giovedì 26 maggio 2016

La mafia con gli occhi del Maghreb

La mafia con gli occhi del Maghreb



Avevo solo tre anni quando una bomba sventrò l'autostrada che collegava Palermo con l'aeroporto di Punta Raisi, uccidendo il giudice Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Mentre mia sorella ne aveva solo due quando una autobomba sventrò Via d'Amelio. Prima di me mio padre, allora giovane operaio tunisino appena emigrato a Palermo, conobbe la ferocia di Cosa Nostra con i cadaveri lasciati a terra dalla seconda guerra di mafia di inizio anni ottanta e l'agguato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa avvenuta in Via Carini, a pochi passi dal residence in cui abitava con altri operai magrebini .

Dopo mio padre e poco prima di me e mia sorella, mia madre, nel 1987 allora sposina fresca di Maghreb, conobbe quella ferocia narrata qualche anno prima da mio padre quando Cosa Nostra tornò a sparare nelle strade palermitane. Molto spesso durante le commemorazioni, come quelle avvenute in questi giorni  in occasione dell'anniversario della morte del Giudice Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, chi parla della lotta alla mafia sono ''degli italianissimi'' (e non sicilianissimi) cittadini. E chi vede da fuori l'allestimento di questo teatro spesso si chiede : ma solo gli italiani hanno subito, e subiscono ancora, la prepotenza mafiosa laggiù? Ovvio che no, mi verrebbe da rispondere. Ma dopo aver risposto alla domanda di questo pinco pallino che ci osserva da fuori, a mia volta mi chiedo: perché durante queste ''italianissime'' commemorazioni non abbiamo mai sentito la voce delle vecchie comunità che da secoli arricchisce l'identità siciliana. 

Perché durante le commemorazioni non abbiamo mai sentito le voci dei figli di quelle comunità immigrate, nati e cresciuti nell'Isola di Giuseppe Impastato ? 

Eppure anche loro (come nel caso di mio padre) sono stati testimoni di questo pezzo di storia siciliana. Anche loro, a differenza degli ''italianissimi'' (e ripeto, non sicilianissimi) hanno subito sulla loro pelle questo fenomeno storicamente foraggiato da quei stessi ''italianissimi'' e i loro seguaci siciliani in salsa tricolore. Ed è proprio durante queste commemorazioni che personaggi come me, nonostante il codice genetico arabo, berbero e punico condiviso da mezza Sicilia, vengono ancora oggi considerati figure fuori luogo da questo strano concetto di memoria collettiva che esclude invece di includere. Ma ecco che proprio alla vigilia della ventiquattresima e italianissima commemorazione della strage di Capaci, a Palermo, nella sicilianissima Palermo, la sicilianissima comunità bengalese dell'antico quartiere del Ballarò si era ribellata coraggiosamente contro la prepotenza mafiosa locale. E proprio ieri io, figlio di quell'anonimo operaio tunisino che assitette da lontano all'omicidio Dalla Chiesa, avevo presentato la lotta alla mafia giù in Sicilia ad un pubblico internazionale, in Lituania, riscuotendo un grande successo e cancellando cosi dalle menti di spagnoli, francesi e lituani, l'equazione Sicilia uguale Mafia. Ne parlai come di una mia lotta e nessuno ha fatto caso ai miei tratti somatici nordafricani. Forse perché tutti sanno che la Sicilia non è solo italiana. Forse perché sanno che essere siciliani vuol dire anche essere arabi, normanni, fenici, e chissà quant'altro. Vuol dire essere figli di un identità, quella siciliana, che ha incluso e mai escluso.  A chi appartiene quindi la lotta ? La lotta appartiene a chi abita e vive la dura realtà dei vecchi quartieri palermitani, senza distinzioni di colore, religione o etnia. La lotta invece non appartiene a quegli ''italianissimi'' che ogni 23 Maggio o 19 Luglio escono dalle loro torri d'avorio per poi rientrarvi poco prima delle mezzanotte.

Rabih Bouallegue

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