martedì 10 novembre 2015

Il trionfo di Aung San Suu Kyi: in Myanmar svolta democratica

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Il trionfo di Aung San Suu Kyi: in Myanmar svolta democratica


Un importante processo di cambiamento e democratizzazione potrebbe avere inizio da oggi in poi in Myanmar e l’esito delle ultime elezioni sembra esserne una prova evidente. Il Partito di opposizione “Lega Nazionale per la Democrazia” (Nld), guidato dalla carismatica Aung San Suu Kyi, ha infatti ottenuto una vittoria schiacciante sul “Partito dell’Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo” (Usdp), appoggiato dai militari. Alcuni timidi passi avanti erano già stati fatti tra il 2010 e il 2011 quando, in seguito allo scioglimento della giunta militare, si era insediato il governo guidato dal presidente uscente Thein Sein. Quest’ultimo, infatti, aveva liberato un discreto numero di prigionieri politici, tra i quali la stessa Aung San Suu Kyi e sembrava aver allentato, seppur leggermente, il giogo politico, permettendo così all’Nld di ottenere 43 seggi su 45 nelle elezioni del 2012 e di diventare il principale partito di opposizione in lizza alle elezioni di questo Novembre. Il risultato è stato sorprendente e sancisce la vittoria dell’Ndl con circa il 70-80% dei voti, tenuto conto che la soglia ammonta al 67% circa dei voti e che il 25% dei seggi è riservato alla giunta militare. Si ritiene pertanto che al partito spetterebbero 44 dei 45 seggi della camera bassa birmana assegnati a Rangoon e tutti e 12 i seggi della camera alta. La replica del presidente ad interim dell’Usdp Htay Oo non è tardata ad arrivare: “Abbiamo perso. -ha affermato- ma accettiamo il risultato senza alcuna riserva.”. Il popolo si è riversato nelle piazze per gioire del risultato e Aung San Suu Kyi ha più volte invitato i suoi sostenitori a mantenere un certo contegno e a non provocare i rivali sconfitti. La stessa Kyi non si è sbilanciata troppo riguardo i risultati ottenuti, limitandosi a dichiarare: “È ancora troppo presto per parlare del risultato, ma credo che ne abbiate tutti un’idea”. Questo risultato, in effetti, non è che il primo passo di un cammino tutt’altro che semplice da compiere. Prima di tutto, infatti, i problemi che dilaniano il paese sono numerosi e complessi. Le minoranze etniche, che durante le elezioni sembrano aver messo da parte le proprie differenze culturali e ideologiche in nome di uno scopo comune, potrebbero ben presto tornare a rivendicare maggiore autonomia, e questo non escluderebbe una repentina inversione di rotta rispetto all’appoggio sino ad ora garantito all’Nld; da non sottovalutare è anche la sempre maggiore insofferenza di matrice anti-islamica, che trova in partiti come il Movimento 969 e Ma Ba Tha una vasta rappresentanza, e che, unita a una profonda intransigenza religiosa da parte delle forze buddiste, ha costretto lo stesso Nld a non presentare candidati musulmani. Alla violenza e all’insofferenza razziale e religiosa si unisce la dilagante corruzione e criminalità, avallata dall’ancora potentissima élite militare e rappresentata da un capillare commercio di sostanze stupefacenti. Sul versante internazionale, infine, il paese si trova sempre più schiacciato tra India e Cina (la quota di popolazione cinese sul territorio birmano è notevolmente aumentata nel corso dell’ultimo decennio) e attira sempre di più l’attenzione dei paesi occidentali, interessati ad un suo possibile ruolo da tramite tra Est e Ovest. A tutte queste problematiche si accompagnano anche le difficoltà pratiche direttamente derivate da queste elezioni che, benché possano essere definite le prime elezioni libere dopo la dittatura, hanno presentato alcune limitazioni, tant’è che l’esercito non ha esitato a parlare di “democrazia controllata”: la polizia e i militari hanno infatti parzialmente influenzato le campagne elettorali, manipolando le liste, sabotando i comizi dei candidati dell’opposizione e impedendo a diverse minoranze etniche di votare, poiché non annoverate tra quelle di cittadinanza birmana. Le elezioni poi si collocano in un contesto politico-istituzionale particolare: bisognerà prima di tutto stabilire se un governo democratico potrà effettivamente formarsi. Il sistema elettorale sembra favorire questa possibilità. Le elezioni per la formazione dello Hluttaw (questo il nome del Parlamento del Myanmar), infatti, avvengono secondo un sistema maggioritario denominato “first-past-the-post”, ovvero un maggioritario uninominale secco per cui in ciascun collegio viene eletto chi ottiene la maggioranza dei voti e che favorisce dunque la formazione di ampie maggioranze. Resta fuori discussione che un governo democratico potrà instaurarsi solo qualora l’ Nld manterrà una maggioranza schiacciante in Parlamento, riuscendo anche a contrastare l’influenza politica dei militari che, secondo quanto stabilito dalla Costituzione, hanno diritto ad un quarto dei seggi parlamentari. Last but not least, si presenta la questione relativa all’elezione del Presidente. Sempre nella Costituzione, infatti, è espressa a chiare lettere l’impossibilità di accedere alla carica presidenziale per chiunque abbia marito o figli che siano cittadini stranieri e abbiano pertanto giurato fedeltà ad un altro paese. Questa norma sembra essere stata cucita proprio addosso ad Aung San Suu Kyi, vedova del professore inglese Michael Aris, da cui ha avuto due figli. Benchè dunque non possa allo stato attuale ottenere la carica la Lady continuerà a svolgere un ruolo di primissimo piano, giustificato dalla sua tenace e carismatica personalità. E chissà che, proprio in virtù di queste sue doti che l’hanno resa celebre in tutto il mondo come un’icona della libertà e della democrazia, non riesca ancora una volta a sovvertire l’ordine vigente e a governare infine il proprio paese, come tanti anni prima di lei fece suo padre.
Alessia Girgenti

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