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Elezioni in GB e crisi del bipolarismo
La singolarità della
sfida elettorale che, il prossimo 7 maggio si terrà in Inghilterra, Galles e
Scozia per rinnovare il Parlamento della Gran Bretagna, sembra proprio essere la
sempre più realistica possibilità di impasse. Il sistema
elettorale britannico è in buona sostanza un sistema uninominale maggioritario
a turno unico. Il territorio di sua maestà Elisabetta II è dunque suddiviso in
tanti collegi quanti sono i seggi (650) da assegnare in Parlamento, il candidato
che riceverà la maggioranza dei voti per ciascun collegio otterrà il seggio “first
past the post”. La novità risiede
essenzialmente nel fatto che un sistema maggioritario secco, che ha
storicamente garantito un forte bipolarismo, quando non un vero e proprio
bipartitismo, rischia ad oggi di non garantire alcuna maggioranza parlamentare. Le proiezioni danno
infatti i Tories di poco avanti al New Labour, 280 seggi contro 265, circa 25
seggi per i LibDem, lo UKIP del polemista euroscettico Nigel Farage (con
percentuali di voto attorno al 15%) aggiudicarsi meno di 5 seggi, 1 seggio per
i Verdi, ed uno Scottish Indipendent Party fare man bassa dei 59 seggi scozzesi
a quota 54. Pare definitivamente
archiviata l’epoca del bipartitismo, dell’alternanza tra governi monocolore
Conservatori o Laburisti. Già oggi in realtà
il premier Cameron è a capo di un governo di coalizione con i
Liberal-Democratici di Nick Clegg, ma lo scenario che si prevede fra qualche
settimana è del tutto inedito. Le possibilità, per
la coalizione uscente, di arrivare alla quota minima di 326 seggi e formare una
maggioranza sono davvero basse. Le alternative sono entrambe delle incognite,
una maggioranza arcobaleno o una “grande coalizione” tra Conservatori e Laburisti. Che i due partiti
abbiano perso lo smalto di un tempo è evidente. Ed Milliband e lo
stesso Cameron non hanno ne le capacità di leadership, ne l’impeto riformatore
di Blair e della Tatcher. Sicuramente scontano, presso l’opinione pubblica
britannica, qualche compromesso di troppo con la mai digerita UE, tutto a
favore dei partiti indipendentisti come SIP e UKIP. Sta di fatto che
anche in questo caso la narrativa europea ha un peso. Non risulta strano perciò
che in ambito comunitario girino ipotesi di Europa a due velocità, come
rilanciato, in una recente intervista, anche dal ex Presidente del Consiglio
Enrico Letta.
Per scongiurare
destabilizzanti marce indietro che si chiamino “Brexit” o meno, l’Unione
dovrebbe procedere ad un’integrazione politica maggiore per quanto riguarda i
paesi dell’Eurozona, lasciando da parte chi ne è sempre voluto rimanere
estraneo. Un messaggio per calmare le spinte indipendentiste, comunicando un
cambio di passo europeo che di rimbalzo tranquillizzi i sudditi di sua maestà. Stando all’analisi
politico elettorale anche queste elezioni sembrano confermare il trend
evolutivo dei sistemi politici europei. I partiti
appartenenti alle famiglie socialdemocratica e popolare hanno per decenni
stabilizzato su un assetto bipolare le democrazie europee. Con sempre maggior
evidenza quest’assetto pare stia vivendo una fase di mutamento. Questi partiti
infatti, arrembati ai lati da un variegato spettro di formazioni neo populiste,
chi più antisistema, chi con radici nelle culture radicali di destra e
sinistra, si trovano ad occupare il centro dell’offerta politica su posizioni
sempre più convergenti. Dove le leggi
elettorali lo consentono, governi di grande coalizione sono ormai la soluzione
più semplice per costruire una maggioranza, come dimostrano Italia (nonostante
tutte le peculiarità del caso)e ancor meglio Germania e lo stesso accordo tra
conservatori e socialisti dopo il voto europeo. Anche in Francia nonostante il
doppio turno garantisca un formale bipolarismo, in sostanza si sta
stabilizzando una fase tripolare. Il concretizzarsi di
un accordo di governo tra i Tories e il Labour Party a Westminster non è,
perciò, in alcun modo da scartare. Riuscirà l’Italicum
a confutare il fatto che non si crea il bipolarismo con le leggi elettorali?
Luca Scaglione
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