LA PAROLA ALL’ESPERTO
La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale
La sfida al terrorismo
A pochi giorni dal fischio d’inizio degli Europei di calcio in Francia, non solo il Paese transalpino, ma l’intero Vecchio Continente si sta ponendo domande in merito alle misure di sicurezza necessarie per garantire un sereno svolgimento dell’evento. Sono passati soltanto pochi mesi dalla strage del Bataclan e ancor meno dal massacro compiuto da guerriglieri jihadisti nella vicina Bruxelles, e la Francia si ritrova a dover gestire un mese di eventi sportivi che metteranno a durissima prova non solo l’apparato logistico del Paese, già provato dalle recenti contestazioni dei lavoratori, ma soprattutto il lavoro delle intelligence e dei corpi di polizia di tutta Europa. Al momento risulta evidente che i Campionati Europei rappresentano più una minaccia che una risorsa per i cugini francesi, come confermato nelle dichiarazioni del Presidente Hollande, che li ha definiti “un evento, anzi una festa, che però impegnerà la sicurezza francese come mai nessun evento ha fatto finora”. Sicuramente le minacce più ingenti provengono da fattori interni. In primis i tanti, anzi potremmo dire i troppi, radicali islamici che affollano le banlieu parigine e i tanti ghetti, sempre più simili a delle kasbah, delle città francesi. Recentemente si è stimato che quasi il 23% dei foreign fighters che hanno imbracciato un Ak47 in supporto dell’Isis, proviene dalla Francia. Questo dato che possiamo definire decisamente allarmante, diviene drammatico nel momento in cui traduciamo questa percentuale in numeri: 7.000 (settemila) combattenti dello Stato Islamico provengono dal Paese che fu di Napoleone Bonaparte. Circa la metà di questi settemila jihadisti ha passaporto francese, è nato e cresciuto in Francia, ha girato liberamente l’Europa facendo proseliti, mentre gli altri spesso sono immigrati di prima generazione che hanno sposato l’estremismo islamico ben prima di partire alla volta del nostro continente. Ed ecco che la Francia si ritrova un’altra volta, per l’ennesima volta, a dover fare i conti con un fondamentalismo islamico che non si è sviluppato nelle grotte del Kandahar o in villaggi della provincia di Raqqa, ma nelle verdi campagne francesi, o molto più spesso, in alcuni degradati quartieri parigini e marsigliesi, che ormai rimandano alle periferie abbandonate di Casablanca o Algeri, dove si respira l’odio per l’Occidente e i ragazzini crescono a pane e jihad.
Gli interrogativi, se fosse o meno il caso di svolgere una manifestazione di così ampia portata, in un Paese che soltanto pochi mesi fa è stato sconvolto dall’ennesima strage jihadista dopo il massacro di Charlie Hebdo, non dovrebbero nemmeno essere posti. Fermarsi, rinunciare, abdicare in favore della paura, è lo scopo che il terrore si prefigge, è l’obiettivo che spinge e fomenta la jihad ai quattro angoli della Terra. Quindi gli Europei si devono svolgere, senza se e senza ma, con buona pace di alcuni buontemponi che trovano tali manifestazioni un affronto al terrorismo. Come se il terrorismo avesse bisogno di un pretesto per attaccarci. La domanda piuttosto è un’altra. Anzi dobbiamo farne più di una. Dopo anni in cui ci si è convinti, ingenuamente direi, che il modello d’integrazione alla francese piuttosto che quello belga o inglese, fossero la soluzione alla radicalizzazione di milioni di persone ammassate nelle periferie delle nostre città, pensieri prontamente smentiti dai drammatici fatti dei mesi addietro, siamo pronti ora ad elaborare delle nuove politiche migratorie e di difesa del territorio?
Dopo anni in cui molti, anzi la stragrande maggioranza degli intellettuali occidentali ed europei in particolare, hanno spiegato, forse giustificato, il terrorismo come un fenomeno che si forma in seno a quelle comunità abbandonate dal welfare e dallo Stato, tesi disintegrata sempre dai recenti fatti compiuti da soggetti perfettamente integrati nelle nostre società (con un buon lavoro, elevata istruzione, moglie e figli...), siamo pronti ad affrontare e riconoscere un nemico che ha il nostro stesso passaporto, parla la nostra stessa lingua, gode dei nostri stessi diritti, ma sopratutto conduce una vita apparentemente identica alla nostra?
Infine l’ultima domanda, che ha il sapore di una provocazione. Con gli ultimi attentati di cui l’Europa è stata vittima, abbiamo acquisito un dato importante e agghiacciante al contempo: ovvero che il nemico gode, al pari di ogni altro cittadino, di una libertà di movimento fondamentale per poter compiere atti criminali e poi poter fuggire senza alcun disturbo. Tale libertà deriva da Schegen, dalla visione di un’Europa unita e senza barriere, un’Europa che oggi rischia di scomparire, sotto le raffiche di Kalashnikov del terrore e l’avanzata dei vari partiti anti UE. Ed ecco quindi il quesito: siamo pronti ad implementare nuove politiche di intelligence, di controspionaggio, di monitoraggio del territorio e di cooperazione tra Paesi, in un’Europa così frammentata e divisa su tutti i principali problemi dei nostri tempi? Forse no. E forse è questo il vero problema.
Se fossimo uniti, anzi direi innamorati, di quei valori non negoziabili che hanno fatto grande la nostra civiltà, come la Democrazia, l’Uguaglianza e la Libertà, e se fossimo realmente convinti che il nemico ormai è dentro casa e va combattuto con ogni mezzo, senza se e senza ma, molti dei nostri problemi sarebbero già risolti. Purtroppo spaccature e divisioni, incomprensioni e semplici giochini di partito, sciocche gelosie e meri calcoli economici tra Paesi, rendono la vita oltre modo facile al terrore, ed ecco che perfino un’occasione di festa, come sono i Campionati Europei, diventa un’emergenza da affrontare, una guerra non dichiarata ma vissuta ormai con rassegnazione, come se fosse una guerra persa in partenza, causa incapacità di reagire concretamente. In questo mese la partita più importante non si giocherà sui campi di calcio, ma nelle nostre città, tra noi e un nemico talvolta invisibile, ma pronto a spargere piombo, sangue e morte sulle nostre strade. Una partita tra la libertà e l’ideologia divenuta terrore. Una partita tra noi e loro. Una partita che non finirà con la conclusione degli Europei di calcio, ma con la vittoria, anzi la scomparsa di una delle due parti. Che il gioco abbia inizio.
Stefano De Angelis
Stefano De Angelis (Chieti, 1986) ha conseguito la laurea con lode in Sociologia presso l'Università degli Studi "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara, discutendo una tesi sul fenomeno terroristico, frutto di un lungo lavoro di ricerca condotto tra Italia e Stato Uniti. Autore del libro inchiesta "Il terrorismo nell'era postmoderna" (Tabula Fati, 2014), del tascabile sociologico "Pillole Liquide" (Tabula Fati, 2015), e di articoli in materia di difesa per alcuni dei più importanti blog del settore, il suo ultimo libro "Isis vs Occidente" (Solfanelli 2015) è considerato best seller di categoria negli USA. Attualmente è corrispondente per la rubrica "Esteri e Lotta al terrore" per il quotidiano statunitense "America Oggi", collabora alla cattedra di Sociologia Generale del Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali nell'Ateneo teatino, ed è docente di Sociologia dei Fenomeni Terroristici, Tecniche di Prevenzione e Contrasto presso la Questura di Chieti.
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