#Pensatodavoi
Tunisia: una democrazia minacciata
Danilo Lo Coco
Le tragiche stragi avvenute in
Tunisia in questi ultimi mesi, costituiscono una grave minaccia alla stabilità
dell’area nordafricana, già gravemente compromessa dalla situazione di completa
anarchia della Libia, dell’autoritarismo egiziano e dall’estremismo dormiente
in Algeria. La Tunisia, anche se non riveste una particolare rilevanza
strategica se non per i gasdotti che l’attraversano, è stretta da due giganti
energetici, Algeria e Libia, i cui destini potrebbero influire sulle dinamiche
interne tunisine. L’Algeria è oggi un paese quasi anestetizzato dal punto di
vista politico, dato il fatto che le nuove èlite al potere non riescono a dare
una spinta significativa verso il progresso, e i gruppi jihadisti sono tuttora in
crescita con alcune brigate di Aqmi (Al Qaeda nel Mahreb) da cui, sembra,
provengano in origine gli attentatori del Bardo (Aqmi è a sua volta in
collegamento con la tunisina Ansar al sari’a). La Libia, a sua volta è un mix
di violenza e assenza di istituzioni che produce alla frontiera tunisina
un’area grigia fatta di profughi, economia sommersa, traffici di uomini e
merci, contrabbando. In Libia, tra l’altro si trovano diversi punti di raccolta
e addestramento dei jihadisti. Ed è proprio in Libia che Seiffedine Rezgui,
l’attentatore della spiaggia di Susa, che lo scorso 26 Giugno ha ucciso 38
turisti a colpi di kalashnikov, sarebbe stato addestrato assieme ai due
attentatori responsabili, poi, dell’attacco al Museo del Bardo di Tunisi del 18
Marzo scorso nel quale sono morte 22 persone. La Tunisia, come la Giordania
qualche mese fa, è un chiaro obiettivo di destabilizzazione da parte dello
Stato islamico e di Al Qaeda nel Maghreb, i quali sfruttano la precaria
situazione politica ed economica interna per creare divisioni tra la
popolazione: tra chi vuole la democrazia e chi vuole vivere secondo i dettami
della dottrina salafita. La Tunisia, al momento, costituisce l’unico esempio di
processo democratico in atto in tutto il mondo arabo. In Tunisia si è votato
diverse volte ed il processo che ha determinato la situazione attuale non è
stato indolore e porta con sé questioni insolute e contraddizioni, tuttavia ha
seguito il percorso di massima predisposto nei mesi seguenti all’uscita di Ben
Ali dagli organi che via via sono stati creati: elezioni per l’Assemblea
costituente (ottobre 2011), legislazione speciale provvisoria per promulgare la
costituzione (10 dicembre 2011), elezione di un presidente della Repubblica (12
dicembre 2011, Moncef Marzouki), formazione di un governo di transizione (14
dicembre 2011) con Hamadi al-Gibali come primo ministro, appartenente al
partito islamista Ennahda ,elezioni
legislative (26 ottobre 2014) vinte dal partito Nida’Tunus (Appello della Tunisia), promulgazione della nuova costituzione
(7 febbraio 2014 ), elezione a suffragio universale del nuovo presidente della
Repubblica (23 novembre e 21 dicembre 2014, vinte da Essebsi. La Tunisia di oggi, ha visto
quindi un’alternanza democratica fra i due principali partiti del paese: Ennahda e Nida Tunus. Il primo, inizialmente aveva contatti con gli imam
radicali, ma quando questi hanno cominciato a predicare l’uso delle armi, Ennahda si è opposto categoricamente ad
ogni forma di violenza in nome dell’islam politico. Il fatto che ha spinto Ennahda a questa presa di posizione è
stato l’assassinio dell’allora leader di sinistra dell’opposizione: Chokri
Belaid del partito unificato dei patrioti democratici (6 febbraio 2013) e capofila
del nascente Fronte popolare (fondato il 7 ottobre 2012). La natura prettamente
politica dell’atto, ancora in fase d’indagini ma con forti sospetti nei
confronti dei gruppi estremisti salafiti, ha provocato molte proteste fra
cittadini tunisini. Ennahda avrebbe
quindi “chiuso” le sue relazioni con i gruppi estremisti. Ne è stata la prova
il divieto da parte del governo Ennahda
del raduno di Ansar al Sharia a
Kairouan, nel 2012, dichiarando fuori legge l’organizzazione. Tuttavia il
partito islamista ha deluso fortemente le aspettative, non facendo decollare
economicamente il paese, concentrandosi sull’occupazione dei posti di comando,
accompagnando la sua inazione a politiche di repressione. Il nuovo partito al comando, Nida’Tunus, accusata da più parti di
aver riassorbito parte del personale della vecchia dittatura, rappresenta
invece un’alternativa laica e democratica di cui il paese avrebbe adesso
bisogno, includendo gli altri partiti ad un’unità nazionale. Tuttavia al giorno
d’oggi, il partito sembra aver perso la sua iniziale capacità di proporsi come
forza di cambiamento. Il problema fondamentale della
Tunisia oggi, è il rilancio economico. Nell’ultimo periodo della dittatura di
Ben Ali, e successivamente con il governo Ennahda,
vi erano delle importanti proposte ad aprirsi alla finanza islamica, che avrebbe
attratto i principali investitori del Golfo. Ad oggi, la proposta parrebbe
accantonata, lasciando il posto ad un’apertura alle convenzioni occidentali,
puntando su istituti bancari e finanziari globali: il Fondo monetario
internazionale e la Banca mondiale. La Tunisia intende attrarre investimenti
esteri ed integrarsi con i mercati internazionali, offrendo agli investitori
stranieri una manodopera qualificata a costi salariali irrisori. Questa
strategia è fortemente minacciata dal terrorismo, se pensiamo che ad ogni
attentato la Tunisia riceve un terribile colpo d’arresto, soprattutto adesso
nel settore turistico. Inoltre in Tunisia, non esiste
un tessuto produttivo locale, il modello è rimasto immutato e le politiche sono
assenti. Mancando lo sviluppo autoctono guidato da investimenti pubblici e
alimentato dalla domanda interna, questo modello fa aumentare il divario tra
ricchi e poveri, col rischio che l’economia informale e il contrabbando si
espandano, riducendo il gettito fiscale, e facendo prosperare le cellule
jihadiste. Le periferie sia delle città, che delle regioni limitrofe, sono
spesso ignorate dallo Stato, dove i giovani non vedono prospettive e rispondono
agli annunci delle cellule jihadiste e dello Stato islamico, il quale promette
alti stipendi ai combattenti. Il contingente tunisino in Siria e in Iraq è
infatti il più numeroso, si parla di almeno 3 mila persone. La principale
minaccia jihadista in Tunisia, infatti non è tanto la presenza interna delle
cellule jihadiste fortemente ridimensionate dall’esercito e dalla polizia, ma
il ritorno dei foreign fighters, agendo
spesso da lupi solitari e quindi difficilmente disinnescabili. Nonostante ciò, la maggioranza
del popolo tunisino, si oppone ad ogni forma di violenza, non essendo presente
peraltro alcuna divisione settaria al proprio interno. Questo fattore deve
farci riflettere al fatto che noi, Occidente, dovremmo far di tutto affinché la
Tunisia non si divida, come è già avvenuto in Libia. È necessario un serio
intervento di cooperazione da parte dell’Italia supportata dall’Europa, affinché
l’economia tunisina possa decollare e soprattutto possa essere un’economia
inclusiva. È importante supportare una politica economica interna volta allo
sviluppo endogeno e all’inclusione sociale e al recupero delle regioni
limitrofe, oggi fortemente depresse. È necessario unire gli sforzi, affinché in
Libia si raggiunga un accordo di unità nazionale per scongiurare il pericolo
jihadista presente proprio a sud delle nostre coste, e che è pronto ad
allargarsi a macchia d’olio in tutto il Maghreb. La Tunisia è inoltre
fondamentale per l’Europa nella cooperazione per combattere il traffico di
esseri umani, argomento che oggi divide l’opinione pubblica europea. Il
Mediterraneo è un’area in crisi, priva di sistemi di raccordo economico,
politico e sociale e fonte di ansie per le democrazie europee. La Tunisia è
quindi intrappolata nelle partite che si giocano ai suoi confini, mentre a nord
resta sigillata, anziché collegata da un mare che è anche il nostro. Sta a noi,
quindi, considerare seriamente di supportare e cooperare con l’unico stato
democratico del Maghreb.
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