#Pensatodavoi
Risvolti geopolitici di un conflitto internazionale: Dentro la questione siriana
Il conflitto siriano va contestualizzato all’interno della
‘guerra fredda’ per l’egemonia nel Golfo Persico (di fondamentale importanza
geopolitica e geoenergetica) che vede opposte due potenze regionali con i loro
alleati: Arabia Saudita e Iran. Tale conflitto pochi mesi dopo lo scoppio della
rivolta ha subito un processo di internazionalizzazione: vi sono coinvolte le
principali potenze regionali e mondiali e in Siria si sono riversati migliaia
di miliziani jihadisti provenienti da decine di paesi diversi (attualmente
l’autoproclamato califfato controlla una parte consistente del paese).
L’incipit di un editoriale di “Limes” del 2013 fa proprio riferimento al fatto
che in Siria «si combatte la prima guerra mondiale locale»[i]
con il rischio che si possa trasformare in una «guerra mondiale mediorientale».
Per tale ragione è impossibile analizzare il conflitto siriano e i risvolti
geopolitici dell’ultimo periodo senza contestualizzarli all’interno delle
complesse dinamiche mediorientali.
L’Arabia Saudita, interessata ad estendere la propria
influenza politica e religiosa nella regione, punta a frantumare l’asse che
unisce Iran, Siria, Hezbollah nel sud del Libano e il governo sciita irakeno;
per tale ragione, congiuntamente con le altre monarchie del Golfo, ha sostenuto
attivamente gruppi jihadisti per rovesciare il regime di Assad. La Turchia,
vaneggiando ambizioni neo-ottomane, ha favorito indiscriminatamente l’ingresso
di combattenti stranieri attraverso il confine turco-siriano. Le potenze
occidentali – USA e Francia in testa –
hanno supportato i loro alleati regionali (è infatti noto, come ha
puntualizzato lo stesso Kissinger, il legame spesso sottinteso che unisce Washington,
Arabia Saudita e Israele[ii]),
favorendo la destabilizzazione e la disintegrazione della Siria.
L’Arabia Saudita ha unito la storica alleanza con gli USA
(basata sullo scambio petrolio/sicurezza) alla volontà di imporsi come leader
del mondo islamico facendosi ‘garante’ manu
miltari dello status quo nella
regione, impegnandosi a frenare possibili contagi della cosiddetta “primavera
araba” nella Penisola Arabica[iii].
In Bahrein (paese a maggioranza sciita) nel 2011 ha silenziato la nascitura
‘primavera’ mandando propri carri armati, timorosa di rivolgimenti politici ai
propri confini; ha sostenuto nel 2013 il golpe in Egitto e ha recentemente
assunto il ruolo guida della coalizione sunnita contro i ribelli Houthi (vicini
all’Iran) in Yemen. Mentre in Siria e in Yemen ha agito in accordo con il Qatar
(senza nascondere una certa rivalità[iv]),
in Egitto e Libia le strade delle due petromonarchie si sono separate.
La formazione del cosiddetto califfato dell’IS è quindi
diretta conseguenza del caos prodotto dalla guerra in Iraq (che ha incrementato
lo scontro tra sunniti e sciiti) e del supporto più o meno diretto alla
variegata galassia internazionale dei “ribelli”, finalizzato al rovesciamento
del governo siriano (che ha visto unite in modalità differenti petromonarchie e
potenze occidentali). Adesso l’IS, sfuggito di mano ai propri sponsor del
Golfo, va sempre più configurandosi come un attore regionale potenzialmente
destabilizzante a cui diversi gruppi si affiliano.
Gli Stati Uniti hanno preferito de facto una situazione di stallo senza vincitori né vinti nel
conflitto che vede l’epicentro nel “Syraq”, piuttosto che favorire una vittoria
schiacciante di una delle parti (più di due) in lotta. Una vittoria di Assad
sarebbe innanzitutto una vittoria di Iran ed Hezbollah, acerrimi nemici dei
principali alleati americani in Medio Oriente: sauditi e israeliani, già
imbronciati per l’accordo sul nucleare iraniano. I molto blandi bombardamenti
della coalizione a guida statunitense hanno infatti avuto al massimo il risultato
di contenere l’IS, nulla di più.
Un filo rosso lega la crisi mediorientale a quella ucraina:
il ritorno della Russia nello scenario internazionale avvenuto con la fermezza
diplomatica mostrata da Putin nel conflitto siriano. Gli equilibri globali stanno
mutando notevolmente: la straordinaria crescita della potenza cinese, la
rinascita di una Russia rialzatasi dall’umiliazione subita negli anni di Eltsin
(la storica francese Hélène Carrère d'Encausse ha parlato a tale proposito di
«ritorno della potenza»[v])
e in generale l’ascesa dei Brics stanno configurando un assetto globale
multipolare in cui l’egemonia statunitense è in fase declinante. In Medio
Oriente la Russia si sta caratterizzando sempre più come un attore esterno di
primo piano, capace di intessere relazioni diplomatiche costruttive con diversi
Stati della regione e di incunearsi con un pragmatico realismo dove gli Stati
Uniti perdono egemonia. L’Iran ha
mostrato pieno supporto ai raid “anti-Isis” della Russia e il governo irakeno, evidentemente deluso
dall’inconcludente coalizione a guida americana, si è mostrato anch’esso
favorevole all’azione russa. Lo stesso Egitto di al-Sisi si sta destreggiando
tra l’alleanza con l’Arabia Saudita e il riavvicinamento con Mosca; il ministro
degli esteri egiziano ha infatti espresso il proprio supporto all’operazione
militare del Cremlino. D’altra parte l’Egitto di al-Sisi vede nella fratellanza
musulmana il principale nemico interno e questa politica si rispecchia anche
negli scenari libico (dove ha forti interessi egemonici) e siriano.
L’attivismo diplomatico e il recente intervento militare
della Russia nella questione siriana non si spiegano soltanto con la volontà di
mantenere i residui dell’influenza sovietica nell’area mediterranea e
mediorientale ma anche (soprattutto) con motivazioni strettamente legate
all’unità della Federazione. La Russia teme un Medio Oriente caotico in cui
organizzazioni jihadiste impazzano in territori ormai privi di statualità alle
porte del Caucaso (in Siria affluiscono molti miliziani ceceni e il jihadismo
di ritorno è un grave pericolo anche per la Russia).
Il Medio Oriente è un’area in deflagrazione in cui mire
geopolitiche si uniscono a contrapposizioni politiche, settarie, tribali e
territoriali. Le questioni geopolitiche e geoenergetiche prevalgono sul pur
influente discorso settario (si pensi all’importanza strategica degli stretti
di Hormuz e di Bab el-Mandeb). «Il conflitto attualmente in corso è tanto
religioso quanto geopolitico» scrive Kissinger che ovviamente auspica un nuovo
ordine regionale a guida americana[vi].
Quale sarà il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente nel
futuro? Gli USA hanno adottato un atteggiamento altalenante e contraddittorio
nel corso delle cosiddette “primavere arabe” messo bene in luce da Roberto
Iannuzzi in “Geopolitica del collasso”. Iannuzzi puntualizza correttamente come
il Medio Oriente continuerà ad essere la fonte petrolifera principale del
pianeta, affermando che l’atteggiamento contradditorio di Washington è «il
risultato di un declino dell’influenza americana e della sua minore capacità di
plasmare gli eventi» e che tale declino è una conseguenza sia «della crisi
economica in cui versa l’America, sia dell’esito disastroso delle guerre dell’era
Bush in Iraq e Afghanistan»[vii].
Dopo la conclusione della parentesi eltsiniana e di ciò che
essa rappresentava sia in politica interna che in politica estera, una Russia
nuovamente attiva nello scenario mediorientale ha colmato i vuoti lasciati dalla
superpotenza statunitense. Dai recenti eventi siriani emerge una conferma del
riavvicinamento tra Russia ed Egitto, un rinsaldamento dell’intesa (non priva
di competizione per l’influenza nella regione) russo-iraniana e un
allontanamento con la Turchia, che certamente non vede di buon occhio l’agenda
mediorientale di Mosca. Al solido asse Mosca-Damasco-Teheran si aggiungono
quindi inaspettate nuove buone relazioni con Egitto e Iraq. E’ bene
sottolineare che Russia e Iran non hanno mai escluso una transizione politica
(che escluda i gruppi terroristici) in Siria con il consenso di Assad. Il punto
fondamentale, come fa notare Alberto Negri, è il mantenimento delle strutture
militari e di intelligence[viii],
necessarie a garantire stabilità al paese che altrimenti rischierebbe di
scivolare in una riedizione dello scenario libico. Anche la Cina (in modo
maggiormente defilato) sostiene la Russia, con cui ha rafforzato una
partnership non troppo stabile ma certamente inedita e in via di
consolidamento. Immutate restano le velleitarie ma ugualmente distruttive
ambizioni neocoloniali dei franco-britannici, evidentemente non sazi del
disastro libico ad essi largamente imputabile.
Il mutamento degli equilibri in Medio Oriente e le
implicazioni che ne derivano a livello globale rappresentano i primi
‘smottamenti’ post-unipolari di un mondo in via di cambiamento.
Benvenuti nel ventunesimo secolo.
Benvenuti nel ventunesimo secolo.
Federico La Mattina
Note
[i]
Vedi La perla di Lawrence, in «Limes,
rivista italiana di geopolitica», 2/2013.
[ii]
H. Kissinger, Ordine Mondiale,
Milano, Mondadori, 2015, p. 134.
[iii]
Per una sintetica storia del regno saudita si veda F. Petroni, Alla radice delle ossessioni arabo-saudite,
in «Limes, rivista italiana di geopolitica», 9/2014.
[iv]
Cfr. R. Soubrouillard, Il Qatar rientra
nei ranghi, in «Limes, rivista italiana di geopolitica», 9/2013.
[v]
H. Carrère d’Encausse, La Russia tra due
mondi, Roma, Salerno editrice, 2011, p. 10.
[vi]
H. Kissinger, Ordine Mondiale , op.
cit. p. 145.
[vii]
R. Iannuzzi, Geopolitica del collasso.
Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale, Roma,
Castelvecchi, 2014, p. 264.
[viii]
A. Negri, L’Iran potrebbe liquidare
Assad, ma non gli alauiti, «Istituto per gli studi di politica
internazionale», 06/10/2015.
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