venerdì 16 ottobre 2015

Ruanda: l'esilio dei poveri e il Lager di Gikondo

#Pensatodavoi

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 Ruanda: l'esilio dei poveri e il Lager di Gikondo 



A poco più di vent’anni dal genocidio, il Ruanda continua a far parlare di sé. La “Svizzera d’Africa”, come ama definirlo qualcuno, il paese che fa dell’ordine e della modernità i pilastri della propria politica, sembra nascondere in realtà un volto molto più inquietante di quanto si possa pensare. Fin dalla sua ascesa al potere, infatti, il Presidente della Repubblica Paul Kagame, ha promesso progresso e prosperità a un paese martoriato dalla guerra civile e dagli spargimenti di sangue; il progresso tuttavia ha un costo, direttamente proporzionale al beneficio che si cerca di ottenere e che, nel bene o nel male, va pagato. A pagarlo non è stato però Kagame, né la classe dirigente del paese, bensì la fascia più povera e misera della popolazione. 

Brulat diceva che nulla costa tanto come essere poveri, eppure al danno si è aggiunta la beffa e, oltre che poveri, in poco tempo i ruandesi si sono ritrovati emarginati, se non addirittura reclusi. Secondo le stime recentemente rese note da  Human Rights Watch  nel rapporto “Why not call this place a prison? Unlawful detention and ill treatment in Rwanda’s Gikondo Transit center”, nel centro di Kwa Kabuga, a Gikondo, dal 2011 al 2015 sono state detenute illegalmente più di mille persone, che il governo di Kigali ama definire gli “indesiderabili”. Queste cifre riguardano però soltanto il secondo periodo di attività del centro, che risulta aver ospitato centinaia di prostitute, senzatetto, orfani, disoccupati e chissà quanta altra gente disperata già dal 2005. 

Mentre le autorità hanno fatto tutto il possibile per presentare il centro di detenzione come un luogo sicuro, in cui la permanenza è di carattere temporaneo (centro di transito e sistemazione di breve periodo, lo definisce il Ministro della Giustizia Johnstone Busingye) e i cui scopi sono puramente rieducativi e riabilitativi, in realtà la viva voce degli intervistati rivela tutta un’altra verità. I cittadini, che possono rimanere nel centro anche per diversi mesi, denunciano violenze e maltrattamenti, oltre che condizioni igienico-sanitarie riprovevoli; non vengono neppure messi al corrente delle accuse loro rivolte o dei motivi che hanno causato la detenzione.

Lo scopo delle autorità sembra essere quello di “ripulire” il volto di Kigali, di eliminare qualunque elemento visto come una minaccia a un ordine apparente. Come afferma lo stesso direttore della sezione Africa di Human Rights Watch “Kigali viene spesso decantata per la sua pulizia e il suo ordine, ma la sua popolazione più povera sta pagando il prezzo di questa immagine positiva. Il contrasto tra le strade immacolate del centro di Kigali e le pessime condizioni di Gikondo non potrebbe essere più marcato”.

Ecco dunque il prezzo, ed ecco i benefici. Non resta che capire fino a che punto Kagame sia pronto a spingersi pur di reggere in piedi il suo sempre più fatiscente castello di carte. Quel che è certo è che scelte politiche azzardate e forzate hanno già dato vita in Ruanda a una delle pagine più tristi della storia del mondo moderno e le conseguenze di quei gravi avvenimenti continuano a far sentire ancora oggi il proprio peso, soprattutto attraverso la voce di una vasta sacca di popolazione insoddisfatta e in miseria. Può dunque un paese riprendersi da ferite tanto profonde semplicemente rimuovendo con un’operazione di defezione quasi chirurgica il “problema”? Confinare la miseria dentro quattro mura la renderà meno reale? La risposta sembrerebbe scontata; eppure, finché il centro di detenzione di Gikondo resterà in piedi, sarà la prova dell’ennesima visione distorta della politica di un paese in crisi latente.


Alessia Girgenti

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