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Scenario Turco: alle radici del successo di Erdogan
Le elezioni anticipate del 1° novembre in Turchia hanno chiaramente
premiato il partito del presidente Erdoğan. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) ha riportato il 49,3% delle preferenze, ottenendo 315 seggi, mentre l’Hdp, partito
filo–curdo che aveva rappresentato la grande sorpresa delle elezioni di giugno,
ha superato di poco la soglia di sbarramento del 10%, ottenendo solo 61 seggi.
Pur non riuscendo a raggiungere il numero di seggi necessari (330) per indire
un referendum volto a cambiare la Costituzione,
né quello per approvare in maniera diretta una modifica costituzionale
(367), Erdogan ha nettamente vinto la sua scommessa. Per quali motivi il presidente turco ha stravinto ?? Erdogan
ha saputo far leva sulla paura diffusa di vedere la destabilizzazione
contagiare anche la repubblica fondata da Kemal Ataturk, paura che attanaglia
non soltanto i sostenitori del partito islamico Akp ma il popolo turco in
generale. Il clima della
vigilia elettorale è stato scandito da una serie di
attentati terroristici, ultimo quello del 10 ottobre ad Ankara, nonché dai
crescenti timori per l'affermazione del movimento curdo che aspira
all'autonomia di una parte tormentata del Paese già in conflitto, ai confini
bollenti di una Siria in disgregazione da dove arrivano ogni giorno senza sosta
migliaia di profughi. Il voto della paura
ha visto Erdogan risollevarsi dalla batosta subita nella precedente tornata
elettorale di giugno, quando l’Akp aveva perso la maggioranza assoluta dopo
oltre un decennio di dominio incontrastato. La ricetta vincente prevedeva un
uomo solo al comando ed un partito solo al governo per evitare coalizioni,
esecutivi deboli ed inefficaci. La democrazia turca, forse ancora troppo
giovane per non arrendersi alle scorciatoie proposte dall'uomo forte, ha ceduto
alle sue lusinghe. Abile ad intimidire gli avversari, a spaccare il Paese su
fronti contrapposti per poi riunificarlo sotto il mantello della sua leadership,
Erdogan si è confermato raìs dai tratti sempre più mediorientali e sempre meno
europei, come dimostrano i recenti attacchi proditori alla stampa d'opposizione
ed anche le diverse invettive contro le testate giornalistiche della stampa
estera. Altra chiave importante
del successo politico di Erdogan sta nell’ascesa economica di questa Turchia.
Rappresentando meglio di chiunque altro l'affermazione della media e piccola
borghesia conservatrice musulmana dell'Anatolia, cioè di quella gran parte del
Paese che per decenni era stata estromessa dalle stanze del potere da parte dei
kemalisti, Erdogan si è assicurato una vasta fetta di consenso elettorale, che
negli anni si è confermata alla prova delle urne. Difficile per questa Turchia
popolare, trasformata dall'Akp in nuovi ceti affluenti che in questi anni hanno
vissuto il grande miracolo economico della modernizzazione, voltargli le
spalle.Erdogan rimane il simbolo di una
sorta di peronismo all'islamica, definito da più parti “Erdoganismo”, che riesce ancora a far presa sulla maggioranza dei
turchi che votano. La Turchia risulta essere una nazione costruita su alcune fondamentali
contraddizioni: il governo turco infatti include le masse ma contemporaneamente
esclude le opposizioni, si fonda su valori etici ma anche sul più cinico
pragmatismo, si batte per il consolidamento e, allo stesso tempo, per la
frammentazione della società. L’Erdoganismo è proprio il prodotto derivante da
queste contraddizioni, un modello culturale proposto ed implementato dal suo
principale protagonista. Nonostante il suo
inespugnabile palazzo presidenziale e la debolezza delle forze politiche
all’opposizione, Erdoğan appare comunque vulnerabile. La crescita economica
della Turchia, carta vincente per costruire il suo consenso, sembra oggi non
essere più sostenuta. Di recente ben tre newspapers autorevoli quali il New York Times, il Financial Times e Foreign Affairs, hanno incluso la Turchia tra le Fragile
Five, ovvero le cinque economie emergenti che nascondono profonde
debolezze strutturali, insieme a Brasile, India, Indonesia e Sud Africa. L’economia turca
infatti ha a lungo beneficiato di un’abbondante liquidità internazionale dovuta
alla politica espansiva della Federal Reserve: tale liquidità significava
abbondanti investimenti a basso tasso d’interesse, che ora, con la fine delle
politiche espansive americane, rischiano di venir meno, costringendo la Turchia
a far leva sulla propria politica monetaria per compensare tale deficit. Questi
problemi sono tipici dei mercati emergenti, dove l’afflusso di capitali
stranieri a buon prezzo permette al settore privato di indebitarsi facilmente
con valuta straniera, per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano quando
i capitali stranieri scappano via. Al di là di queste
considerazioni di carattere economico (comunque parecchio rilevanti), la
stabilità del nuovo mandato presidenziale di Erdoğan vacilla soprattutto sul
fronte strettamente politico. La
guerra al confine con la Siria, con gli americani che combattono a fianco dei
curdi contro i terroristi dello Stato
Islamico (Isis) chiedendo a gran voce il supporto di Ankara, non gioca di
certo a favore del leader turco. Erdoğan sa di giocarsi il tutto per tutto nel
voler perseguire ancora volta l'irrealistico e velleitario progetto di una
nuova centralità turca nel Levante. La
sua strategia è stata ambigua fin dall’inizio. La complicità con i jihadisti e
la resistenza ad aiutare i curdi al fronte hanno incrinato fortemente i rapporti
con gli alleati occidentali e così quello che sembrava uno spazio di manovra
per un grande ritorno della Turchia come potenza regionale sembra sgonfiarsi
inesorabilmente. Per anni la Turchia di Erdoğan si è sentita al centro di
un grande gioco, che poteva essere comodo e rischioso al tempo stesso. Da una
parte aveva la Nato, gli Stati Uniti e la mano tesa, seppur fredda, dell’Unione
Europea. Dall'altra aveva una regione in subbuglio che sembrava poter essere un
campo rigoglioso dove sperimentare le proprie aspirazioni da potenza regionale.
Fare il doppio gioco ha fatto perdere credibilità alla Turchia da entrambe le
parti. La Turchia è sì un membro della Nato ed un alleato formale di
Washington, ma possiede una propria agenda politica che non prevede affatto che
gli Stati Uniti rafforzino la loro presenza significativa in Medio oriente. Per
la sua posizione è un vero e proprio ponte tra due mondi, a metà tra Oriente ed
Occidente, ma il rischio di un ponte, è quello di rompere i collegamenti con entrambe
le sue due sponde, rimanendo pericolosamente isolato nel mezzo. Su scala
internazionale, la vittoria di Erdogan può far storcere il naso a parecchi, ma
nel concreto sia gli Stati Uniti sia l’Europa
si chiedono, anche loro timorosi non meno dei turchi: qual è l'alternativa in
un Medio Oriente disgregato e di fronte ad ondate di rifugiati ? In un Paese segnato all’interno da crescenti polarizzazioni
e contrasti ed all’esterno dall’aggravarsi della crisi siriana e da rinnovate
ambiguità nei rapporti con l’Unione europea, la conferma di Erdogan si presenta
come elemento di stabilità, ma le ripercussioni che essa potrà avere dentro e
soprattutto al di fuori dei confini turchi, sono svariate e non di facile
lettura.
Francesco Polizzotto
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