Parigi in fiamme: l'11 settembre dell'Europa
Dedicato alla collega Valeria Solesin,
per non dimenticare!
LA
CRONACA. Gli spari, le urla,
la paura e le lacrime nei volti dei francesi. Parigi ripiomba nel terrore e
continua a grondare sangue. É il secondo atto di un copione andato in scena
pochi mesi fa. L’Hexagone è ancora
una volta sotto attacco e resta l’obiettivo privilegiato del terrorismo
islamico. Per la Francia,
il 2015, è l’annus horribilis. Dalla
strage di Charlie Hebdo dello scorso
gennaio agli attacchi di venerdì 13 novembre il terrorismo islamico ha
continuato a farsi strada e a mietere vittime. Una storia lunga un anno che
inizia il 7 gennaio con l’attentato, ad opera dei fratelli Kouachi e il loro
fiancheggiatore Amedy Coulibaly, alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo in cui morirono dodici
persone, mentre undici rimasero ferite. Nel mese di febbraio, un altro
allarme. Questa volta ad essere aggrediti furono tre militari di servizio
davanti a un sito della comunità ebraica di Nizza. Nelle settimane
successive è la volta dell’attentato poi sventato alla chiesa di Villejuif nella periferia di Parigi che
si è concluso con l’arresto dello
studente Sid Ahmed Ghlam in possesso di un arsenale di guerra e
pronto ad attaccare. In giugno, un uomo veniva decapitato nella periferia di
Lione da un malintenzionato di origini arabe con lo stesso modus operandi jihadista. Si scoprirà, poi, che in realtà il
movente era di natura personale. Tuttavia l’estate non ha fermato le offensive
del terrorismo islamico. Il 24 agosto su un Tgv,
un treno ad alta velocità in viaggio da Amsterdam a Parigi, il silenzio dei
passeggeri viene interrotto da colpi di kalashnikov. L’attentatore, un
marocchino simpatizzante per l’estremismo islamico, viene però bloccato da tre
soldati americani che si trovavano sul treno. La strage è sventata. Così come
sventato è l’attacco contro i militari francesi in nome della jihad da parte di
un uomo arrestato mercoledì scorso a Tolone, nel sud della Francia. Venerdì si
scatena l’inferno. Parigi è sotto assedio. Prima uno scoppio nei pressi dello Stade de France, dove era in corso
l’amichevole tra Francia e Germania. Un uomo che aveva tentato di entrare si fa
esplodere davanti alla porta dell’ingresso D. Il boato risuona all’interno
dello stadio, poi un’altra esplosione e il presidente François Hollande che
stava assistendo alla gara viene portato via dalle forze di sicurezza. Tre
kamikaze si fanno esplodere provocando tre vittime. La strage si consuma a
pochi chilometri dallo stadio, tra il X e l’XI arrondissement. A pochi passi dal bar 'Le Carillon' e dal ristorante 'Petit
Camboge' tre persone scendono da una Seat Leon di colore nero ed esplodono
una serie di raffiche sui clienti dei due locali che si trovavano ai tavolini
posti all'esterno. Muoiono 15 persone e altre 10 restano ferite gravemente.
Passano pochi minuti e davanti alla pizzeria 'La casa nostra' si consuma
un’altra tragedia. Alcuni uomini escono da un'auto Seat di colore nero,
probabilmente gli stessi dell'attacco delle 21.25, e esplodono raffiche di
fucili automatici. Il bilancio è di 5 morti e 8 feriti lievi. È, però,
all’interno del teatro Bataclan, dove
era in corso un concerto della band americana Eagles of Death Metal, che si consuma una vera e propria
carneficina. I terroristi fanno irruzione all'interno della sala, uccidono
decine di spettatori e ne prendono in ostaggio oltre un centinaio. Tre
terroristi si fanno esplodere, uno viene ucciso subito dopo l’irruzione delle
teste di cuoio francesi. Il bilancio è pesantissimo: i morti sono 89 e i feriti
in modo grave restano tantissimi. Sparatoria anche davanti al ristorante 'La belle équipe', nel XI arrondissement. Un gruppo di uomini
mitraglia i clienti seduti in terrazza. Nello stesso momento, un kamikaze si fa
esplodere davanti al ristorante 'Le
comptoir Voltaire' su Rue Voltaire.
È un attacco alla civiltà e Parigi piange i suoi morti.
I PRIMI PROVVEDIMENTI. Uno
dei primi provvedimenti adottati, nella notte stessa dei fatti terroristici, è
stata la deliberazione da parte del Governo dello stato di emergenza, misura di
ordine e sicurezza pubblica che in Francia è stato adottato solo tre volte in
passato e che non è stato adottato, ad esempio, ad inizio anno per la strage di
Charlie Hebdo. Lo stato di emergenza
è una misura eccezionale che consente al potere politico e, per esso, ai
Prefetti, di adottare misure eccezionali in materia di ordine pubblico, tra cui
provvedimenti fortemente limitativi della libertà personale, come limiti alla
circolazione ( coprifuoco), divieti di adunanza e addirittura, su disposizione
del Ministro dell’Interno, anche gli arresti domiciliari; misura tanto
eccezionale da avere una durata temporanea di 12 giorni – al pari dello stato
d’assedio – prorogabile dal Parlamento fino a sei mesi. Da notare che, inoltre,
il Presidente della Repubblica francese, secondo quanto previsto dall’art. 16
della Costituzione della V Repubblica, può disporre di poteri eccezionali di
carattere quasi “dittatoriale” che possono spingersi fino alla rottura o,
meglio ancora, alla sospensione della Costituzione stessa, consentendo al
Presidente di potere disporre della concentrazione di tutti i poteri dello
Stato ritenuti necessari, tra cui dunque anche il potere legislativo ed il
potere giudiziario.
LA POSIZIONE DELL’UNIONE EUROPEA. Il 19 Gennaio 2015, i
28 ministri UE degli affari esteri hanno condannato senza riserve le atrocità,
le uccisioni e violazioni dei diritti umani commesse da parte dello Stato
islamico e altri gruppi terroristi in Siria, come in Iraq, e da parte del
regime di Bashar al-Assad in Siria. Gli Stati membri dell'UE, durante la
riunione all’EEAS (Europeanexternalaction service), era determinata a
contribuire agli sforzi internazionali per sconfiggere questi gruppi
terroristici, determinando sanzioni. L’EEAS, nata col trattato di Lisbona e
creata nel 2010, è il servizio presieduto dall’Alto rappresentante, nonché
vice-presidente della Commissione europea, organo esecutivo composto dai
rappresentanti dei governi di ogni Stato membro. Il mese successivo, i
programmi del nuovo Alto rappresentante Federica Mogherini, hanno comportato
dei risvolti strategici inserendo la lotta al terrorismo all’interno del piano
“Counter – Terrorism: International cooperation and Initiatives in 2015”. In questo senso, il
piano dell’UE si vuole legare alle Nazioni Unite, mostrandosi come una entità
regionale sotto il comando dell’organizzazione internazionale, e non come
Unione di paesi sovrani. La risoluzione A/RES/68/303 dell’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite, segna la rotta della politica estera europea, richiamando
ogni Stato alla mediazione, alla prevenzione e risoluzione pacifica del
conflitti. In
questo senso, l’Unione si presenta agli occhi dell’ISIL come un attore
diplomatico, capace di dichiarazioni e sanzioni, che sono più un messaggio di
buona intenzione per gli Stati membri più “virtuosi” e per gli alleati della
NATO, che una minaccia per i destinatari. A questo punto, considerando la
posizione assunta durante quest’anno contro lo Stato islamico, bisogna
analizzare i due maggiori limiti autoimposti all’interno dell’articolo 42§1 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in merito alla politica di
sicurezza e di difesa comune:
La politica di sicurezza e di
difesa comune (CSDP) costituisce parte integrante della politica estera e di
sicurezza comune. Essa assicura che
l'Unione disponga di una capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari. L'Unione può avvalersi di
tali mezzi in missioni al suo esterno per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il
rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della
Carta delle Nazioni Unite. L'esecuzione di tali compiti si basa sulle capacità
fornite dagli Stati membri.
In primo luogo, bisogna notare che
questo articolo non vincola gli Stati a sviluppare in seno all’EEAS un
programma di difesa, anche perché le azioni indicate non fanno neppure
riferimento ad una politica difensiva/offensiva. Ciò è la conseguenza del fatto
che l’Unione europea è composta da Stati sovrani, aventi differenti “mezzi
civili e militari” da mettere a disposizione, ma soprattutto aventi differenti
programmi di politica estera, motivo per cui pur assemblando i primi risulta
improbabile mobilizzarli per esaudire un interesse che sia unico ai 28 paesi
dell’Unione. In secondo luogo, l’articolo, lasciando ampio margine alle
capacità dei singoli stati, il trattato esclude il concetto di comunità sul
quale l’UE dovrebbe fondarsi. Il senso di “comune” viene aggirato per tre
ragioni. Innanzi tutto, l’UE, componendosi di stati con diverse capacità, fonda
la sua azione sul contributo volontario di ogni membro. Secondo, la Danimarca
ha sempre affermato di non volersi direttamente vincolare agli accordi
derivanti dalla CSDP, e i paesi scandinavi, seppur non dichiarandolo, da anni
abbracciano questa posizione defilante. Terzo, gli Stati membri mostrano un
impegno altalenante nel partecipare alla costruzione di un piano condiviso da
tutti, preservando le forze militari per la difesa interna. Questo
spiega le difficoltà al fine costruire una politica estera comune, e ancor di
più a trasformarla in azione difensiva. L’Alto rappresentante ha il compito di
mettere insieme tutte le voci e sintetizzarle in un programma comune. Il fatto
che in svariate dichiarazioni ufficiali l’EEAS si sia schierato dietro la trincea
delle Nazioni Unite è più un messaggio di impotenza che di etica. In queste ore
Federica Mogherini, cosciente dei limiti presenti e imposti dai trattati, a
Vienna ha affermato:
E
'un altro giorno triste. […]Parigi ieri, il Libano il giorno prima, Russia ed
Egitto due settimane fa. Questo ci dice molto chiaramente che siamo insieme in
questo. Europei, arabi, Est e Ovest, tutta la comunità internazionale è
influenzata dal terrorismo.[…]La migliore risposta a questo è superare le
nostre differenze, creando la pace in Siria.
Se in dieci anni non esiste in pratica
una politica di difesa e comune, nei fatti riuscirci su scala internazionale
sembra una esortazione. In Europa per il momento “no tabout defence, not about common”.
EVOLUZIONE DEL TERRORISMO: LA NASCITA
DELLO STATO ISLAMICO. La crisi sociopolitica che a partire
dal 2001 ha coinvolto Siria ed Iraq e le strategie, giuste o sbagliate, della
coalizione internazionale, hanno creato le condizioni perfette per un ritorno
in grande stile della formazione jihadista,
una sorta di continuum tra il modello
terroristico di Al-Qaeda e quello del
nuovo Stato Islamico (ISIL). Successivamente al ritiro dei militari USA in
Iraq, il gruppo terroristico (ISIL) iniziò la sua attività di ascesa diventando
così uno dei maggiori gruppi jihadisti
al mondo in grado di progredire militarmente e di condurre battaglie militari convenzionali su due fronti, quello siriano e quello iracheno, affermandosi come un gruppo militare militante. La
guerra civile in Siria è stato il primo test importante a cui lo Stato Islamico
dovette sottoporsi, il quale inizialmente supportò i gruppi jihadisti in lotta contro Bashar al-Assad per poi successivamente
prendere parte come protagonista principale alle azioni jihadiste, cambiando il suo nome in Islamic State of Iraq and the Sham, conosciuto, per l'appunto, come
ISIL (Islamic State in Iraq and the
Levant). Oggi, analizzare il problema del terrorismo, quello
che ha colpito in Medio Oriente e che adesso colpisce il cuore dell'umanità,
significa studiare a livello politico e geografico la sua evoluzione,
differenziandolo dal terrorismo di Al-Qaeda
sia per strategia che per obiettivi. Ma andiamo con ordine. Il
"capolavoro" politico dell'ISIL è stato quello di
"eliminare" dal suo acronimo il termine "IL" e diventare,
così, Stato Islamico (IS) dando forma a quella utopia regressiva e sanguinaria
insita nel suo codice deontologico, in modo da incitare a combattere non più
per una causa messianica e qaedista,
ma creare un vero e proprio "Stato" all'interno del quale poter
governare secondo i dettami della
shari'a. A differenza di Al-Qaeda,
che ha sempre preferito una lotta al nemico globale e una forma di terrorismo
di lungo termine dove non era importante il controllo di un territorio, questa
prospettiva cambia totalmente, con l'idea di creare un Governo costituito da
una propria sede centrale in Siria, precisamente a Raqqa, dotato di veri e propri uffici e distaccamenti, e un sistema
di propaganda molto più efficace. L’IS è stato in grado di impadronirsi dei fondi della banca centrale di Mosul, applica tasse sulla popolazione che controlla, ha goduto dei beni confiscati ai cristiani e, non da ultimo, ha accesso all’acqua.
Questa nuova prospettiva politica coinvolge attori provenienti da tutto il
mondo, i cosiddetti foreign fighters
desiderosi di essere parte integrante di uno "Stato" e lottare per un
obiettivo presente. La maggioranza di loro arriva dall' Inghilterra e, appunto,
dalla Francia dove circa 1500 giovani (su un totale di 5000 combattenti
stranieri europei) provenienti dalle banlieue,
vita di strada e piccole devianze, tra cui molte donne e minori, ricercano
l'ideologia che dà forma a questa entità antagonista. La strategia visiva è
un'altra componente importante del nuovo terrorismo: gli ostaggi, vestiti di
arancione, non a caso lo stesso colore dei prigionieri di Guantanamo, vengono
uccisi secondo tecniche ben precise e utilizzando i più comuni canali mediatici. La propaganda dell’IS ha una doppia funzione: una interna, con cui si mira a soggiogare la propria popolazione ed una esterna, con cui si vuole terrorizzare i nemici. Il progresso del nuovo
terrorismo sta anche nel aver cambiando il modo di selezionare gli obiettivi;
non più simboli del potere o dell'ideologia occidentale come avveniva in
passato, dove le forti immagini delle Twin
Towers crollate sono ancora parte integranti della nostre coscienze. Lo
Stato Islamico ha lanciato un nuovo modus
operandi che si concretizza in obiettivi precisi, considerati luoghi di
eccesso, come ristoranti, teatri, musei, luoghi di vacanza e redazioni
giornalistiche, tutti collegati con l'attentato all'aereo russo della Kogalymavia in Egitto, dove esercita la
sua influenza il gruppo di Ansar Bait
al-Maqdis che un anno fa ha cambiato il suo nome in "Provincia
Islamica del Sinai". Dunque, dire "Parigi come Tripoli e Beirut"
è un indice per spiegare che il terrorismo si è chiaramente trasformato ed è
ancor più libero di agire incondizionatamente in quei territori dove si
dovrebbe prevenire la sua espansione. Una politica programmata e globale che
sorvoli i molti interessi in questione, cosi come un'intelligence coesa in
scala internazionale possono determinare alcune delle soluzioni che seriamente
contrasterebbero lo sviluppo dello Stato Islamico. O forse, al momento, è solo
utopia.
CONCLUSIONI. Al
di la degli aspetti di cronaca, pur tuttavia necessari a una corretta
rappresentazione dell’ accaduto, si rendono necessarie alcune riflessioni.
Nonostante le difficoltà argomentative (esasperate, com’è evidente, tanto da
una partecipazione emotiva – a tratti imbarazzate – quanto dalle tuonanti
conclusioni dei vari analisti politici improvvisati, dei sociologi in erba e
degli strateghi coi denti da latte), è fuor di dubbio che gli atti
terroristici, più che della volontà di Allah, siano espressione della volontà
di uomini. Sono uomini ad aver pianificato e ad essersi adoperati, e non
profeti. Tali uomini mangiano, dormono, hanno brama di donne e di potere e,
quindi, stuprano, fanno propaganda,
distruggono i monumenti, odiano la storia e il diverso e, si badi, a poco varrà
lo sdegno suscitato dalla loro appartenenza alla specie umana, perché, volenti o
nolenti, siamo costretti a constatare la realtà della loro aberrante umanità.
Ma un altro elemento connaturato all’ umanità – per parafrasare Aristotele, che
ci ha insegnato la nozione di zoon
politicon – è la sua socialità, e,
quindi, propensione alla politica: neppure i martiri della gloria di Allah
contravvengono a tale dato di fatto, essendo essi stessi ascrivibili a un
soggetto che si autodefinisce “Stato Islamico”. Cionondimeno, “politica” e
“stato” sono considerate grandi conquiste della cultura occidentale, tant’è
vero che, da Machiavelli a Kelsen, lo “Stato” viene considerato come la più
grandiosa e perfetta espressione di “ comunità politica”.
Tuttavia,
la storia può venirci in soccorso: all’ indomani della Grande Guerra, la
disfatta e la conseguente dissoluzione dell’ Impero Ottomano furono salutati
dai potentati locali di Siria, Iraq e Palestina come l’ occasione che la storia
stava loro offrendo di costituire uno stato arabo unito, libero, esteso dal
nord della Siria fino allo Yemen. Nulla di tutto ciò ebbe luogo: alla breve
apparizione del Regno Arabo di Siria seguì un protettorato britannico ( su
Palestina e Iraq) e un mandato francese su Siria e Libano. La République si era resa protagonista di
un atto di imperio verso l’esterno insieme all’alleato britannico, come
testimoniano gli accordi segreti di Sykes-Picot (conclusi invero tra il 1915 e
il 1916, ben prima della fine delle ostilità in Europa). Tali accordi non sono
nulla di più di una spartizione dell’area. La Francia lascerà definitivamente
la Siria nel 1946. Seppur smorzata dalla forma di “protettorato” o “mandato
della Società delle Nazioni” la “ promessa non mantenuta” è all’ origine della
grave instabilità dell’ area, aggravata dal pesante risentimento suscitato
dalla formazione dello Stato di Israele, nel 1948, presso quei potentati
locali, arabi, per lo più di fede islamica.
Bisogna
partire da qui, per capire gli errori dell’Occidente nell’area mediorientale;
per capire che lo Stato Islamico, gli attacchi terroristici contro il “nemico
lontano” non sono frutto di una contrapposizione ideologico-religiosa tra Islam
radicale e Occidente, quanto più la conseguenza, o meglio ancora, l’effetto
aberrante di una politica internazionale occidentale prevaricatrice,
contraddittoria ed ambigua.
Hanno
collaborato:
Rosario
Fiore, Cultore di Diritto Pubblico Comparato all’Unipa.
Gabriele
Messina, Presidente Istituto Mediterraneo Studi Internazionali
Massimo
Parisi, Davide Daidone, Maria E. Argano, ricercatori dell’Istituto Mediterraneo
Studi Internazionali.