sabato 25 aprile 2015

70° anniversario della Liberazione: consenso e resistenza al regime fascista

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


70° anniversario della Liberazione: consenso e resistenza al regime Fascista

a cura del Dipartimento Studi Storici e Filosofici


In una logica, ma non cronologica, successione il 25 aprile precede di poco le “radiose giornate di maggio”, scandendo nella linea della memoria storica italiana il ritmo dei sommovimenti popolari, delle adunate, e delle bandiere sventolanti, in una staffetta ideale tra le due guerre mondiali. Maggio viene dopo aprile, ma nel nostro caso avviene esattamente il contrario: aprile viene trent’anni dopo maggio, il maggio radioso, quando in molti vollero dar prova dell’amor di patria che li pervadeva, tradendo una dose di ingenuità e ottuso patriottismo. Il centenario dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra induce a una riflessione sulla liberazione dal nazifascismo che non si fermi al “dogma del bene contro il male”, all’accettazione per fede del primo e alla repulsa inconsapevole per il secondo: la Liberazione è festa nazionale e la Resistenza è valore civile, è preludio allo sviluppo democratico del paese. Ma bisogna anche guardare alla società che l’ha prodotta, alla vicenda politica da cui scaturirono la privazione delle libertà, il disprezzo della democrazia e l’autoritarismo del regime fascista. Una giusta valutazione di tali elementi, esogeni ed endogeni, incide sulla percezione che di essa abbiamo noi che non ne siamo testimoni diretti. Posto che suscita indignazione il ricorrente tentativo di gettare ombre sulla Resistenza e sui suoi protagonisti, qualsivoglia ne sia la finalità, una più approfondita analisi impone di affrontare, se non vincere, un grave tabù intellettuale: siamo stati un paese fascista, un popolo francamente tollerante al regime autoritario, come testimoniano il sostegno della borghesia medio piccola e un massiccio consenso popolare. Lo storico Philip Cannistraro scrisse un saggio sul fascismo dal titolo “La Fabbrica del Consenso”, che rappresenta il primo tentativo storiografico di ricostruire, in modo sistematico, la struttura e il funzionamento dell’apparato propagandistico di Mussolini, con particolare attenzione al Ministero della Cultura Popolare, in una prospettiva volta a mostrare gli strumenti impiegati dal Duce per ottenere il consenso delle masse. Si trattava di un consenso estorto ed organizzato dall’alto; per questo motivo, lo storico coniò la definizione “fabbrica del consenso”, scoprendo come attraverso inediti meccanismi di controllo, di orientamento dell’opinione pubblica e di inquadramento delle masse, il fascismo fosse riuscito a ottenere una diffusa accettazione. Buona parte del corpus dottrinale fascista s’inspirava al Nazionalismo: il mito della nazione, la lotta delle nazioni più povere contro le potenze plutocratiche, l’esaltazione dello Stato-potenza come suprema autorità, sono tutti temi del patrimonio ideologico nazionalista. A differenza del Nazionalismo, che si rivolgeva alla borghesia più abbiente, il regime mussoliniano usufruiva della mobilitazione delle masse e, proprio grazie alla sua azione fintamente a favore dei ceti più disagiati, condusse una politica che, oggigiorno, definiremmo demagogica. Questo spiega il motivo per cui il Fascismo conservò, sebbene con forti opposizioni a causa delle forti limitazioni delle libertà personali, il consenso, almeno dal 1929 fino alla guerra, il cui disastroso andamento disilluse gli animi dei sostenitori. Il fenomeno della Resistenza, che viene puntualmente celebrato di anno in anno, ebbe la sua concentrazione nel biennio 1943- 1945, all’indomani dell’implosione del Fascismo su se stesso. La sua portata militare trascende la dimensione politica da cui tuttavia è generato: forze politiche di eterogenea provenienza furono anzitutto solidali nel proposito di restituire la cultura delle libertà civili al popolo italiano precipitato nel caos. È tale proposito che va giustamente riportato all’attenzione di tutti, come opera volenterosa dei giovani partigiani che ebbero il coraggio di sfidare un nemico più grande di loro, ma anche e soprattutto come opera latente, oltraggiata e sopraffatta di quanti, nel corso della “crisi dei vent’anni” , non subirono il fascino del “movimento”, lo ripudiarono senza esitare, portando idealmente inalterato il germe della civiltà. In tutta Europa la Resistenza fu un fenomeno contemporaneamente politico e militare. Il ruolo politico dipese dal ruolo giocato dai partiti, dalle istanze patriottiche e dai sentimenti condivisi di lealtà nazionale. I comandi militari alleati diedero spazio limitato, ma significativo, ai movimenti di Resistenza:azioni di sabotaggio, servizio di ricerca di informazioni sul campo e attività dimostrative capaci di dar prova dell'esistenza di una opposizione ampia e radicata. Maggiori pressioni furono esercitate in quei paesi in cui si temeva l'instabilità e la deriva comunista: Grecia e Italia anzitutto. Non furono rari i casi in cui le potenze alleate intervennero apertamente a favore delle forze che ritenevano più affidabili e politicamente vicine. La Resistenza ebbe in Italia un'importanza particolare; infatti, tenendo conto dell'esperienza dal ventennio fascista ,il paese trovava nella Resistenza un corpo di principi condivisi su cui sarebbe stata fondata la Costituzione della Repubblica italiana e la nuova classe dirigente. Un atteggiamento scarsamente vendicativo ( anche se non mancarono vendette animate da rancori personali) e l'assenza di una reale epurazione delle amministrazioni pubbliche contribuirono ad una pacificazione veloce. Dopo l'armistizio di Cassibile (8 Settembre 1943) in Italia si intrecciarono resistenza all'invasore tedesco e guerra civile contro la Repubblica Sociale Italiana guidata da Mussolini e che rivendicava il governo sull'intero paese ( di fatto sotto il suo controllo era solo parte del territorio del norditalia non occupato dai tedeschi). Parteciparono alla lotta non solo gli antifascisti che si erano opposti al regime sin dai suoi primi passi e lo avevano contrastato clandestinamente o dal luogo di esilio ma anche i giovani democratici resi liberi dallo sfascio dell'esercito e le forze conservatrici che avevano preso le distanze dal fascismo e da Mussolini. Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), fondato il 9 Settembre 1943, organizzò la resistenza. Al suo interno si scontrarono due diverse concezioni: il Partito d'Azione ( e le brigate di Giustizia e Libertà), guidato da Ferruccio Parri, puntava alla formazione di una forza partigiana democratica, nazionale e non politicizzata sul modello gerarchico dell'esercito regio; e il Partito Comunista era invece intenzionato a mantenere la guerra entro schemi poco rigidi, ricorrendo alla guerriglia e alla mobilitazione popolare. La forza degli eventi spinse le brigate di Giustizia e Libertà a condividere le strategie delle comuniste brigate Garibaldi. Guida politica della resistenza furono i locali Comitati di liberazione nazionale (Cln) che furono anche uno straordinario strumento di politicizzazione della resistenza e luogo di formazione per i nuovi gruppi dirigenti del periodo postbellico. Questo ovviamente non vuol dire che all'interno dei Cln non vi fossero tensioni, o contrapposizioni. I gruppi (Pci, Psiup, Dc, Pd'a, Pli) andavano via via assumendo caratteri distinti. In particolare il CLN si divise in Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), con sede nella città di Milano durante la sua occupazione, ed Comitato di Liberazione Nazionale Centrale (CLNC). L'organizzazione ebbe per delega poteri di governo nei giorni di insurrezione nazionale. Alla seduta di fondazione parteciparono: Ivanoe Bonomi (DL, Presidente), Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola (PCI), Alcide De Gasperi (DC), Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea (PdA), Pietro Nenni e Giuseppe Romita (PSI), Meuccio Ruini (DL), Alessandro Casati (PLI). Ogni partito rappresentato nel CLN ebbe le sue formazioni militari partigiane, che in genere erano coordinate dal rispettivo rappresentante nel CLN (così come vi furono formazioni Repubblicane ed  anche di altri gruppi di sinistra) . I Comitati Regionali e Provinciali ebbero un compito prevalentemente politico e di coordinamento, con influenza ma non comando diretto sulle formazioni militari partigiane, che rispondevano in genere direttamente al loro partito. In vari casi le formazioni militari disattesero accordi e ordini del CLN. L'Assemblea Costituente fu in massima parte composta da esponenti dei partiti che avevano dato vita al CLN, i quali scrissero la Costituzione fondandola sulla sintesi tra le rispettive tradizioni politiche ed ispirandola ai princìpi della democrazia e dell'antifascismo. L'opera svolta e i compiti prefissi furono assai vari, perché alla lotta contro i nazisti venne affiancata l'esigenza di attuare una profonda trasformazione delle strutture politiche, sociali ed economiche del Paese. Il CLN, per le particolari condizioni politiche e ambientali, ebbe particolare forza soprattutto al Nord (aggiunse alla sigla AI, cioè Alta Italia) e al Centro dove, malgrado gli urti interni tra moderati e rivoluzionari, esso rivestiva un ruolo di grande importanza nella direzione della lotta partigiana. Sotto il profilo politico, il primo governo nazionale, espressione del Comitato di Liberazione Nazionale, venne costituito da Ivanoe Bonomi nel giugno 1944, ma solo con il governo Parri, nel maggio 1945, si sperò di affermare le istanze rinnovatrici sul piano delle istituzioni nazionali. La caduta di Parri, nel novembre 1945, influì sul CLN che, esautorato dal gabinetto De Gasperi, venne sciolto definitivamente con le elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946.
Massimo Parisi , Salvo Carrubba, Salvo Palazzolo

martedì 21 aprile 2015

Una fossa comune in fondo al Mediterraneo: Europa complice?

- EDIZIONE STRAORDINARIA -

Una fossa comune in fondo al Mediterraneo: Europa complice?



Ancora una volta, il Mediterraneo teatro di una tragedia dagli aspetti forse catastrofici. Si parla di circa 900 migranti morti, una cifra che, se dovesse trovare conferma, rappresenterebbe sicuramente la più grande tragedia di vite umane nella storia dell'immigrazione. L'I.ME.SI ha voluto dedicare una edizione straordinaria alla recente tragedia occorsa dinanzi alle coste libiche, con un articolo che affronta la questione da un punto di vista giuridico-internazionale, geopolitico, del diritto europeo e da un punto di vista filosofico.
Abbiamo chiesto a ciascun Dipartimento, di esprimere al riguardo una breve considerazione.

Il Dipartimento Studi Giuridici Imesi, evidenzia: “ Ma cos’è la democrazia? Dov’è la democrazia? L’Europa, promotrice dell’uguaglianza e dei diritti civili, diventa d’un tratto miope davanti al tema immigrazione, di interesse, in primis umano ma anche e soprattutto di natura giuridica e politica. Il diritto alla vita viene violentato al largo delle coste, insito nel quale vi sono la libertà di scelta, che si annulla sotto le costrizioni dei trafficanti che con minacce verbali e uso di armi costringono gli individui ad imbarcarsi. Bisogna chiedersi a cosa è servito approvare le varie Carte, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo dell’Onu nel 1948, la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nel 1950 e la Carta dei Diritti fondamentali dell’UE nel 2000? Chi si trova in mare in una situazione di pericolo deve essere soccorso e portato al sicuro secondo quanto previsto dalle molte convenzioni internazionali sul diritto del mare, indipendentemente dal fatto che sia o meno in possesso di documenti validi, e nella fase di accoglienza deve essere garantito il rispetto di quei diritti fondamentali, su tutti, “il divieto di trattamenti inumani e degradanti” e il diritto dell’habeas corpus, che la costituzione e la convenzione europea dei diritti dell’uomo pacificamente riconoscono a tutti gli esseri umani, cittadini e stranieri, regolari e irregolari. Si sente tanto parlare di diritti umani e poi si permette che tanti umani debbano morire perché desiderano una vita migliore. L’art 5 della Carta di Nizza ribadisce il divieto di tratta degli esseri umani. Non è forse quello cui assistiamo ogni giorno?”.

Mentre, da un punto di vista geopolitico il Dipartimento Studi Politici Imesi sottolinea: “ la situazione economico-politica in cui versa la Libia dalla caduta del governo Gheddafi, avvenuta il 20 Ottobre 2011, ad opera dei ribelli del CTN (Consiglio Nazionale di Transizione), è a dir poco disastrosa. Se infatti per anni si è assistito ad una fase di stallo in cui le lotte intestine fra i due governi paralleli (a est, quello più laico “esiliato” a Tobruk di Abdullah al Thani e a Ovest, a Tripoli, quello “ombra” di Ansar al Sharia) si sono avvicendate senza garantire un’unica stabilità, oggi la popolazione civile non è più disposta a soffrire e cerca ausilio sui barconi, intraprendendo il cosiddetto viaggio della speranza per raggiungere le nostre coste. I migranti, cercando di ottenere una vita più sicura e migliore, agiscono anche contro la legge, divenendo così dei migranti irregolari. Sprovvisti di uno status regolare transitano o cercano ospitalità in paesi che non sono quelli di origine. Questo fenomeno è oggi talmente cresciuto nell'area del bacino mediterraneo, che non si parla più di immigrazione ma di tratta di esseri umani. O almeno, è ormai comunemente percepito come un commercio illegale: un settore con numerosi attori, al servizio di una gerarchia ben consolidata (dagli smuglers ai rais) e provvista di numerose basi e mezzi per organizzare la tratta. Non conta che le malcapitate vite siano di provenienza libica, per la maggior parte esse giungono da Somalia, Siria, Eritrea, Africa sub-sahariana ed altre regioni limitrofe. E questo è un dato nient’affatto indifferente che lascia presagire quanto il problema tocchi non una sola regione ma tutto quanto il Nord Africa. In realtà vi era stato un vano tentativo da parte del CNT di Bengasi di elaborare, fin dalle prime fasi della guerra, una nuova Carta Costituzionale che avrebbe dovuto assicurare al Paese la transizione verso la democrazia. Si trattava di una Costituzione leggera di soli 15 articoli che raccontava la Libia come un territorio indivisibile con Tripoli capitale. Ciò preannunziava come la separazione tra Tripolitania e Cirenaica non fosse un’opzione tenuta in considerazione dai ribelli, anche se gli eventi dopo la caduta del regime dimostrarono un sentimento di unità nazionale ancora fragile ed un regionalismo emergente. Due sono gli elementi che da tale Carta occorre estrapolare per comprendere il potenziale profilo della nuova Libia: il primo è dato dall’enfasi con cui l’Islam è proclamato religione di Stato e la Shari’a indicata come fonte della legislazione; il secondo elemento meritevole di attenzione è desumibile dall’articolo 4 che sottolineava l’esigenza di garantire l’equa distribuzione della ricchezza nazionale tra i cittadini e tra le diverse città e regioni dello Stato. La storia di questi ultimi anni ha dimostrato come all’Unione Africana manchino gli strumenti adatti a rimettere in piedi il Paese, seguita non tanto lontanamente dall’Unione Europea (ancora oggi priva di una politica estera realmente concreta). Mentre il nostro Premier Matteo Renzi, in consorzio con il Presidente degli Stati Uniti Obama, delibera in questi giorni di non voler intervenire militarmente, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU si era già riunito, alla fine di questo Febbraio, per una seduta pubblica dedicata alla Libia. Da questa emergeva che, volendo evitare gli stessi errori degli anni 2000, difficilmente si arriverà ad un intervento militare. Come risolvere dunque la questione per via diplomatica? Bernardino Leon, rappresentante ONU per la crisi libica sostiene che la strada da percorrere implichi un accordo politico tra le fazioni che dividono il potere con l'obiettivo di arrivare all'istituzione di un governo unito; si potrà poi sconfiggere il terrorismo grazie ad un sostegno forte della comunità internazionale. Anche Federica Mogherini, Alto Rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, sulla stessa linea di pensiero del diplomatico spagnolo, è intervenuta sul finire di Marzo a Bruxelles sulla questione libica sostenendo, prima del summit coi 34 sindaci e leader locali del paese nord africano, che gli interventi militari non siano la soluzione; sottolineava anzi l'importanza della creazione di un governo di unità nazionale atto a favorire la nascita di un fronte comune tra le fazioni libiche decise a combattere insieme il Daesh, traducibile come stato islamico dell'Iraq e della Siria (ISIS). Lo stesso Leon, in linea con le precedenti dichiarazioni rilasciate, aggiunge che la composizione del governo unito prevede un Presidente e un Consiglio presidenziale composto da personalità indipendenti, che lo stesso non sia appartenente ad alcun partito o affiliato ad alcun gruppo e che sia accettabile per tutte le parti e tutti i cittadini libici.Sarebbe di fondamentale importanza che la comunità internazionale agisse da mediatore. Essa dovrebbe cioè definire un tavolo negoziale attraverso il quale giungere a un accordo di unità nazionale, favorendo la costituzione di un governo e una road map politica condivisa da tutte le forze. La Libia, dopo la dominazione coloniale, un breve periodo monarchico e oltre 40 anni di dittatura personale di Gheddafi, non deve essere ricostruita, ma costruita”.

Il Dipartimento Studi Europei Imesi, evidenzia, invece, le limitatezze dell'operazione Triton di Frontex: “il Mar Mediterraneo continua irrimediabilmente ad essere la sola destinazione finale degli ormai innumerevoli viaggi della speranza intrapresi da migranti e rifugiati. L'ennesimo naufragio, verificatosi nel Canale di Sicilia nella notte del 18 Aprile, ribadisce che non è più ammissibile riferirsi alla questione immigrazione definendola "emergenza" ma che al contrario risulta doveroso riconoscerle la fattispecie di crisi umanitaria. Nella giornata di domenica la Guardia Costiera dà notizia del rinvenimento di 24 cadaveri e 28 superstiti. Un uomo originario del Bangladesh ha riportato la sua testimonianza sul fatto, riferendo che le persone a bordo erano addirittura più di 900, circa 200 donne e 50 bambini, e che provenivano da diverse nazioni, tra cui Algeria, Egitto, Somalia, Senegal, Zambia e Ghana. Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHRC), ha dichiarato inoltre che il numero delle vittime costituirebbe una "ecatombe mai vista" e che una tragedia come questa non fa altro che rafforzare la necessità di "un'operazione Mare Nostrum europea". É proprio su questo punto che gli animi si scaldano e iniziano a sollevarsi numerose critiche, a partire dal Primo Ministro Matteo Renzi che durante una recentissima conferenza stampa alla quale presenziava anche il Ministro dell'Interno Alfano, ha dichiarato che "bloccare il traffico di esseri umani non può essere considerato un problema di serie B per l'Unione Europea", aggiungendo infine che l'Italia chiede di non essere lasciata sola nell'affrontare la crisi umanitaria dell'immigrazione. Ha sicuramente ben ragione di utilizzare tali termini in quanto, è doveroso ricordarlo, la già citata Mare Nostrum, nata a seguito del tragico naufragio di Lampedusa del 2013, era un'operazione esclusivamente italiana, dunque non supportata dall'Unione Europea o da altri Stati membri. In quell'occasione il governo Letta decise di rafforzare il dispositivo nazionale per il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando tale missione, militare ed umanitaria, i cui obiettivi principali erano due: garantire la salvaguardia della vita in mare, dunque prestare soccorso ai migranti, ed arrestare gli scafisti, spingedosi fino a ridosso delle coste libiche. La missione che, come affermato dal Ministro Alfano, in un anno permise 558 interventi in mare, con 100.250 persone soccorse e 728 scafisti arrestati, fu pagata dall'Italia a caro prezzo: 9,5 milioni di euro al mese, senza alcuna contribuzione europea. Dal 1° Novembre 2014, quindi da appena 5 mesi fa, Mare Nostrum è sostituita da Triton, missione a carattere prettamente europeo finanziata da Frontex, Agenzia Europea delle Frontiere, che finalmente sembra sollevare l'Italia dal gravoso onere di contrasto all'immigrazione clandestina: ciò che l'Europa non ha esplicitato è come questa operazione, invece di ampliare il controllo e la lotta ai flussi migratori, abbia in realtà ridotto il suo mandato a mero controllo delle frontiere, ritenendo quindi eccezionali gli interventi di ricerca e soccorso. Le navi Frontex si mantengono infatti entro le 30 miglia dalle coste italiane senza spingersi verso le coste libiche come invece accadeva con Mare Nostrum. Minore impiego di forze significa conseguentemente budget ridotto, che in effetti si attesta mensilmente sui 2,9 milioni di euro e di conseguenza ciò comporta innegabili limiti di azione”.

Amara la conclusione di Massimo Parisi, Direttore Dipartimento Studi Storici e Filosofici Imesi: “ è opportuno, dunque, riflettere sulla non- sostenibilità politica di alcune proposte, che, nell’ottica di chi le promuove, parrebbero indicare una sommaria soluzione alla fenomenologia negativa del flusso migratorio, ma nulla aggiungono in merito a una strategia di incremento qualitativo dell’ accoglienza in Sicilia e in generale della macchina umanitaria nel Mediterraneo, strategia che invece molto significherebbe in termini di probabilità di sopravvivenza per chi prende il Canale di Sicilia dalle coste del Nord Africa. Il blocco navale infatti è profuso ad libitum dalle bocche di autorevoli esponenti politici italiani, come rimedio per scongiurare definitivamente il versamento di vite umane al mare. Già a un livello intuitivo è facile sollevare qualche dubbio sulla logica cui tale proposta sottende : come si sposa infatti la necessità di prevenzione e gestione del flusso migratorio con l’operazione militare che il blocco navale rappresenta? In che rapporto stanno le parole soccorso, salvataggio, emergenza umanitaria e blocco navale? In cosa risiede l’utilità di chiamare i migliori professionisti del pulito con l’intento implicito di nascondere la polvere sotto al tappeto ? Se è vero infatti che il blocco navale impedisce che il natante prenda il largo alla volta dell’ Unione Europea , risparmiandogli il rischio di avarie e naufragi, nulla è la sua capacità di incidere nella fase terrestre della diaspora, ove le atrocità si consumano per la massima parte. Il blocco navale relega il migrante alla terraferma da cui fugge : gli salva la vita dallo scafista e la consegna alle sorti incerte del deserto, ai colpi di mortaio, alle rappresaglie. Una composizione della questione migratoria riportata alla luce in maniera così brutale e drammatica conduce ad indagare non già la provenienza del migrante, la causa della sua odissea, e le origini della violazione dei diritti umani che lo spinge ad abbandonare la terra natia : tali quesiti trovano una risposta nell’opera dei volontari, nelle cronache di guerra, nella propaganda dissennata dei nuovi regimi, nelle parole delle vittime, delle donne e degli uomini che sopravvivono. Non già l’identità del migrante, dunque, quanto piuttosto l’identità di chi, al di qua del Canale di Sicilia, lo attende. L’interrogativo fa vacillare tanto la Rivoluzione Francese quanto l’Antifascismo. La storia dell’ Europa passa attraverso di essi : gli uomini che nella storia li hanno creati, quelli che hanno combattuto tanto con le idee quanto con le armi, hanno forgiato l’identità del Vecchio Continente, che è ormai carattere indelebile del nostro DNA civile. Ma la storia evolve in forme imprevedibili rendendo difficoltoso muoversi per affrontarne le minacce, che dal canto loro mutano incessantemente, a tal punto che la freccia del tempo, della storia stessa, univoca e inarrestabile, smette di rassicurarci. La storia dell’ Europa, nella straordinaria struttura che da sei decadi unisce invece di dividere, passa oggi attraverso la sfida della coscienza di sé e della propria identità.

lunedì 20 aprile 2015

Le fonti dell'Unione europea

"Radio Bruxelles" 

La nuova rubrica dell'Istituto Mediterraneo Studi Internazionali  per raccontare l'Europa

Le fonti dell'Unione Europea


Dopo avere trattato il tema del fondamento giuridico, nella nostra Costituzione, della partecipazione dell'Italia all'Unione Europea, esaminiamo brevemente quali sono gli atti normativi più importanti dell'Unione. Incominciamo col dire, che gli atti normativi dell'Unione si distinguono in due categorie fondamentali:
A.Diritto primario;
B.Diritto derivato.
Gli atti giuridici dell'Unione figurano all'articolo 288 del TFUE. Si tratta dei regolamenti, delle direttive, delle decisioni, delle raccomandazioni e dei pareri. Le istituzioni dell'UE possono adottare atti giuridici di questo tipo solo se i trattati conferisce loro la dovuta competenza. Il principio di attribuzione, su cui si fonda la delimitazione delle competenze dell'Unione, è esplicitamente sancito all'articolo 5, paragrafo 1, del TUE. Il trattato di Lisbona precisa la portata delle competenze dell'Unione, suddividendole in tre categorie: competenze esclusive, competenze concorrenti e competenze di sostegno, in base alle quali l'UE adotta misure a sostegno o a complemento delle politiche degli Stati membri. I settori oggetto di questi tre tipi di competenza sono elencati agli articoli 3, 4 e 6 del TFUE. In mancanza dei poteri di azione necessari per realizzare uno degli obiettivi previsti dai trattati, le istituzioni possono fare ricorso, nel rispetto di alcune condizioni, alle disposizioni dell'articolo 352 del TFUE. Dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, il numero di atti giuridici dell'Unione è stato ridotto in un'ottica di semplificazione. In effetti, in seguito al trattato di Lisbona, il metodo comunitario si applica a tutte le politiche europee, ad eccezione della politica estera e di sicurezza comune. Il trattato di Lisbona ha altresì eliminato gli strumenti giuridici dell'ex «terzo pilastro». Di conseguenza, le istituzioni adottano ormai esclusivamente gli strumenti giuridici elencati all'articolo 288 del TFUE: fanno unicamente eccezione le politiche estera, di sicurezza e di difesa comune, che continuano a essere soggette al metodo intergovernativo. In questo ambito, le strategie comuni, le azioni comuni e le posizioni comuni sono sostituite dagli «orientamenti generali» e dalle «decisioni» che definiscono le azioni e le posizioni che l'Unione deve adottare, come pure le relative modalità di attuazione (articolo 25 del TUE). Ciò premesso, vediamo di capire la gerarchia delle norme di diritto derivato dell'Unione. Il trattato di Lisbona instaura una gerarchia delle norme di diritto derivato compiendo una precisa distinzione, agli articoli 289, 290 e 291 del TFUE, tra gli atti legislativi, gli atti delegati e gli atti di esecuzione. Si definiscono atti legislativi gli atti giuridici adottati mediante la procedura legislativa ordinaria o speciale. Per contro, gli atti delegati sono atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell'atto legislativo. Il legislatore (Parlamento e Consiglio) può delegare alla Commissione il potere di adottare tali atti. L'atto legislativo definisce gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere come pure, all'occorrenza, i procedimenti d'urgenza. Il legislatore fissa inoltre le condizioni cui è soggetta la delega, che possono essere il diritto di revoca della delega, da un lato, e il diritto di sollevare obiezioni, dall'altro. Gli atti di esecuzione sono generalmente adottati dalla Commissione, che è competente a farlo nei casi in cui siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti. Gli atti di esecuzione sono adottati dal Consiglio soltanto in casi specifici debitamente motivati e nei settori della politica estera e di sicurezza comune. Nel caso in cui l'atto di base sia adottato secondo la procedura legislativa ordinaria, il Parlamento europeo o il Consiglio possono, in qualsiasi momento, comunicare alla Commissione che, a loro avviso, un progetto di atto di esecuzione eccede le competenze di esecuzione previste nell'atto di base. In questo caso, la Commissione deve rivedere il progetto di atto in questione. Esaminiamo i diversi tipi di atti del diritto secondario dell'Unione. 
a.I regolamenti
Di portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili, i regolamenti devono essere pienamente rispettati dai destinatari (singoli individui, Stati membri, istituzioni dell'Unione). I regolamenti sono direttamente applicabili in tutti gli Stati membri a partire dalla loro entrata in vigore (alla data specificata o, in assenza di indicazione, venti giorni dopo la loro pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea), senza necessità di recepimento nel diritto nazionale. I regolamenti sono volti a garantire l'applicazione uniforme del diritto dell'Unione in tutti gli Stati membri. Ne consegue che le norme nazionali incompatibili con le clausole sostanziali contenute nei regolamenti sono rese inapplicabili dagli stessi.
b.Le direttive
Le direttive vincolano lo Stato membro o gli Stati membri cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Il legislatore nazionale deve adottare un atto di recepimento (ossia una «misura nazionale di esecuzione») nel diritto interno che adatta la legislazione nazionale rispetto agli obiettivi definiti nella direttiva. In sostanza, ai singoli cittadini vengono attribuiti diritti e imposti obblighi solo una volta adottato l'atto di recepimento. Gli Stati membri dispongono di un certo margine di manovra per il recepimento che permette loro di tenere conto di specifiche circostanze nazionali. Il recepimento deve avvenire entro il termine stabilito nella direttiva. Nel recepire le direttive gli Stati membri sono tenuti ad assicurare l'efficacia del diritto dell'Unione, in virtù del principio di leale cooperazione di cui all'articolo 4, paragrafo 3, del TUE. In linea di principio, le direttive non sono direttamente applicabili. La Corte di giustizia dell'Unione europea ha statuito che alcune disposizioni di una direttiva possono, in via eccezionale, produrre effetti diretti in uno Stato membro senza che quest'ultimo abbia in precedenza adottato un atto di recepimento se: a) la direttiva non è stata recepita o è stata recepita in modo errato nell'ordinamento nazionale; (b) le disposizioni della direttiva sono, da un punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente chiare e precise, e (c) le disposizioni della direttiva conferiscono diritti ai singoli. Qualora sussistano tali presupposti, i singoli possono invocare le disposizioni della direttiva dinanzi alle autorità pubbliche. Le autorità degli Stati membri hanno l'obbligo di tener conto della direttiva
non recepita anche qualora la disposizione in questione non accordi alcun diritto al privato e sussistano solo il primo e il secondo presupposto di cui sopra. Detta giurisprudenza si fonda soprattutto sui principi dell'effetto utile, della prevenzione delle violazioni del trattato e della tutela giurisdizionale. Per contro, il privato non può invocare direttamente nei confronti di un altro privato (cosiddetto «effetto orizzontale») l'effetto diretto di una direttiva non recepita . Secondo la giurisprudenza della Corte (sentenza Francovich) , il privato è autorizzato a chiedere a uno Stato membro il risarcimento dei danni subiti a causa del mancato rispetto del diritto dell'Unione da parte di quest'ultimo. Se si tratta di una direttiva non recepita o recepita in modo insufficiente, tale ricorso è possibile se: (a) la direttiva mira a conferire diritti ai singoli, (b) il contenuto dei diritti è desumibile dalla direttiva stessa e c) esiste un legame di causa ed effetto tra la violazione dell'obbligo di recepimento da parte dello Stato e il danno subito dal privato. In tal caso è possibile stabilire la responsabilità dello Stato membro senza dover dimostrare una colpa a suo carico.
c.Le decisioni.
Le decisioni sono obbligatorie in tutti i loro elementi. Se designano i destinatari (Stati membri, persone fisiche o persone giuridiche), sono obbligatorie soltanto nei confronti di essi e trattano situazioni specifiche a detti Stati membri o a dette persone. Il privato può far valere diritti attribuiti mediante una decisione destinata a uno Stato membro solo se quest'ultimo ha adottato un atto di recepimento. Le decisioni possono essere direttamente applicabili alle stesse condizioni previste per le direttive. Assai importanti sono poi i principi generali del diritto dell'Unione, menzionati di rado nei trattati. Tali principi sono stati prevalentemente sviluppati attraverso la giurisprudenza della Corte (certezza del diritto, equilibrio istituzionale, legittimo affidamento, ecc.) e sono ormai sanciti dall'articolo 6, paragrafo 3, del TUE, che fa riferimento ai diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, come pure dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Rosario Fiore e Marco Caradonna

domenica 19 aprile 2015

Cambiamenti globali e sfide energetiche: l'intervista a Matteo Verda, ricercatore ISPI

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Cambiamenti globali e sfide energetiche: l'intervista a Matteo Verda, ricercatore ISPI

a cura di Martina Bonaffini




Questo mese nella rubrica “La parola all'esperto” ospitiamo MatteoVerda, http://www.ispionline.it/en/ricercatore/matteo-verda,  ricercatore dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), esperto in politiche energetiche e di sicurezza . In questa intervista ci spiegherà la dipendenza degli Stati dai combustibili, in che modo l'industrializzazione abbia giocato un ruolo determinante sotto il profilo dei consumi e delle dipendenze “inter “ stati, e come si siano  sviluppate le politiche energetiche in vista delle nuove sfide globali.


Quanto conta il petrolio nella vita degli stati per definire la loro posizione nei mercati?
La domanda posta in questi termini è senza dubbio molto vasta. Diciamo che il petrolio resta la fonte energetica più importante sui mercati internazionali. Per i paesi industrializzati e importatori, l’approvvigionamento energetico tende a essere un’attività economica svolta da soggetti privati. I governi si limitano a garantire un livello minimo di sicurezza tramite l’accumulo di riserve strategiche e intervengono diplomaticamente e militarmente in caso di gravi minacce. Per i paesi esportatori, il settore energetico rappresenta spesso un elemento centrale dell’economia nazionale ed è oggetto di intervento diretto e costante del governo. Tipicamente, attraverso il controllo pubblico di una compagnia energetica nazionale.

Quali sono i paesi produttori e chi ne dipende?
I principali produttori mondiali sono gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e la Russia, che insieme estraggono circa un terzo di tutto il petrolio consumato nel mondo. Arabia Saudita e Russia sono anche grandi esportatori, seguiti da Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Venezuela. Per quanto riguarda gli importatori, i principali sono l’Unione Europea, la Cina, l’India e il Giappone. Anche gli Stati Uniti sono ancora un importatore netto, ma meno che in passato, grazie all’aumento della produzione domestica da non convenzionale.

Quali politiche dovrebbero adottare gli stati per raggiungere il grado di competitività nel mercato, al pari di U.S.A e Giappone, ad esempio.
Questa è una domanda molto complessa, la cui risposta dipende dalle condizioni specifiche del paese considerato. Per esempio, per replicare il boom del non convenzionale nordamericano servono le condizioni geologiche, industriali e legali statunitensi, di certo non replicabili in molti altri paesi. Quanto al Giappone, gli investimenti in ricerca tecnologica e l’efficienza energetica sono aspetti sicuramente importanti.

È possibile un black out energetico mondiale? Se accadesse gli stati come potrebbero reagire considerata la dipendenza dall'energia?
No, non è possibile nulla del genere. La molteplicità delle fonti energetiche e dei fornitori rende difficile ipotizzare un’interruzione generalizzata delle forniture in ogni parte del mondo.

Quali sono le energie che muovono gli stati e quindi le economie?
L’energia è una sola. Esistono invece molte fonti e molti vettori diversi. Attualmente, l’energia consumata a livello mondiale viene soprattutto dalle fonti fossili: petrolio, carbone e gas naturale contano per l’80% del totale. Accanto a queste, si trovano le rinnovabili (15%) e il nucleare (5%).

Vi è spazio per le energie rinnovabili?
Senza dubbio. Ma per diffondersi e diventare dominanti nel paniere energetico, dovranno diventare economicamente competitive. Occorre investire molto in ricerca, in particolare con un occhio di riguardo alle tecnologie che consentano di accumulare l’energia prodotta con le fonti discontinue, come il fotovoltaico e l’eolico.

Quali paesi potrebbero adottare “politiche rinnovabili “?
Ogni paese può farlo, in realtà. Poi, certamente avere ampi territori non urbanizzati o godere di un irraggiamento solare molto forte e costante sono indubbi vantaggi competitivi.

Qualora nel mercato l'offerta non dovesse più soddisfare la domanda cosa accadrebbe? Inversione di rotta verso altri combustibili o collasso dell'economia con conseguente guerra petrolifera?
Come per ogni mercato, quando la domanda supera l’offerta, i prezzi tendono a salire. Se i meccanismi di mercato funzionano male o saltano, allora l’approvvigionamento energetico diventa una questione di sicurezza, da affrontare con strumenti militari. Si tratta però di un’ipotesi estrema e molto cambia in base alla fonte energetica che si considera. Il mercato petrolifero e quello del carbone, per esempio, sono molto diversi da quello del gas. Nei primi, il trasporto avviene soprattutto via nave ed è relativamente economico. Nel caso del gas naturale, invece, il trasporto avviene soprattutto via tubo e dunque produttori e consumatori sono costretti a cooperare, se vogliono trarre vantaggio reciproco. In linea di principio, ogni fonte è sostituibile, la questione è il costo di farlo. Banalmente, tuttavia, quello che in tempo di pace è impensabile, in caso di emergenza può diventare una misura indispensabile.

Com'è cambiata la concezione della produzione energetica in Giappone dopo Fukushima?
Inizialmente, l’ondata emotiva è stata comprensibilmente grande. Riassorbito lo shock, resta una grande consapevolezza nell’élite del paese di quanto la tecnologia nucleare sia indispensabile per garantire il benessere e la sicurezza del Giappone nel lungo periodo. Peraltro, l’alternativa al nucleare in questi anni è stata una maggiore dipendenza dalle importazioni di gas e carbone, con effetti molto negativi sulla bilancia commerciale giapponese e sul livello di emissioni climalteranti.

Qual è il ruolo dell'italia nei mercati internazionali, e quali sono le strategie adottate dalle imprese?
L’Italia è una paese dipendente dalle importazioni, sia di petrolio sia di gas naturale. Nel caso del petrolio, i consumi italiani valgono poco più dell’1% del mercato mondiale: in questo settore, la sicurezza energetica del paese dipende dalla stabilità e dal corretto funzionamento dei mercati internazionali. Nel caso del gas naturale, la stabilità delle forniture dipende invece dai fornitori collegati via tubo alla rete nazionale. Per questi produttori, il mercato italiano rappresenta invece uno sbocco molto importante e la cooperazione, anche istituzionale, gioca spesso un ruolo importante. Per quanto riguarda le imprese, Eni, Enel, Edison e alcuni grandi gruppi di municipalizzate hanno una lunga storia di attività in Italia e rappresentano un settore industriale importante per il paese. Al pari degli altri paesi europei, però, l’Italia ha scelto la via dell’apertura del mercato alla concorrenza e di riduzione dell’intervento pubblico. Oggi, i grandi operatori nazionali rispondono a strategie essenzialmente economiche e alla logica di creazione di valore per i propri azionisti.

Quanto costa all'Europa la sicurezza energetica? Da chi viene pagata?
È impossibile quantificare, perché ogni misura di politica energetica ha molte ricadute in ambiti diversi. Per esempio, i generosi sussidi alle rinnovabili pagati da Italia e Germania hanno aumentate la produzione interna e quindi ridotto i rischi alla sicurezza derivanti dalla dipendenza dalle importazioni. Sarebbe però difficile dire quanta parte dei 13 miliardi di sussidi pagati in bolletta dagli italiani ogni anno sia da considerarsi un costo di sicurezza e quanto una misura ambientale o di redistribuzione sociale. In generale, è però possibile dire che l’esistenza di un mercato ampio e liquido, dove realizzabile, è lo strumento più efficace per garantire la sicurezza dei consumatori. Perché quando ci sono molti fornitori in reale concorrenza tra loro, se uno viene meno, altri possono sostituirlo. Come accade nel mercato del carbone, di cui non a caso si sente poco parlare, in termini di rischio per la sicurezza, nonostante rappresenti una quota dei consumi energetici mondiali analoga a quella del petrolio.

La crisi ucraina ha messo a repentaglio le forniture di energia per l'Europa, quali politiche “salva gas “ sono state attuate dagli stati per placare questa possibile rottura?
La migliore politica “salva gas” è quella di collaborare con chi il gas già ce lo fornisce, ossia con la Russia. Nonostante le divergenze politiche su altri temi, le forniture da parte russa non sono mai state messe in discussione. Per Gazprom, l’Unione Europea è di gran lunga il mercato più importante: la compagnia russa dipende dall’accesso al mercato europeo perfino più di quanto gli importatori europei dipendano dal gas russo. Questa reciproca dipendenza rende i flussi di gas russo più affidabili di quanto non appaia mediaticamente.

lunedì 13 aprile 2015

Stati Uniti e Cuba: l'inizio di una nuova era dopo un disgelo lungo mezzo secolo

#Pensatodavoi

Lo spazio settimanale, a misura di lettore, per le vostre riflessioni


Stati Uniti e Cuba: l'inizio di una nuova era dopo un disgelo lungo mezzo secolo



“Todos somos americanos!”. Aveva aperto così il suo discorso il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, lo scorso Dicembre, parlando del futuro delle relazioni internazionali tra gli States e Cuba. Per l’occasione aveva perfino ringraziato Papa Francesco per il grande esempio che quotidianamente trasmette dall’altra parte del mondo. Il progetto di pace dunque nasceva allorché si gettavano le basi per quello che sarebbe stato, di lì a poco, un summit delle Americhe al completo: per la prima volta e dopo cinquant’anni di guerra fredda, anche Cuba riceve la “partecipazione”. La stretta di mano a Panama, incorniciata in un delizioso quadretto di reciproche riverenze, tra il leader americano Barack Obama e quello cubano Raùl Castro è datata 11 Aprile 2015 e sugella, così, il magnifico evento. E’ curioso peraltro notare come l’immagine rimandi alla stretta di mano avvenuta un cinquantennio fa, per esattezza nel 1956, tra l’ex capo di Stato Eisenhower e il dittatore Batista: un gesto cui, allora lo non si poteva certo immaginare, avrebbe fatto seguito la rivoluzione cubana e che oggi sancisce in parallelo l’avvio di una nuova rivoluzione, questa volta di carattere pacifico. Il piano di riappacificazione Obama tocca, attraverso una lista di punti fondamentali, quelli che sono i valori cardine di democrazia e di rispetto che due paesi civili, a maggior ragione se facenti parte dello stesso continente, dovrebbero oggi normalmente condividere. Una lista che tuttavia è il caso di attenzionare in prospettiva e soltanto dopo aver svolto un’obiettiva analisi della situazione non giuridica e, soprattutto, non legittima in cui versava Cuba da un cinquantennio a questa parte. Il fenomeno delle strette misure che gli Stati Uniti hanno severamente imposto a Cuba, noto sotto il nome di “El bloqueo”, è stato tutt’altro che un semplice embargo economico, tanto da esser passato come un vero e proprio blocco dell’isola. Infatti, preso per buono che esiste oggi una generale libertà dei commerci per cui uno Stato è libero di intrattenere relazioni economiche con chi preferisce, è pur vero che suddetta libertà non può essere esercitata quando nuoce all'indipendenza politica e all’esistenza stessa di un altro Stato: in tal caso si entra nel campo dell’uso illecito della forza. Inoltre nel caso delle sanzioni statunitensi contro Cuba, la loro legittimità va constatata alla luce delle regole generali della Carta delle Nazioni Unite concernenti il divieto di ingerenza negli affari interni di altri Stati ed anche in relazione a quanto incidono nei confronti di Stati terzi che si vedono danneggiati ed impediti nell'esercizio della loro libertà commerciale. Tale aspetto controverso delle sanzioni ha infatti determinato la reazione di molti paesi dell’Unione Europea che non ritenevano ammissibile l’atteggiamento talmente risoluto degli Usa nel conferire efficacia universale alle proprie sanzioni contro Cuba. Occorre aggiungere all’analisi sin’ora fatta un ultimo punto in elenco, ma che probabilmente è il primo quanto ad importanza, riguardante gli effetti perversi che tale blocco di sanzioni ha causato sulla società, soprattutto quando adottato nei confronti di paesi in via di sviluppo non dotati di strutture economiche forti e capaci di autosufficienza: le sanzioni hanno avuto ben presto effetti gravi sugli strati più umili della popolazione facendo mancare loro anche beni di prima necessità. In questo contesto è auspicabile che eventuali sanzioni economiche non siano adottate in maniera unilaterale, ma che siano anzi precedute da autorizzazioni ufficiose da parte delle Nazioni Unite le quali potrebbero certo limitare gli effetti delle sanzioni stesse sugli strati più disagiati delle popolazioni e su quegli Stati terzi che, pur non essendone l’obbiettivo, finiscono col soffrirne le conseguenze sfavorevoli. La Risoluzione 47/19 approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 24 novembre 1992 ne è, fortunatamente, una conferma in questo senso. Alla luce di queste premesse storico-giuridiche, appare quantomeno doverosa e consequenziale, oggi, la volontà del Presidente degli Usa Obama di stilare una serie di passi avanti nei confronti di Cuba, i quali prevedono, senz’altro:
- La riapertura dell’ambasciata statunitense all’Avana compresa di visita da parte dei funzionari americani a Cuba in favore della condivisione di tematiche urgenti quali sanità, immigrazione, lotta al terrorismo etc;
- L’eliminazione di Cuba dall’elenco degli Stati complici del terrorismo
- Il permesso ai cittadini cubani di viaggiare verso gli Stati Uniti in piena libertà, di far circolare merci e informazioni;
- La possibilità per i lavoratori cubani di fondare dei sindacati per esprimere liberamente la propria opinione;
Questi step, per quanto rilevanti, rappresentano solo la punta dell’iceberg di una rivoluzione pacifica che sembra star prendendo campo gradualmente e che, a detta di Castro, richiede “molta pazienza”. Presto detto: da Dicembre 2014 è stato progettato un avvicinarsi cauto tra i due ex nemici, sentiero imprescindibile per un nuovo approccio politico. Ciò dimostra come la storia sia, ancora una volta, essenziale e maestra per capire i tortuosi meccanismi dell’attuale politica internazionale.

Giulia Guastella 

mercoledì 8 aprile 2015

La corte di Strasburgo si pronuncia sul caso Diaz: la colpa alla legislazione italiana

#Pensatodavoi

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La corte di Strasburgo si pronuncia sul caso Diaz: la colpa alla legislazione italiana


La negligenza delle forze dell'ordine ed un ordinamento giuridico da modificare, 45.000 euro di risarcimento per Arnaldo Cestaro.


"Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti." Così recita l'articolo 3 della CEDU (Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e del cittadino), firmata a Roma nel 1950 dagli Stati Membri del Consiglio d'Europa, tra i quali c'era anche il Nostro. Guardando invece alla "Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti", conclusa a New York nell'ottobre del 1984 e anch'essa ratificata dal Nostro Paese, riscontriamo al primo comma dell'articolo 2 un richiamo del sopra citato articolo 3 della CEDU, con un importante obbligo aggiuntivo: "Ogni Stato Parte prende provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari ed altri provvedimenti efficaci per impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione". Tuttavia la legislazione italiana non vi si è conformata. Il codice penale italiano, infatti, non prevede il reato di tortura e a renderlo noto è stata in particolare la sentenza della Corte di Strasburgo, anche detta Corte EDU (istituita nel 1959 proprio dalla CEDU). La sentenza prevede infatti un risarcimento di più di 40.000 euro in favore di Arnaldo Cestaro 75enne vicentino, che il 21 luglio 2001 fu vittima di un blitz delle forze dell'ordine presso la scuola Diaz. Era il periodo delle rivolte dei no global durante il G8 di Genova e Cestaro, allora 65enne e militante di rifondazione comunista, si trovava in quella scuola per dormire. A mezzanotte partì il blitz e Cestaro fu sottoposto ad una cruda violenza gratuita, come raccontano alla Corte gli avvocati del ricorrente, Nicolò e Natalia Paoletti, Joachim Lau e Dario Rossi. Da quella notte Cestaro non ne uscì incolume, riportò infatti parecchie fratture, ma il danno più grave è stato quello morale che Cestaro, afferma, "non potrà mai essere risarcito con del denaro", "perché quella notte ho visto la malvagità in coloro che sono lo Stato", aggiunge. Ci aspetteremmo dunque che adesso si trovino i colpevoli di questo reato, ma così non potrà essere; infatti la negligenza delle forze dell'ordine, restie a collaborare per trovare i colpevoli, l'assenza dei numeri identificativi sulle divise delle forze dell'ordine (il nostro è uno dei pochissimi paesi al mondo a non averli), ma soprattutto l'assenza di un ordinamento giuridico atto a prevenire ed eventualmente punire un reato di tortura, sono tutti questi fattori che portano all'impossibilità di riscontrare uno o più colpevoli del malfatto e quindi ad infliggergli una pena. "Diaz non è stata sicuramente una bella parentesi, ma parlare di tortura mi sembra eccessivo", afferma il segretario del Sap, il Sindacato autonomo di polizia, Gianni Tonell. Tuttavia non è solo il reato di tortura che si evince dal racconto di Arnaldo Cestaro. La corte di Strasburgo ha infatti evinto la violazione dell'articolo 6 della CEDU, che prevede il Diritto ad un Equo Processo (simile ma non uguale all'articolo 111 della Nostra Costituzione, che prevede il Diritto ad un Giusto Processo), ma soprattutto alla lettera c) del comma 3 del sopra citato art. 6, nel quale è previsto il diritto ad essere assistiti da un difensore. Diritto, quest'ultimo, negato a Cestaro dalle forze dell'ordine nella misura in cui hanno colpito chiunque si trovasse in quella scuola di notte, senza prima accertarsi su chi fossero i colpevoli dei disordini e, anzi, costituendo un verbale falso dell'accaduto e privando le vittime di ricorrere contro le forze dell'ordine davanti a un'istanza nazionale. 
Notiamo allora un'altra violazione, questa volta è l'articolo 13 della CEDU ad essere violato, che prevede il Diritto a un ricorso effettivo anche se la violazione è stata commessa da persone che esercitano le loro funzioni ufficiali. L'oggi 75enne Arnaldo Cestaro, che è diventato membro onorario del Comitato verità e giustizia per Genova, si dice soddisfatto del verdetto della Corte di Strasburgo, poiché questo potrebbe essere  la chiave di volta per  gli altri processi analoghi che si trovano in una fase di stallo, archiviati e mai risolti, proprio presso la Corte EDU.  Rimane tuttavia un interrogativo da porsi: Arnaldo Cestaro si trovava presso la scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001, ma perché?  Un militante di rifondazione comunista che, in quanto tale, non poteva sicuramente essere stato protagonista di proteste pacifiche, poiché rammentiamo tutti i malfatti compiuti dai manifestanti durante il G8 di Genova, che si trovava in quello che diventò un covo dei no global, era davvero di passaggio? Tuttavia, pur non potendo sapere (forse) ciò che Cestaro commise di giorno, dobbiamo sicuramente preoccuparci maggiormente di revisionare e adattare la legislazione italiana alle Convenzioni internazionali ratificate. E in effetti piccoli passi vengono mossi verso un cambiamento. La normativa che prevede gli atti di tortura, infatti, è già passata in seconda lettura alla Camera. Sta di fatto, però, che continui richiami vengono mossi verso l'Italia, tante parole vengono dette in TV dai nostri politici e pochi provvedimenti tangibili vengono presi. Con incalzanti scadenze per assumere regolamenti e direttive in ambito internazionale, lo Stato è sempre più soggetto a multe o risarcimenti che gravano sulle nostre nostre tasche, perché "lo Stato" siamo noi.  E qui direbbe il buon Totò "e io pago"... Come sempre.

Davide Spinnato

lunedì 6 aprile 2015

Radio Bruxelles: Ma la Costituzione giustifica la cessione di sovranità all'Unione Europea?

"Radio Bruxelles" 

La nuova rubrica dell'Istituto Mediterraneo Studi Internazionali  per raccontare l'Europa

Ma la Costituzione giustifica la cessione di sovranità all'Unione Europea?



Uno degli aspetti che certamente più ha interessato il dibattito tra gli studiosi non solo di Diritto Internazionale ma anche di Diritto Costituzionale, è senza dubbio alcuno il fondamento costituzionale dell'adesione del nostro Paese all'Unione Europea. Gli studiosi sono unanimi (eccezion fatta, come vedremo, la tesi minoritaria del Quadri) nel ritenere che l'adesione italiana alle Comunità europee trovi giustificazione e fondamento nell'articolo 11 della Costituzione, in quella parte in cui esso afferma che l'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie a garantire un ordinamento pacifico fra la Nazioni, promuovendo e favorendo le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Dalla lettura dei lavori preparatori dell' Assemblea Costituente, appare evidente che il costituente, nello scrivere l'articolo 11, avesse in mente, in quel momento, la partecipazione dell'Italia alle Nazioni Unite, sebbene non siano mancati emendamenti, respinti, (ad esempio quello di Emilio Lussu) volti ad affermare un riferimento ad ipotetiche organizzazioni europee. Certamente, occorre contestualizzare il periodo storico in cui venne scritta la nuova Costituzione
repubblicana: siamo alla fine della seconda guerra mondiale, con gli orrori e le follie dei totalitarismi nazista e fascista, per cui forte era la spinta pacifista verso la costruzione di un nuovo ordine mondiale basato sui concetti di pace appunto e di giustizia, nonché dalla necessità di costituire una nuova Organizzazione delle Nazioni Unite, con più poteri rispetto alla precedente e fallimentare Società delle Nazioni. In questo contesto, i nostri padri costituenti ritennero di elevare il pacifismo a supremo principio costituzionale; dall'altro lato ipotizzarono la possibilità che il nostro Paese, in condizioni di reciprocità con altri Stati, potesse anche accettare di limitare la propria sovranità, non solo in riferimento alle norme internazionali (cosa resa superflua peraltro dal principio pacta servanda sunt) ma soprattutto per partecipare ad organismi internazionali finalizzati al raggiungimento di un ordine internazionale pacifico. Da questo punto di vista, se la partecipazione del nostro Paese all'ONU non ha implicato significative e straordinarie limitazioni di sovranità, il discorso cambia, e di molto, per quanto riguarda la partecipazione all'U.E. Sappiamo che l'Unione Europea ( e prima ancora la CEE) è un organismo internazionale particolare rispetto agli altri, sui generis, caratterizzato dalla produzione di norme spesso direttamente applicabili in ogni Stato membro ( regolamenti e direttive ad efficacia immediata) e dotato di un vero e proprio organismo legislativo ad elezione diretta. A differenza di altre organizzazioni internazionali, tra cui anche l'ONU, le norme comunitarie (oggi diciamo dell'Unione) non sono soft law, ma sono norme giuridiche vincolanti e obbligatorie per tutti gli Stati membri, con un grado di superiorità gerarchica rispetto alle norme interne. Ed è il primato delle norme comunitarie ad essere stato ancorato proprio all'articolo 11 della Costituzione, con una interpretazione estensiva di quella locuzione relativa " alla limitazione di sovranità". Già nella nota sentenza Costa/ Enel (1964) la Corte Costituzionale italiana ritenne che l'articolo 11 era il punto di riferimento con cui giustificare tale adesione, affermando che “la norma significa che, quando ricorrono certi presupposti, è possibile stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria ”. La stessa pronuncia aggiunge che, tuttavia, “ciò non importa alcuna deviazione dalle regole vigenti in ordine alla efficacia nel diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato nei rapporti con gli altri Stati, non avendo l’art. 11 conferito alla legge ordinaria, che rende esecutivo il Trattato, un’efficacia superiore a quella propria di tale fonte del diritto ”. L’articolo 11 era quindi visto come una norma permissiva, che non attribuisce un particolare valore, nei confronti delle altre leggi, a quella esecutiva del Trattato. Logica conseguenza era che, secondo la Corte, lo Stato, dopo aver accettato la limitazione della propria sovranità, avrebbe potuto recuperare la propria libertà di azione mediante una legge ordinaria successiva, senza che quest’ultima incorresse nel vizio di incostituzionalità, ferma restando l’eventuale responsabilità dello Stato sul piano internazionale. Successivamente, evolvendo il proprio pensiero, la Corte Costituzionale, nella sentenza Frontini (1973) chiamata a pronunciarsi sul fondamento costituzionale del fenomeno comunitario in relazione all’articolo 11, giunge alla conclusione che “non è possibile avere alcun dubbio sulla piena rispondenza del Trattato di Roma alle finalità indicate da tale disposizione; se è vero che essa fu pensata per l’ONU, tuttavia, essendo caratterizzata da generalità e astrattezza, ben può essere utilizzata anche per regolare fattispecie differenti che rientrano nel suo campo di applicazione, come avviene nel caso dell’Unione Europea, che secondo la Consulta certamente costituisce organizzazione internazionale che persegue pace e giustizia tra le Nazioni, l’adesione alla quale, quindi, può determinare per l’Italia limitazioni di sovranità “. Il primato del diritto comunitario sul diritto interno, tuttavia, ha avuto una elaborazione giurisprudenziale interna molto lenta e spesso conflittuale con la giurisprudenza della CGE, che invece ha da sempre affermato tale primato. E' con la sentenza Granital del 1984, che la Corte Costituzionale ha finalmente affermato il principio secondo cui, a norma dell'articolo 11 Cost., l'ordinamento interno e l'ordinamento comunitario sono due ordinamenti autonomi, che si coordinano ed integrano tra loro e affermando il primato del diritto comunitario sul diritto interno, risolvendo eventuali antinomie tra essi non già attraverso il giudizio di costituzionalità bensì attraverso lo strumento della “disapplicazione” della norma interna in favore della norma comunitaria, munita di effcacia diretta. Questa impostazione ha poi trovato conforto nella riformulazione, nel 2001, dell' articolo 1170 Cost., dove per la prima volta, in maniera esplicita, viene fatto riferimento in Costituzione al diritto comunitario e si afferma il principio della supremazia dello stesso sull'ordinamento interno. Diversa è invece, come detto, la posizione del Quadri il quale, ritenne di individuare il fondamento costituzionale dell' adesione italiana all'Unione Europea nell'articolo 10 della Costituzione: quest'ultimo articolo, sostiene il Quadri, recependo in maniere automatica le norme consuetudinarie generalmente riconosciute, rinvia al principio pacta servanda sunt, per cui i trattati, tra cui ovviamente quelli istitutivi dell' Unione Europea, sarebbero vincolanti per il
nostro Paese automaticamente, senza necessità di alcuno specifico ordine di esecuzione. La tesi del Quadri, per quanto originale, ciò nondimeno, non ha riscontro alcuno nel dato normativo costituzionale, cozzando con la previsione di cui agli articoli 80 e 87 della Costituzione, che prevedono invece una procedura ad hoc per la ratifica dei trattati internazionali. Tuttavia, a ben vedere, la ratifica importa la sola responsabilità dello Stato sul piano internazionale, e non anche l' obbligatorietà del trattato sul piano interno: non vi è in Costituzione, infatti, alcun riferimento alla procedura di adeguamento del diritto interno al diritto internazionale pattizio, diversamente da ciò che accade con l'esplicito riferimento dell'articolo 10 al diritto internazionale consuetudinario. Ciò posto, occorre chiedersi allora se l'articolo 11 possa giustificare la “cessione” di sovranità,sebbene limitata a determinate materie, dello Stato verso l' U.E. L'articolo in questione parla di " limitazione" della sovranità, il che fa pensare non tanto alla cessione di intere competenze, come avvenuto nel caso dell' Unione Europea, ma ad un esercizio delle competenze nell'ambito e nel rispetto di un ordine sovrastatale superiore. Di recente, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 227 del 24 Giugno 2010, ha nuovamente ribadito che solo l'articolo 11 Cost. , ancor più dell'art. 117 Cost. post riforma 2001, garantisce quelle limitazioni di sovranità che l'ordinamento comunitario comporta, sottolineando ancora una volta che lo Stato, attraverso l'articolo 11 Cost., ha operato una delega di competenze all'Unione Europea, con la conseguenza che gli atti normativi di quest'ultima, qualora siano ad efficacia diretta, sono sottratte al controllo di costituzionalità della Corte Costituzionale, dovendo il giudice disapplicare la norma interna in contrasto con la norma comunitaria. A ben vedere, dunque, la giurisprudenza costituzionale interna ha fin qui elaborato un principio di ancoraggio del fondamento giuridico dell'Unione Europea imperniato nell'art. 11 Cost., il quale correttamente così interpretato, certamente non consente una cessione illimitata di sovranità, ma esclusivamente una delega di sovranità in favore di organismi internazionali aventi ad oggetto il mantenimento della pace e della giustizia. E ciò vale anche per l'Unione Europea, con la conseguenza, ad avviso di chi scrive, che, a Costituzione invariata, lo spoglio totale di competenze del nostro Paese in favore dell'Unione è al limite della costituzionalità, imponendo al legislatore un intervento di modifica costituzionale dell'articolo 11, rendendolo coerente col nuovo assetto comunitario, soprattutto dopo l'entrata
in vigore del Trattato di Lisbona.

Dott. Rosario Fiore
Segretario Generale I.ME.S.I
in collaborazione con
Marco Caradonna

Coordinatore Uffcio Segreteria Generale I.ME.S.I