#Pensatodavoi
Ruanda: l'esilio dei poveri e il Lager di Gikondo
A poco più di vent’anni dal
genocidio, il Ruanda continua a far parlare di sé. La “Svizzera d’Africa”, come
ama definirlo qualcuno, il paese che fa dell’ordine e della modernità i
pilastri della propria politica, sembra nascondere in realtà un volto molto più
inquietante di quanto si possa pensare. Fin dalla sua ascesa al potere, infatti, il
Presidente della Repubblica Paul Kagame, ha promesso progresso e prosperità a
un paese martoriato dalla guerra civile e dagli spargimenti di sangue; il
progresso tuttavia ha un costo, direttamente proporzionale al beneficio che si
cerca di ottenere e che, nel bene o nel male, va pagato. A pagarlo non è stato
però Kagame, né la classe dirigente del paese, bensì la fascia più povera e
misera della popolazione.
Brulat diceva che nulla costa tanto come essere
poveri, eppure al danno si è aggiunta la beffa e, oltre che poveri, in poco
tempo i ruandesi si sono ritrovati emarginati, se non addirittura reclusi. Secondo le stime recentemente rese
note da Human Rights Watch nel rapporto “Why not call this place a
prison? Unlawful detention and ill treatment in Rwanda’s Gikondo Transit
center”, nel centro di Kwa Kabuga, a Gikondo, dal 2011 al 2015 sono state
detenute illegalmente più di mille persone, che il governo di Kigali ama
definire gli “indesiderabili”. Queste cifre riguardano però soltanto il secondo
periodo di attività del centro, che risulta aver ospitato centinaia di prostitute,
senzatetto, orfani, disoccupati e chissà quanta altra gente disperata già dal
2005.
Mentre le autorità hanno fatto tutto il possibile per presentare il
centro di detenzione come un luogo sicuro, in cui la permanenza è di carattere
temporaneo (centro di transito e sistemazione di breve periodo, lo definisce il
Ministro della Giustizia Johnstone Busingye) e i cui scopi sono puramente
rieducativi e riabilitativi, in realtà la viva voce degli intervistati rivela
tutta un’altra verità. I cittadini, che possono rimanere nel centro anche per
diversi mesi, denunciano violenze e maltrattamenti, oltre che condizioni
igienico-sanitarie riprovevoli; non vengono neppure messi al corrente delle
accuse loro rivolte o dei motivi che hanno causato la detenzione.
Lo scopo
delle autorità sembra essere quello di “ripulire” il volto di Kigali, di
eliminare qualunque elemento visto come una minaccia a un ordine apparente.
Come afferma lo stesso direttore della sezione Africa di Human Rights Watch
“Kigali viene spesso decantata per la sua pulizia e il suo ordine, ma la sua
popolazione più povera sta pagando il prezzo di questa immagine positiva. Il
contrasto tra le strade immacolate del centro di Kigali e le pessime condizioni
di Gikondo non potrebbe essere più marcato”.
Ecco dunque il prezzo, ed ecco
i benefici. Non resta che capire fino a che punto Kagame sia pronto a spingersi
pur di reggere in piedi il suo sempre più fatiscente castello di carte. Quel
che è certo è che scelte politiche azzardate e forzate hanno già dato vita in
Ruanda a una delle pagine più tristi della storia del mondo moderno e le
conseguenze di quei gravi avvenimenti continuano a far sentire ancora oggi il
proprio peso, soprattutto attraverso la voce di una vasta sacca di popolazione
insoddisfatta e in miseria. Può dunque un paese riprendersi da ferite tanto
profonde semplicemente rimuovendo con un’operazione di defezione quasi
chirurgica il “problema”? Confinare la miseria dentro quattro mura la renderà
meno reale? La risposta sembrerebbe scontata; eppure, finché il centro di
detenzione di Gikondo resterà in piedi, sarà la prova dell’ennesima visione
distorta della politica di un paese in crisi latente.
Alessia Girgenti
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