazzo di una presidenza europea in capo ad un paese, la Slovacchia che non vuole saperne di rivedere Dublino e di aprirsi all’accoglienza; si prospetta una strategia europea globale – il migration compact – mentre si resta in difetto di centri di identificazione. 

Insomma, siamo in una palude da cui non sembra affatto agevole uscire, in nessuno dei versanti cui abbiamo fatto riferimento. A cominciare da quello migratorio che ne è sintetica nemesi. Forse bisogna affidarsi di più alla società civile, al mondo del volontariato, cioè a noi stessi, alla nostra parte migliore, per trovare la forza di uno scatto d’orgoglio, di un colpo di reni capace di imprimere una svolta, di indurre “la politica”, europea (e italiana) a mettersi le lenti della lungimiranza e superare la generale miopia e grettezza di propositi che l’ha contraddistinta finora. Stento ad essere ottimista, ma penso e mi auguro che un’occasione per dare il colpo di avvio di una svolta degna di questo nome ci sia e sia rappresentata dal vertice di fine giugno a Bruxelles. Lo penso e me lo auguro perché questa volta sul tavolo c’è un documento sul quale stanno convergendo i pesi massimi dell’Unione: si tratta del nostro “migration act” che, rivisto e corretto, potrebbe far decollare una strategia di co-sviluppo e di partenariato che privilegi, finalmente, il continente africano, e che sia finanziato con un investimento di base di 5 miliardi di euro su cui far leva per riuscire a metterne assieme almeno 65 (meccanismo Junker). Intendiamoci, se così fosse si accenderebbe solo una prima scintilla, di cui seguirne con molta cura crescita e direzione. Ma sarebbe pur sempre una scintilla di luce.

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