lunedì 25 maggio 2015

Il Mediterraneo e la questione dell’altro: geopolitica di un’idea

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Il Mediterraneo e la questione dell’altro

geopolitica di un’idea


a cura di Luciano Sesta

 1. Oltre il ‘mediterraneismo’
In un saggio significativamente intitolato Practical mediterraneanism. Excuses for everything, from epistemology to eating[1], l’antropologo Michael Herzfeld ha denunciato una vera e propria moda “mediterraneista”, in cui il concetto di “mediterraneo” diventa un contenitore neutro da riempire, di volta in volta, sulla base di tendenze, aspettative, ideologie e filosofie del momento. Già alla fine degli anni Trenta dello scorso secolo, un altro studioso, l’intellettuale egiziano T. Ḥusayn, in polemica con la politica panaraba di Nasser, aveva rivendicato un’identità egiziana specificamente “mediterranea”, in alternativa a quella araba[2]. In tempi a noi più vicini, la dieta “mediterranea” è diventata un passepartout nell’ambito della salute alimentare, oltre a funzionare anche come richiamo “politicamente corretto” all’idea di dialogo interculturale, vista la contaminazione di cibi di provenienza geografica diversa di cui tale dieta è composta. Si comprende perché Herzfeld si interroghi, da antropologo, su questo “bisogno” di trasformare uno spazio geografico ricco di storia in uno specchio che rifletta, dotandole di un “autorevole” riscontro, le cose di cui ci occupiamo e preoccupiamo.
Prima ancora della domanda di Herzfeld, che può avere molteplici risposte, rimane tuttavia da spiegare perché, per soddisfare questo bisogno, guardiamo proprio al Mediterraneo. Cosa c’è insomma in quest’area geografica da indurci, quasi irresistibilmente, a farne una chiave simbolica di comprensione dei più svariati fenomeni? Perché, con la sua dieta e con il suo clima, con la sua storia e con la sua cultura, il Mediterraneo intriga? Il fatto stesso che una simile domanda si ponga è sufficiente a uscire dalle mode “mediterraneiste” per interrogarsi nuovamente su ciò che le alimenta, e cioè appunto il perenne fascino suscitato da quel mare, “isolato” dagli oceani e dagli altri mari, a cui gli antichi diedero il nome di Mare Nostrum, quasi a volerlo gelosamente trattenere dalla sua tendenza a diventare crocevia di tutti i popoli, e non solo di quelli che si affacciano sulle sue sponde. 

 2. Il mare e la scoperta dell’altro
Nelle sue Lezioni di filosofia della storia, proponendo un’interpretazione destinata a essere ripresa in tempi recenti, il filosofo romantico Hegel ha scritto: “Per i tre continenti il Mar Mediterraneo è fattore di unificazione e il centro della storia mondiale. Qui c’è la Grecia, il punto luminoso nella storia. In Siria, Gerusalemme è poi il centro del giudaismo e del cristianesimo, a sud ovest sorgono La Mecca e Medina, sede originaria della fede musulmana. Verso occidente si trovano Delfi, Atene, ancora più a ovest Roma; inoltre giacciono sul Mediterraneo Alessandria e Cartagine. Il Mar Mediterraneo è, perciò, il cuore del Vecchio Mondo, è la sua condizione necessaria e la sua vita. Senza di esso sarebbe impossibile rappresentarsi la storia, sarebbe come immaginare l’antica Roma o Atene senza il foro, dove tutti si radunavano”[3].
Il Mediterraneo come “foro” della civiltà europea: con questa suggestiva metafora siamo ancora oggi chiamati a confrontarci, in un’epoca di rapidi mutamenti culturali e di instabilità politica, che vede affacciarsi lo spettro di un’ennesima guerra di civiltà proprio in quella Siria che Hegel rievoca come luogo sorgivo di due religioni mondiali quali l’ebraismo e il cristianesimo. Come punto di convergenza di fattori geopolitici, etici, storico-culturali e religiosi, il Mediterraneo assume dunque anche oggi l’aspetto di un link universale, la cui identità specifica consiste nel non averne alcuna. E in effetti lo stesso Hegel – anche qui anticipando riflessioni contemporanee come quelle di F. Braudel, J. Derrida e M. Crépon – colloca l’identità europea non già in uno spazio geograficamente e culturalmente delimitato, ma in un medium, e cioè in una dimensione che, proprio come il “mare”, scava distanze e, al tempo stesso, permette di colmarle, almeno a chi è disposto a sfidare la precarietà delle acque. In effetti la trasformazione dell’aggettivo mediterraneus (“in mezzo alle terre”) in sostantivo – testimoniata sin da Isidoro di Siviglia (560-636 d.C.) – rende ancora più accentuato il paradosso di dare “realtà” a quello che è un semplice “stare tra”[4]. Ancora Hegel espone con efficacia il senso in cui il tramite rappresentato dal mare implica una vocazione all’universalità che in Europa non ha escluso, ma anzi ha richiesto, il rapporto con l’altro: “In Asia il mare non ha importanza: anzi, i popoli hanno chiuso le porte al mare [...]. In Europa, invece, quel che conta è proprio il rapporto col mare: questa è una differenza costante. Lo Stato europeo può essere veramente Stato europeo solo quando è sul mare. Nella vita sul mare è implicita quella specialissima tendenza all’esterno, che manca alla vita asiatica: il procedere della vita oltre se medesima”[5].
Benché contenga chiari elementi di eurocentrismo, la pagina hegeliana offre anche gli strumenti che consentono di interpretarlo non già come chiusura etnocentrica, ma come apertura relazionale all’alterità. La vocazione europea all’universalità, infatti, è qui interpretata non come una dilatazione “coloniale” della propria identità, ma come un suo “superamento” in direzione dell’altro. Il mare, in quest’ottica, si presenta come la cifra paradigmatica di ogni autentico legame fra uomini, civiltà e religioni, in cui il rapporto con l’altro si realizza solo al prezzo di un rischio, e cioè solo a condizione di imboccare un percorso la cui meta non è mai garantita e in cui risultano sospesi, almeno provvisoriamente, i confini rassicuranti della propria stessa identità. Da sempre, infatti, navigare significa abbandonare ciò che è fermo e protetto per avventurarsi in ciò che è in perenne e precario movimento. Sporgendo sul mare, la terra è dunque costretta a stabilire un rapporto con l’alterità. Lo stesso storico desiderio di conquista dell’Occidente non è che una conferma di questo inevitabile rapporto con l’altro, che mentre alimenta lo spirito “colonizzatore” europeo, lo espone anche a un’incessante smentita delle proprie pretese di autosufficienza. Serge Latouche ha addirittura parlato di una “raison méditerranéenne”[6], alludendo al Mediterraneo come all’equivalente geografico e culturale di un’attitudine “critica” della ragione europea: come questa non riposa mai sulle proprie acquisizioni perché le rimette costantemente in questione, così il mare-frontiera su cui si affacciano i popoli del mediterraneo impedisce ogni chiusura etnocentrica.
L’insieme dei problemi che noi oggi discutiamo sotto il nesso religioni-diritti umani-guerra-pace, fa la sua esplicita comparsa proprio nel cuore del Mediterraneo all’epoca del colonialismo del Cinquecento. È erroneo, in tal senso, dire che in quella circostanza il Mediterraneo perse la sua centralità in favore dell’Atlantico. È vero il contrario: solo l’impulso alla “scoperta dell’altro” (T. Todorov) coltivato dalla mentalità mediterranea spinse Colombo a solcare l’Atlantico, la cui nuova centralità, dunque, è figlia di quella stessa “raison méditerranéenne” che sarebbe poi uscita ridimensionata dalle nuove scoperte.
Uno sguardo alla storia, in effetti, mostra che la cultura occidentale, frutto di un peculiare “meticciato” greco-romano, arabo-musulmano ed ebraico-cristiano, ha dimostrato un dinamismo sorprendente, che ne ha fatto una terra di “rivoluzioni” incessanti, che impediscono di pensarne l’“universalità” come semplice “espansionismo”, e dunque come affermazione di una cultura particolare a spese delle altre. Il dinamismo della cultura europea si lascia leggere piuttosto come desiderio di uscire da sé verso l’altro, di imparare da lui e, certamente, anche di influenzarlo. Portando già dentro di sé l’alterità e la pluralità, la cultura europea è cioè strutturalmente dialogica e, dunque, in grado non soltanto di aprirsi, ma anche di sollecitare l’apertura di ciò che incontra e con cui si scontra. 
In quest’ottica l’idea che possa esistere qualcosa come un “eurocentrismo”, nel senso dell’assolutizzazione di una cultura determinata a spese delle altre, è una contraddizione. L’Occidente è piuttosto il luogo del “tramonto”, e cioè della relativizzazione di tutte le forme storiche che esso stesso va assumendo. È, si potrebbe dire, una palestra di decentramento, come mostra anche il fatto che esso guarda sempre oltre se stesso, in direzione dell’altro (sia per conquistarlo, sia per rispettarlo). E ciò è possibile, secondo alcune suggestive interpretazioni, solo sulla base di un Incondizionato (sia esso “laico”, come la democrazia o i diritti umani, o “religioso”) posto come ideale regolativo delle sue conquiste, e rispetto al quale, appunto, quelle conquiste, risultando sempre rivedibili, non potranno mai essere dogmaticamente assolutizzate[7]. Ne deriva un’ipotesi sorprendente e carica di prospettive che lasciano sperare: l’atteggiamento religioso, da potenziale occasione di conflitto e di intolleranza, produce qui, al contrario, salutari effetti di relativizzazione, educando al riconoscimento dei limiti di tutto ciò che è umano e impedendo, di conseguenza, di mettere le mani su un mistero che, proprio perché ci sfugge, non può mai, da nessuno, essere brandito come un’arma.
  
 3. Globalizzazione, religioni, diritti umani 
Storico e celebrato centro di irradiazione della fede ebraico-cristiana e della cultura greco-romana, poi della conquista di nuovi mondi, il Mediterraneo è oggi sulla difensiva. Non solo perché è scenario di un “fuoco incrociato” di flussi migratori che impegnano le politiche comunitarie in un’opera di difficile contenimento, ma anche perché esso stesso, sotto la pressione della crisi economica, accusa uno svuotamento migratorio in direzione del Nord.
Proprio al cospetto di fenomeni migratori sempre più massicci – con le ricadute tragiche che recentemente si sono moltiplicate –, l’Unione europea trova nell’area mediterranea una cartina di tornasole della propria politica di promozione dei diritti umani. A differenza di trattative geopolitiche di più ampio respiro – come quella dell’inclusione fra gli stati membri di un paese come la Turchia –, le ondate migratorie che raggiungono il sud Europa non tollerano i tempi lunghi della deliberazione politica ma richiedono quelli brevi dell’accoglienza sociale. Le cause strutturali di questo movimento di popoli, d’altra parte, non possono essere affrontate che tramite un paziente lavoro di negoziati politici, in cui secondo alcuni la cittadinanza europea dovrebbe estendersi al punto di diventare cittadinanza cosmopolitica (J. Habermas), mentre, secondo altri, dovrebbe invece tenere conto di delicati equilibri comunitari, soprattutto oggi, al cospetto di uno spaventoso crollo dell’occupazione, che rischia di aumentare aprendo indiscriminatamente le frontiere euro-mediterranee.  
Che i flussi migratori dipendano in larga parte da conflitti militari, a loro volta scaturiti da lotte politiche alimentate da fazioni religiose, mostra lo stretto legame tra l’agenda europea per la costruzione della pace e della stabilità politica e la questione del rispetto dei diritti umani nell’ambito dei rapporti fra le religioni. A questo riguardo, tuttavia, non bisogna cadere nel tranello, oggi piuttosto frequente, di pensare che il pluralismo delle culture e delle religioni sia una peculiarità della nostra epoca. Come ha opportunamente ricordato il teologo delle religioni Claude Geffré, la pluralità delle culture e delle religioni è sempre esistita, anche se noi, oggi, ne abbiamo una consapevolezza nuova e più marcata per effetto della globalizzazione[8]. Questa stessa consapevolezza, peraltro, non è nemmeno del tutto nuova, se si pensa che proprio l’area mediterranea ha conosciuto la prima forma di globalizzazione già nel XIII sec. a.C., quando i fenici, con le loro imbarcazioni, cominciarono a disegnare una rete di traffici la cui ampiezza, allora, poteva già essere considerata “mondiale”. 
     È nota la tesi standard sull’origine e sulla natura della globalizzazione, descritta come un fenomeno di omologazione pervasiva, dovuto all’esportazione, su scala planetaria, di una cultura consumistica e del profitto, di cui il cosiddetto  macdonaldismo è l’effetto polemicamente più richiamato. Altrettanto nota è la tesi secondo la quale gli irrigidimenti identitari, spesso individuati come premessa e causa dei conflitti religiosi, siano un effetto di “rimbalzo” di questa omologazione. Di fronte alla minaccia di un sistema globale che soffoca il senso di appartenenza e le identità culturali e individuali, sono soprattutto le religioni a essere mobilitate e strumentalizzate al servizio di particolarismi etnici e nazionali. E quando ciò non accade, la specificità del vissuto religioso è comunque sottomessa alla logica della globalizzazione, trasformandosi in un sincretismo tra credenze sradicate dal loro contesto di origine, il cui esito finale è quel believing without belonging di cui ha parlato la sociologa inglese Grace Davie[9].
È per reazione difensiva nei confronti di questo dissolvimento sincretistico della fede religiosa che, proprio nell’area mediterranea, riemergono in ambito religioso rivendicazioni identitarie spesso violente, causa di quello che sembra davvero uno “scontro di civiltà” (S. Huntington), denunciato in nome di un sempre più frequente (e retorico) appello ai “diritti umani”, invocati come una terra franca, in cui è possibile promuovere un giusto rapporto fra gli esseri umani, le loro culture e le loro religioni. Da quando, con la Dichiarazione Universale del 1948, ha preso avvio l’“età dei diritti” (N. Bobbio), la rivendicazione dei diritti umani ha però rischiato di trasformarsi in una nuova propaganda religiosa, che si presenta tanto più intollerante quanto più pretende quell’immunità che spetterebbe a ogni battaglia condotta nel buon nome della giustizia. Non si può non andare con la memoria all’icastico sospetto nietzscheano, che vedeva nei “diritti uguali per tutti” nient’altro che un “cavallo di Troia” del cristianesimo o, in tempi a noi più vicini, a Carl Schmitt, che rievocando la sentenza di Proudhon secondo cui “chi dice Dio vuole truffare”, ha affermato che anche “chi dice ‘umanità’ vuole truffare”[10]. La Dichiarazione del 1948 sarebbe insomma meno “universale” di quanto non pretenda di essere, nascondendo interessi spiccatamente occidentali, se non nordamericani. Il dibattito sui cosiddetti Asian values lo ha dimostrato con chiarezza, contrapponendo ai valori dell’individualismo borghese, su cui si baserebbe il concetto eurocentrico di “diritti umani”, un comunitarismo fondato su identità organiche e collettive, che enfatizzano valori cosiddetti “pre-moderni” come la tradizione, le gerarchie sociali, i vincoli familiari ecc. Il discorso sui diritti umani, che si presumeva al riparo da ogni ambiguità e da ogni controversia di carattere politico e religioso, finisce per essere attratto nell’orbita di una ben più radicale controversia, che riguarda l’abuso della giustizia al servizio di interessi particolaristici, nazionali, culturali o religiosi che siano.
    
 4.    Geopolitica di un’identità aperta 
Se è vero, come ha scritto Bobbio, che il problema dei diritti umani non è quello di fondarli ma quello di proteggerli, allora diventa centrale la questione politica[11]. Come crocevia di storie e di popoli, l’area mediterranea conosce però modelli di governo diversi: democrazie liberali consolidate, regimi più o meno autocratici o regimi in transizione. Su questa diversità si riflettono e si incarnano anche i fattori di potenziale o reale conflitto che derivano da un’area che è culla delle tre religioni monoteiste, come dimostrano drammaticamente le guerre di ieri e di oggi[12]. Ciò anche a causa del fatto che la laicità dello Stato, un passaggio che il Cristianesimo ha già compiuto da tempo, non si è affermata in ugual misura in tutti i paesi del Mediterraneo. In alcuni paesi arabi, com’è noto, la religione regola la vita pubblica e privata e si contesta la modernità, responsabile di aver separato le due sfere e di aver confinato la dimensione religiosa in un ambito meramente individuale e soggettivo. Sul piano economico, poi, i paesi del Mediterraneo sono caratterizzati da forti disparità di sviluppo, ulteriormente radicalizzate dalla crisi economica ancora in corso. A ciò si aggiunga che, dal punto di vista antropologico-culturale, vi è una crescente diffusione di immagini distorte dell’altro da sé, che alimentano incomprensioni e intolleranza reciproca: l’Occidente, da un lato, viene spesso demonizzato per i valori materialistici che incarna e diffonde attraverso politiche ritenute “neo-imperialiste”; dall’altro lato nei paesi europei l’Islam è sbrigativamente identificato con un mondo compatto e omogeneo, privo di diversificazioni interne e pervaso da terrorismo e fondamentalismo[13].
     Ed è qui che andrebbe forse ripensata, in uno stile meno politicamente corretto, il binomio “dialogo-conflitto”. La conflittualità non andrebbe semplicemente condannata, perché ci ricorda l’impossibilità di omologare le diversità sotto il segno di una concordia che, spesso, è frutto di un’idea di “pace” imposta da una delle parti in conflitto. Né la pace può assumere tratti esclusivamente “occidentali”. Occorre piuttosto combinare, in una difficile negoziazione, le diverse pratiche di pace che caratterizzano le diverse culture. E ciò costituisce la più grande sfida, perché le diverse idee di cosa sia “giustizia”, “pace” e “verità”, contrappongono gli uomini e le culture più di quanto non facciano i loro interessi particolari. La battaglia fra idee “universali” è sempre stata più violenta e sanguinosa del piccolo scontro fra interessi di parte che si riconoscono tali. Non a caso il dialogo fra le religioni è il più impegnativo, dal momento che ciascuna fede mantiene una pretesa di assolutezza difficilmente compatibile con quella altrui. E ciò avviene soprattutto in ambito interconfessionale, e cioè tra le fazioni interne alla medesima religione.
     In quest’ottica, sulla scorta del Partenariato Euro-Mediterraneo lanciato a Barcellona nel novembre 1995 dai capi di stato e di governo di 15 paesi dell’Unione Europea e di 12 paesi del bacino del Mediterraneo, una prima ipotesi potrebbe essere di ripensare il Mediterraneo non solo come culla di un’identità europea plurale e interculturale, ma anche come una “cerniera” fra Nord e Sud del mondo, da un lato, e fra Occidente e Oriente, dall’altro lato. Una cerniera che ambisce a diventare un ago della bilancia alternativo a quello che, con una certa enfasi, è stato chiamato il “monoteismo atlantico” (F. Panebianco). Non c’è timore di esagerare, da questo punto di vista, nell’affermare che il Mediterraneo rappresenti davvero l’area più strategica del globo. Con ripercussioni estremamente impegnative per quelle che sono le responsabilità politiche internazionali dell’Unione Europea. Per posizione geografica e storia politica, infatti, il Mediterraneo rende pericolosamente “prossimi” alle faccende europee i problemi che affliggono il Medio Oriente, il continente africano e gli stessi paesi membri maggiormente colpiti dalla crisi economica, che non a caso sono proprio Grecia, Spagna e ormai anche Italia. In tal senso il Mediterraneo è il luogo più scomodo d’Occidente, in cui quest’ultimo non può costruire la propria identità senza farsi carico di quella dell’altro. Ma proprio per questo l’area mediterranea è anche la più grande chance affinché l’Europa possa mostrarsi all’altezza della propria vocazione, se è vero, come ha sostenuto Jacques Derrida, che l’identità del vecchio continente è di non avere un’identità, o, più esattamente, di risolvere la propria identità nella relazione[14].
Recependo una simile lezione, il progetto si concentrerà sul concetto di “contaminazione” culturale, intesa come incontro fra culture o religioni in cui ciascuna dilata la propria identità senza perderla. Le culture sono peraltro esse stesse frutto di contaminazione, e non sono mai universi reciprocamente impermeabili, come mostra fra le altre la stessa cultura europea e mediterranea. A questo riguardo si può ricordare, in ambito arabo, la corrente di riforma nota con il nome di Nahda, ovvero “rinascimento” o “risveglio”, che dalla seconda metà del XIX secolo ha attraversato le società del Mediterraneo meridionale, e che si è sviluppata tramite una deliberata introduzione di elementi occidentali all’interno della cultura islamica e araba, senza tuttavia rinunciare alle tradizioni che le caratterizzano e le rendono riconoscibili[15]. Fino a quando l’agenda politica europea in area mediterranea si limiterà alle voci “sicurezza, terrorismo e lotta all’immigrazione clandestina”, il confine fra Nord e Sud e fra Occidente e Oriente rimarrà una barriera impenetrabile, e il segnale positivo di cui l’altro ha bisogno stenterà a raggiungerlo[16].
    




[1]M. Herzfeld, Practical Mediterraneanism: Excuses for Everything, From Epistemology to Eating, in Rethinking the Mediterranean. Ed. William V. Harris. New York: Oxford University Press, pp. 45-63.
[3]G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, la nuova Italia, Firenze 1998, p. 77.
[4]Su questi aspetti si vedano F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 2014 e M. Vegetti, Una geopolitica immaginaria del Mediterraneo, http://www.mi.camcom.it/upload/file/1633/816572/FILENAME/03-VEGETTI.pdf 
[5]G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di G. Calogero e C. Fatta, vol. I, La nuova Italia, Firenze 1963, pp. 269-271.
[6]S. Latouche, Le Défi de Minerve. Rationalité occidentale et raison méditerranéenne, Paris, Éditions La Découverte, 1999, trad. it. La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
[7] R. Spaemann, Universalismus oder Eurozentrismus?, in K. MICHALSKI (a cura di), Europa und die Folgen, Klett-Cotta, Stuttgart 1988, pp. 313-322: 321.
[8]C. Geffré, Chances e rischi del pluralismo religioso nell’epoca della globalizzazione, in M. Dal Corso, Religioni e diritti umani, “I Quaderni dei Cantieri”, 3 (2008), pp. 19-26.
[9]G. Davie, Religion in Britain since1945. Believing without Belonging, Basil Blackwell, Oxford 1994.
[10]C. Schmitt, Etica di Stato e Stato pluralistico, in Id., Posizioni e concetti. In lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 2007, pp. 217-236: 232. Cfr., sulla stessa linea, D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000.
[11]N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1992, p. 18.
[12]S. Guarracino, Mediterraneo. Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel, Bruno Mondadori, Milano 2007.
[13]Dal punto di vista della stabilità politica, della pace e del rispetto dei diritti umani, il nodo cruciale, probabilmente, rimane ancora la questione palestinese, che per alcuni è la “questione mediterranea” per eccellenza (D. Zolo, La questione mediterranea nelle relazioni internazionali, in G. Cevolin, a cura di, Identità, Europa, Mediterraneo. Autonomia e nuove relazioni internazionali, “Quaderni di Autonomia” 14/15, 2005, pp. 19-31: 27). La soluzione del conflitto arabo-israeliano sarebbe infatti non solo un grande passo verso la pace mediterranea e la pacificazione del Medio Oriente, ma rimuoverebbe anche il grande “pretesto” che alimenta il terrorismo di matrice islamica.
[14]J. Derrida, Oggi l’Europa, Garzanti, Milano 1991.
[15] Aa.Vv., Il mediterraneo. Figure e incontri, Jaca Book, Milano 2005, p. 146.
[16]Sulla questione del cosiddetto ‘respingimento’, si sono scontrate le diverse letture del ‘cosmopolitismo’ e del ‘nazionalismo’, sia moderato che duro. Ci sono buoni argomenti sia pro sia contro. Nessuna delle soluzioni proposte, tuttavia, è applicabile immediatamente e senza problemi. I critici di Mare Nostrum, per esempio, ebbero a dire, allora, che se i soldi investiti per aiutare i migranti a sbarcare in Italia fossero stati investiti nei luoghi di partenza, probabilmente il problema sarebbe stato già risolto. A questo riguardo, però, l’Ue ha dichiarato di non avere sufficienti risorse, per cui a fortiori non può averle nemmeno un singolo paese come l’Italia. Si è anche detto che i clandestini andrebbero accolti solo a condizione che anche l’Ue si faccia carico del problema e che si dovrebbe pensare prima alla sicurezza dei cittadini dell’Unione, in particolare italiani, e dopo agli stranieri, oltre a ricordare che accogliendo alle frontiere si autorizza il turpe mercato degli scafisti. Le motivazioni di coloro che sostengono il respingimento o la chiusura delle frontiere, naturalmente, non sono mai esplicitamente razziste, e sono spesso delle buone motivazioni, anche nell’ottica di una maggiore tutela dei diritti umani degli stessi migranti. La questione, tuttavia, è la già richiamata sfasatura fra i tempi della politica e quelli dell’azione sociale: può esserci provvedimento politico-giuridico che, in nome della sicurezza, imponga l’omissione di soccorso in mare? Forse dopo la chiusura delle frontiere e alcune vittime “esemplari” il flusso diminuirà fino a interrompersi del tutto. Ma si può usare l’omissione di soccorso per dare un esempio? La chiusura delle frontiere può anche essere una soluzione politicamente ragionevole. Ma non può imporre l’omissione di soccorso finché ci saranno barconi in vista. Mentre dunque la politica continua a fare il suo giusto lavoro, la prassi di accoglienza non può essere interrotta. Anche in deroga a eventuali provvedimenti il cui scopo è di controllo e non di soccorso, come il programma “Triton”, che a differenza di Mare Nostrum, prevede il controllo delle acque internazionali solamente fino a trenta miglia dalle coste italiane. È difficile, infatti, pensare che se un barcone è avvistato e sta per affondare a trentun miglia dalla costa, non lo si soccorra. Sul tema si vedano le lucide riflessioni di L. Caracciolo, Il dovere di accogliere i migranti, “Limes”, 23 aprile 2015.

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