LA PAROLA ALL’ESPERTO
La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale
Il Mediterraneo e la questione dell’altro
geopolitica di un’idea
a cura di Luciano Sesta
1. Oltre il ‘mediterraneismo’
In
un saggio significativamente intitolato Practical mediterraneanism. Excuses
for everything, from epistemology to eating[1], l’antropologo
Michael Herzfeld ha denunciato una vera e propria moda “mediterraneista”, in
cui il concetto di “mediterraneo” diventa un contenitore neutro da riempire, di
volta in volta, sulla base di tendenze, aspettative, ideologie e filosofie del
momento. Già alla fine degli anni Trenta dello scorso secolo, un altro
studioso, l’intellettuale egiziano T. Ḥusayn, in polemica con la politica
panaraba di Nasser, aveva rivendicato un’identità egiziana specificamente
“mediterranea”, in alternativa a quella araba[2]. In tempi a noi
più vicini, la dieta “mediterranea” è diventata un passepartout
nell’ambito della salute alimentare, oltre a funzionare anche come richiamo
“politicamente corretto” all’idea di dialogo interculturale, vista la
contaminazione di cibi di provenienza geografica diversa di cui tale dieta è
composta. Si comprende perché Herzfeld si interroghi, da antropologo, su questo
“bisogno” di trasformare uno spazio geografico ricco di storia in uno specchio
che rifletta, dotandole di un “autorevole” riscontro, le cose di cui ci
occupiamo e preoccupiamo.
Prima ancora della domanda di Herzfeld,
che può avere molteplici risposte, rimane tuttavia da spiegare perché, per
soddisfare questo bisogno, guardiamo proprio al Mediterraneo. Cosa c’è
insomma in quest’area geografica da indurci, quasi irresistibilmente, a farne
una chiave simbolica di comprensione dei più svariati fenomeni? Perché, con la
sua dieta e con il suo clima, con la sua storia e con la sua cultura, il
Mediterraneo intriga? Il fatto stesso
che una simile domanda si ponga è sufficiente a uscire dalle mode
“mediterraneiste” per interrogarsi nuovamente su ciò che le alimenta, e cioè
appunto il perenne fascino suscitato da quel mare, “isolato” dagli oceani e
dagli altri mari, a cui gli antichi diedero il nome di Mare Nostrum, quasi a volerlo gelosamente trattenere dalla sua
tendenza a diventare crocevia di tutti
i popoli, e non solo di quelli che si affacciano sulle sue sponde.
2. Il mare e la scoperta
dell’altro
Nelle sue Lezioni di filosofia della storia,
proponendo un’interpretazione destinata a essere ripresa in tempi recenti, il
filosofo romantico Hegel ha scritto: “Per i tre continenti il Mar Mediterraneo
è fattore di unificazione e il centro della storia mondiale. Qui c’è la Grecia,
il punto luminoso nella storia. In Siria, Gerusalemme è poi il centro del
giudaismo e del cristianesimo, a sud ovest sorgono La Mecca e Medina, sede
originaria della fede musulmana. Verso occidente si trovano Delfi, Atene,
ancora più a ovest Roma; inoltre giacciono sul Mediterraneo Alessandria e
Cartagine. Il Mar Mediterraneo è, perciò, il cuore del Vecchio Mondo, è la sua
condizione necessaria e la sua vita. Senza di esso sarebbe impossibile
rappresentarsi la storia, sarebbe come immaginare l’antica Roma o Atene senza
il foro, dove tutti si radunavano”[3].
Il Mediterraneo
come “foro” della civiltà europea: con questa suggestiva metafora siamo ancora
oggi chiamati a confrontarci, in un’epoca di rapidi mutamenti culturali e di
instabilità politica, che vede affacciarsi lo spettro di un’ennesima guerra di
civiltà proprio in quella Siria che Hegel rievoca come luogo sorgivo di due
religioni mondiali quali l’ebraismo e il cristianesimo. Come punto di
convergenza di fattori geopolitici, etici, storico-culturali e religiosi, il
Mediterraneo assume dunque anche oggi l’aspetto di un link universale, la cui identità specifica consiste nel non averne
alcuna. E in effetti lo stesso Hegel – anche qui anticipando riflessioni
contemporanee come quelle di F. Braudel, J. Derrida e M. Crépon – colloca
l’identità europea non già in uno spazio geograficamente e culturalmente
delimitato, ma in un medium, e cioè
in una dimensione che, proprio come il “mare”, scava distanze e, al tempo
stesso, permette di colmarle, almeno a chi è disposto a sfidare la precarietà
delle acque. In
effetti la trasformazione dell’aggettivo mediterraneus (“in mezzo alle
terre”) in sostantivo – testimoniata sin da Isidoro di Siviglia (560-636 d.C.)
– rende ancora più accentuato il paradosso di dare “realtà” a quello che è un
semplice “stare tra”[4]. Ancora Hegel espone con efficacia il senso in cui il tramite rappresentato
dal mare implica una vocazione all’universalità che in Europa non ha escluso,
ma anzi ha richiesto, il rapporto con l’altro:
“In
Asia il mare non ha importanza: anzi, i popoli hanno chiuso le porte al mare
[...]. In Europa, invece, quel che conta è proprio il rapporto col mare: questa
è una differenza costante. Lo Stato europeo può essere veramente Stato europeo
solo quando è sul mare. Nella vita sul mare è implicita quella specialissima
tendenza all’esterno, che manca alla vita asiatica: il procedere della vita
oltre se medesima”[5].
Benché contenga chiari elementi di
eurocentrismo, la pagina hegeliana offre anche gli strumenti che consentono di
interpretarlo non già come chiusura etnocentrica, ma come apertura relazionale
all’alterità. La vocazione europea all’universalità, infatti, è qui
interpretata non come una dilatazione “coloniale” della propria identità, ma
come un suo “superamento” in direzione dell’altro. Il mare, in quest’ottica, si presenta come la cifra paradigmatica di ogni
autentico legame fra uomini, civiltà e religioni, in cui il rapporto con
l’altro si realizza solo al prezzo di un rischio, e cioè solo a condizione di
imboccare un percorso la cui meta non è mai garantita e in cui risultano sospesi, almeno provvisoriamente, i
confini rassicuranti della propria stessa identità. Da sempre, infatti,
navigare significa abbandonare ciò che è fermo e protetto per avventurarsi in
ciò che è in perenne e precario movimento. Sporgendo sul mare, la terra è
dunque costretta a stabilire un rapporto con l’alterità. Lo stesso storico
desiderio di conquista dell’Occidente non è che una conferma di questo inevitabile
rapporto con l’altro, che mentre alimenta lo spirito “colonizzatore” europeo,
lo espone anche a un’incessante smentita delle proprie pretese di
autosufficienza. Serge Latouche ha
addirittura parlato di una “raison méditerranéenne”[6], alludendo al Mediterraneo come all’equivalente
geografico e culturale di un’attitudine “critica” della ragione europea: come questa non
riposa mai sulle proprie acquisizioni perché le rimette costantemente in
questione, così il mare-frontiera su cui si affacciano i popoli del
mediterraneo impedisce ogni chiusura etnocentrica.
L’insieme dei problemi che noi oggi
discutiamo sotto il nesso religioni-diritti umani-guerra-pace, fa la sua
esplicita comparsa proprio nel cuore del Mediterraneo all’epoca del
colonialismo del Cinquecento. È erroneo, in tal senso, dire che in quella
circostanza il Mediterraneo perse la sua centralità in favore dell’Atlantico. È
vero il contrario: solo l’impulso alla “scoperta dell’altro” (T. Todorov)
coltivato dalla mentalità mediterranea spinse Colombo a solcare l’Atlantico, la
cui nuova centralità, dunque, è figlia di quella stessa “raison
méditerranéenne” che sarebbe poi uscita ridimensionata dalle nuove scoperte.
Uno sguardo alla storia, in effetti,
mostra che la cultura occidentale, frutto di un peculiare “meticciato”
greco-romano, arabo-musulmano ed ebraico-cristiano, ha dimostrato un dinamismo sorprendente, che ne ha fatto
una terra di “rivoluzioni” incessanti, che impediscono di pensarne
l’“universalità” come semplice “espansionismo”, e dunque come affermazione di una
cultura particolare a spese delle altre. Il dinamismo della cultura europea si
lascia leggere piuttosto come desiderio di uscire da sé verso l’altro, di
imparare da lui e, certamente, anche di influenzarlo. Portando già dentro di sé
l’alterità e la pluralità, la cultura europea è cioè strutturalmente dialogica
e, dunque, in grado non soltanto di aprirsi, ma anche di sollecitare l’apertura
di ciò che incontra e con cui si scontra.
In quest’ottica l’idea che possa
esistere qualcosa come un “eurocentrismo”, nel senso dell’assolutizzazione di
una cultura determinata a spese delle altre, è una contraddizione. L’Occidente
è piuttosto il luogo del “tramonto”, e cioè della relativizzazione di tutte le
forme storiche che esso stesso va assumendo. È, si potrebbe dire, una palestra
di decentramento, come mostra anche il fatto che esso guarda sempre oltre se
stesso, in direzione dell’altro (sia per conquistarlo, sia per rispettarlo). E
ciò è possibile, secondo alcune suggestive interpretazioni, solo sulla base di un
Incondizionato (sia esso “laico”, come la democrazia o i diritti umani, o
“religioso”) posto come ideale regolativo delle sue conquiste, e rispetto al
quale, appunto, quelle conquiste, risultando sempre rivedibili, non potranno
mai essere dogmaticamente assolutizzate[7]. Ne deriva
un’ipotesi sorprendente e carica di prospettive che lasciano sperare:
l’atteggiamento religioso, da potenziale occasione di conflitto e di
intolleranza, produce qui, al contrario, salutari effetti di relativizzazione,
educando al riconoscimento dei limiti di tutto ciò che è umano e impedendo, di
conseguenza, di mettere le mani su un mistero che, proprio perché ci sfugge,
non può mai, da nessuno, essere brandito come un’arma.
3. Globalizzazione, religioni, diritti umani
Storico e celebrato centro di irradiazione della
fede ebraico-cristiana e della cultura greco-romana, poi della conquista di
nuovi mondi, il Mediterraneo è oggi sulla difensiva. Non solo perché è scenario
di un “fuoco incrociato” di flussi migratori che impegnano le politiche
comunitarie in un’opera di difficile contenimento, ma anche perché esso stesso,
sotto la pressione della crisi economica, accusa uno svuotamento migratorio in
direzione del Nord.
Proprio al
cospetto di fenomeni migratori sempre più massicci – con le ricadute tragiche
che recentemente si sono moltiplicate –, l’Unione europea trova nell’area
mediterranea una cartina di tornasole della propria politica di promozione dei
diritti umani. A differenza di trattative geopolitiche di più ampio respiro –
come quella dell’inclusione fra gli stati membri di un paese come la Turchia –,
le ondate migratorie che raggiungono il sud Europa non tollerano i tempi lunghi
della deliberazione politica ma richiedono quelli brevi dell’accoglienza
sociale. Le cause strutturali di questo movimento di popoli, d’altra parte, non
possono essere affrontate che tramite un paziente lavoro di negoziati politici,
in cui secondo alcuni la cittadinanza europea dovrebbe estendersi al punto di
diventare cittadinanza cosmopolitica (J. Habermas), mentre, secondo
altri, dovrebbe invece tenere conto di delicati equilibri comunitari,
soprattutto oggi, al cospetto di uno spaventoso crollo dell’occupazione, che
rischia di aumentare aprendo indiscriminatamente le frontiere
euro-mediterranee.
Che i flussi
migratori dipendano in larga parte da conflitti militari, a loro volta
scaturiti da lotte politiche alimentate da fazioni religiose, mostra lo stretto
legame tra l’agenda europea per la costruzione della pace e della stabilità
politica e la questione del rispetto dei diritti umani nell’ambito dei rapporti
fra le religioni. A questo riguardo, tuttavia, non bisogna cadere nel tranello,
oggi piuttosto frequente, di pensare che il pluralismo delle culture e delle
religioni sia una peculiarità della nostra epoca. Come ha opportunamente
ricordato il teologo delle religioni Claude Geffré, la pluralità delle culture
e delle religioni è sempre esistita, anche se noi, oggi, ne abbiamo una
consapevolezza nuova e più marcata per effetto della globalizzazione[8]. Questa stessa consapevolezza, peraltro, non è nemmeno del tutto nuova, se
si pensa che proprio l’area mediterranea ha conosciuto la prima forma di
globalizzazione già nel XIII sec. a.C., quando i fenici, con le loro
imbarcazioni, cominciarono a disegnare una rete di traffici la cui ampiezza,
allora, poteva già essere considerata “mondiale”.
È nota la tesi standard sull’origine e
sulla natura della globalizzazione, descritta come un fenomeno di omologazione
pervasiva, dovuto all’esportazione, su scala planetaria, di una cultura
consumistica e del profitto, di cui il cosiddetto macdonaldismo
è l’effetto polemicamente più richiamato. Altrettanto nota è la tesi secondo la
quale gli irrigidimenti identitari, spesso individuati come premessa e causa
dei conflitti religiosi, siano un effetto di “rimbalzo” di questa omologazione.
Di fronte alla minaccia di un sistema globale che soffoca il senso di
appartenenza e le identità culturali e individuali, sono soprattutto le
religioni a essere mobilitate e strumentalizzate al servizio di particolarismi
etnici e nazionali. E quando ciò non accade, la specificità del vissuto
religioso è comunque sottomessa alla logica della globalizzazione,
trasformandosi in un sincretismo tra credenze sradicate dal loro contesto di
origine, il cui esito finale è quel believing
without belonging di cui ha parlato la sociologa inglese Grace Davie[9].
È per reazione difensiva nei confronti
di questo dissolvimento sincretistico della fede religiosa che, proprio
nell’area mediterranea, riemergono in ambito religioso rivendicazioni
identitarie spesso violente, causa di quello che sembra davvero uno “scontro di
civiltà” (S. Huntington), denunciato in nome di un sempre più frequente (e
retorico) appello ai “diritti umani”, invocati come una terra franca, in cui è
possibile promuovere un giusto
rapporto fra gli esseri umani, le loro culture e le loro religioni. Da quando,
con la Dichiarazione Universale del
1948, ha preso avvio l’“età dei diritti” (N. Bobbio), la rivendicazione dei
diritti umani ha però rischiato di trasformarsi in una nuova propaganda
religiosa, che si presenta tanto più intollerante quanto più pretende
quell’immunità che spetterebbe a ogni battaglia condotta nel buon nome della
giustizia. Non si può non andare con la memoria all’icastico sospetto
nietzscheano, che vedeva nei “diritti uguali per tutti” nient’altro che un
“cavallo di Troia” del cristianesimo o, in tempi a noi più vicini, a Carl
Schmitt, che rievocando la sentenza di Proudhon secondo cui “chi dice Dio vuole
truffare”, ha affermato che anche “chi dice ‘umanità’ vuole truffare”[10]. La Dichiarazione del 1948 sarebbe insomma
meno “universale” di quanto non pretenda di essere, nascondendo interessi
spiccatamente occidentali, se non nordamericani. Il dibattito sui cosiddetti Asian values lo ha dimostrato con
chiarezza, contrapponendo ai valori dell’individualismo borghese, su cui si
baserebbe il concetto eurocentrico di “diritti umani”, un comunitarismo fondato
su identità organiche e collettive, che enfatizzano valori cosiddetti
“pre-moderni” come la tradizione, le gerarchie sociali, i vincoli familiari
ecc. Il discorso sui diritti umani, che si presumeva al riparo da ogni
ambiguità e da ogni controversia di carattere politico e religioso, finisce per
essere attratto nell’orbita di una ben più radicale controversia, che riguarda
l’abuso della giustizia al servizio di interessi particolaristici, nazionali,
culturali o religiosi che siano.
4.
Geopolitica di un’identità aperta
Se
è vero, come ha scritto Bobbio, che il problema dei diritti umani non è quello
di fondarli ma quello di proteggerli, allora diventa centrale la questione
politica[11]. Come crocevia
di storie e di popoli, l’area mediterranea conosce
però modelli di governo diversi: democrazie liberali consolidate, regimi più o
meno autocratici o regimi in transizione. Su questa diversità si riflettono e
si incarnano anche i fattori di potenziale o reale conflitto che derivano da
un’area che è culla delle tre religioni monoteiste, come dimostrano
drammaticamente le guerre di ieri e di oggi[12].
Ciò anche a causa del fatto che la laicità dello Stato, un passaggio che il
Cristianesimo ha già compiuto da tempo, non si è affermata in ugual misura in
tutti i paesi del Mediterraneo. In alcuni paesi arabi, com’è noto, la religione
regola la vita pubblica e privata e si contesta la modernità, responsabile di
aver separato le due sfere e di aver confinato la dimensione religiosa in un
ambito meramente individuale e soggettivo. Sul piano economico, poi, i paesi
del Mediterraneo sono caratterizzati da forti disparità di sviluppo,
ulteriormente radicalizzate dalla crisi economica ancora in corso. A ciò si
aggiunga che, dal punto di vista antropologico-culturale, vi è una crescente
diffusione di immagini distorte dell’altro da sé, che alimentano incomprensioni
e intolleranza reciproca: l’Occidente, da un lato, viene spesso demonizzato per
i valori materialistici che incarna e diffonde attraverso politiche ritenute
“neo-imperialiste”; dall’altro lato nei paesi europei l’Islam è sbrigativamente
identificato con un mondo compatto e omogeneo, privo di diversificazioni
interne e pervaso da terrorismo e fondamentalismo[13].
Ed
è qui che andrebbe forse ripensata, in uno stile meno politicamente corretto,
il binomio “dialogo-conflitto”. La conflittualità non andrebbe semplicemente
condannata, perché ci ricorda l’impossibilità di omologare le diversità sotto
il segno di una concordia che, spesso, è frutto di un’idea di “pace” imposta da
una delle parti in conflitto. Né la pace può assumere tratti esclusivamente
“occidentali”. Occorre piuttosto combinare, in una difficile negoziazione, le
diverse pratiche di pace che caratterizzano le diverse culture. E ciò
costituisce la più grande sfida, perché le diverse idee di cosa sia
“giustizia”, “pace” e “verità”, contrappongono gli uomini e le culture più di
quanto non facciano i loro interessi particolari. La battaglia fra idee
“universali” è sempre stata più violenta e sanguinosa del piccolo scontro fra
interessi di parte che si riconoscono tali. Non a caso il dialogo fra le
religioni è il più impegnativo, dal momento che ciascuna fede mantiene una
pretesa di assolutezza difficilmente compatibile con quella altrui. E ciò
avviene soprattutto in ambito interconfessionale, e cioè tra le fazioni interne
alla medesima religione.
In
quest’ottica, sulla scorta del Partenariato
Euro-Mediterraneo lanciato a Barcellona nel novembre 1995 dai capi di stato
e di governo di 15 paesi dell’Unione Europea e di 12 paesi del bacino del
Mediterraneo, una prima ipotesi potrebbe essere di ripensare il Mediterraneo
non solo come culla di un’identità europea plurale e interculturale, ma anche
come una “cerniera” fra Nord e Sud del mondo, da un lato, e fra Occidente e
Oriente, dall’altro lato. Una cerniera che ambisce a diventare un ago della
bilancia alternativo a quello che, con una certa enfasi, è stato chiamato il
“monoteismo atlantico” (F. Panebianco). Non c’è timore di esagerare, da questo
punto di vista, nell’affermare che il Mediterraneo rappresenti davvero l’area
più strategica del globo. Con ripercussioni estremamente impegnative per quelle
che sono le responsabilità politiche internazionali dell’Unione Europea. Per
posizione geografica e storia politica, infatti, il Mediterraneo rende
pericolosamente “prossimi” alle faccende europee i problemi che affliggono il
Medio Oriente, il continente africano e gli stessi paesi membri maggiormente
colpiti dalla crisi economica, che non a caso sono proprio Grecia, Spagna e
ormai anche Italia. In tal senso il Mediterraneo è il luogo più scomodo
d’Occidente, in cui quest’ultimo non può costruire la propria identità senza
farsi carico di quella dell’altro. Ma proprio per questo l’area mediterranea è
anche la più grande chance affinché
l’Europa possa mostrarsi all’altezza della propria vocazione, se è vero, come
ha sostenuto Jacques Derrida, che l’identità del vecchio continente è di non
avere un’identità, o, più esattamente, di risolvere la propria identità nella
relazione[14].
Recependo una simile
lezione, il progetto si concentrerà sul concetto di “contaminazione” culturale,
intesa come incontro fra culture o religioni in cui ciascuna dilata la propria
identità senza perderla. Le culture sono peraltro esse stesse frutto di
contaminazione, e non sono mai universi reciprocamente impermeabili, come
mostra fra le altre la stessa cultura europea e mediterranea. A questo riguardo
si può ricordare, in ambito arabo, la corrente di riforma nota con il nome di Nahda,
ovvero “rinascimento” o “risveglio”, che dalla seconda metà del XIX secolo ha
attraversato le società del Mediterraneo meridionale, e che si è sviluppata
tramite una deliberata introduzione di elementi occidentali all’interno della
cultura islamica e araba, senza tuttavia rinunciare alle tradizioni che le
caratterizzano e le rendono riconoscibili[15].
Fino a quando l’agenda politica europea in area mediterranea si limiterà alle
voci “sicurezza, terrorismo e lotta all’immigrazione clandestina”, il confine
fra Nord e Sud e fra Occidente e Oriente rimarrà una barriera impenetrabile, e
il segnale positivo di cui l’altro ha bisogno stenterà a raggiungerlo[16].
[1]M. Herzfeld, Practical Mediterraneanism:
Excuses for Everything, From Epistemology to Eating, in Rethinking the Mediterranean. Ed.
William V. Harris. New York: Oxford University Press, pp. 45-63.
[2]Cfr. F.
Benigno, Il Mediterraneo, http://www.treccani.it/enciclopedia/il-mediterraneo_(XXI_Secolo)/
[3]G.W.F. Hegel, Lezioni
sulla filosofia della storia, vol. I, la nuova Italia, Firenze 1998, p. 77.
[4]Su questi aspetti si vedano F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 2014 e M. Vegetti, Una geopolitica immaginaria del Mediterraneo, http://www.mi.camcom.it/upload/file/1633/816572/FILENAME/03-VEGETTI.pdf
[5]G.W.F. Hegel, Lezioni
sulla storia della filosofia, a cura di G. Calogero e C. Fatta, vol. I, La
nuova Italia, Firenze 1963, pp. 269-271.
[6]S. Latouche, Le Défi de Minerve. Rationalité
occidentale et raison méditerranéenne, Paris, Éditions
La Découverte, 1999, trad. it. La sfida di Minerva.
Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri,
Torino 2000.
[7] R. Spaemann,
Universalismus oder Eurozentrismus?,
in K. MICHALSKI (a
cura di), Europa und die Folgen, Klett-Cotta,
Stuttgart 1988, pp. 313-322: 321.
[8]C. Geffré,
Chances e rischi
del pluralismo religioso nell’epoca della globalizzazione, in M. Dal Corso, Religioni e diritti umani, “I Quaderni
dei Cantieri”, 3 (2008), pp. 19-26.
[9]G. Davie, Religion in Britain since1945. Believing without Belonging, Basil
Blackwell, Oxford 1994.
[10]C. Schmitt, Etica di
Stato e Stato pluralistico, in Id.,
Posizioni e concetti. In lotta con
Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè,
Milano 2007, pp. 217-236: 232. Cfr., sulla stessa linea, D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra,
diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000.
[12]S. Guarracino, Mediterraneo. Immagini, storie e teorie da
Omero a Braudel, Bruno Mondadori, Milano 2007.
[13]Dal punto di vista della stabilità
politica, della pace e del rispetto dei diritti umani, il nodo cruciale,
probabilmente, rimane ancora la questione palestinese, che per alcuni è la
“questione mediterranea” per eccellenza (D.
Zolo, La questione mediterranea
nelle relazioni internazionali, in G.
Cevolin, a cura di, Identità,
Europa, Mediterraneo. Autonomia e nuove relazioni internazionali, “Quaderni
di Autonomia” 14/15, 2005, pp. 19-31: 27). La soluzione del conflitto
arabo-israeliano sarebbe infatti non solo un grande passo verso la pace
mediterranea e la pacificazione del Medio Oriente, ma rimuoverebbe anche il
grande “pretesto” che alimenta il terrorismo di matrice islamica.
[16]Sulla
questione del cosiddetto ‘respingimento’, si sono scontrate le diverse letture
del ‘cosmopolitismo’ e del ‘nazionalismo’, sia moderato che duro. Ci sono buoni
argomenti sia pro sia contro. Nessuna delle soluzioni proposte, tuttavia, è
applicabile immediatamente e senza problemi. I critici di Mare Nostrum, per
esempio, ebbero a dire, allora, che se i soldi investiti per aiutare i migranti
a sbarcare in Italia fossero stati investiti nei luoghi di partenza,
probabilmente il problema sarebbe stato già risolto. A questo riguardo, però,
l’Ue ha dichiarato di non avere sufficienti risorse, per cui a fortiori non può averle nemmeno un
singolo paese come l’Italia. Si è anche detto che i clandestini andrebbero
accolti solo a condizione che anche l’Ue si faccia carico del problema e che si
dovrebbe pensare prima alla sicurezza dei cittadini dell’Unione, in particolare
italiani, e dopo agli stranieri, oltre a ricordare che accogliendo alle
frontiere si autorizza il turpe mercato degli scafisti. Le motivazioni di
coloro che sostengono il respingimento o la chiusura
delle frontiere, naturalmente, non sono mai esplicitamente razziste, e sono
spesso delle buone motivazioni, anche nell’ottica di una maggiore tutela dei
diritti umani degli stessi migranti. La questione, tuttavia, è la già
richiamata sfasatura fra i tempi della politica e quelli dell’azione sociale:
può esserci provvedimento politico-giuridico che, in nome della sicurezza, imponga
l’omissione di soccorso in mare? Forse dopo la chiusura delle frontiere e
alcune vittime “esemplari” il flusso diminuirà fino a interrompersi del tutto.
Ma si può usare l’omissione di
soccorso per dare un esempio? La chiusura delle frontiere può anche essere una
soluzione politicamente ragionevole. Ma non può imporre l’omissione di soccorso finché ci saranno barconi in vista.
Mentre dunque la politica continua a fare il suo giusto lavoro, la prassi di
accoglienza non può essere interrotta. Anche in deroga a eventuali
provvedimenti il cui scopo è di controllo e non di soccorso, come il programma
“Triton”, che a differenza di Mare Nostrum, prevede il controllo delle acque
internazionali solamente fino a trenta miglia dalle coste italiane. È difficile,
infatti, pensare che se un barcone è avvistato e sta per affondare a trentun
miglia dalla costa, non lo si soccorra. Sul tema si vedano le lucide
riflessioni di L. Caracciolo, Il dovere di accogliere i migranti,
“Limes”, 23 aprile 2015.
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