#Pensatodavoi
Elezioni in Israele: Bibi litiga con tutti e vince
San Patrizio porta bene a Bibi Netanyahu,che vede
riconfermato il primato del Likud all’appuntamento elettorale del 17
marzo,chiudendo la crisi di governo di fine novembre scorso. Dissapori in
materia finanziaria e suggestioni connesse al dibattito sullo Jewish State
Bill,la proposta di riforma costituzionale che eleva lo Stato di Israele a
stato-nazione del popolo ebraico,erano stati infatti all’origine della rottura
della coalizione di governo in carica dal 2013,rottura materializzatasi in
particolare con il “licenziamento” del ministro della Giustizia Tzipi Livni e del Ministro delle Finanze Yair Lapid ( capo
del centrista Yesh Atid) , seguito nelle sue sorti da una mezza dozzina di
compagni di partito, nonché membri del gabinetto Netanyahu,che hanno
stoicamente rassegnato le dimissioni. La caduta dell’esecutivo ha altresì
siglato la fine dell’asse Likud – Yisrael Beiteinu, vittorioso alle elezioni di
due anni fa,catapultando il primo ministro uscente in una campagna elettorale
in solitaria. I leader del centro sinistra,dal canto loro,hanno unito le forze
nell’Unione Sionista,la cui architettura politica trova fondamento nell’intesa Isaac Herzog – Tzipi Livni, leaders rispettivamente del Partito
Laburista Israeliano e dello HaTnuah di centro sinistra,già dentro al terzo
governo Netanyahu ( nonché 33° del moderno Stato di Israele). Un’architettura
non troppo solida,che tuttavia ha tratto in inganno gli osservatori nazionali
ed esteri,apparendo in testa agli exit poll di mercoledì mattina. In data 19
marzo il Central Election Committe riporta proiezioni non ufficiali confermando
il sorpasso del Likud ai danni dello schieramento laburista: 23,40% per il
premier uscente ( il 12% in più rispetto al 2013),seguito a ruota dall’Unione
Sionista (attestatasi al 18,67%) e dalla Joint List,l’alleanza di partiti
arabo-israeliani,al 10,54%; crollo dei consensi invece per lo schieramento
centrista Yesh Atid (8,81%) che dimezza la percentuale di voti rispetto alla
precedente tornata elettorale. Un nuovo governo, dunque, per lo stesso Primo Ministro, a scapito delle
attese di quanti,all’interno e all’esterno dei confini nazionali, hanno patito
l’imbarazzo dovuto ad alcune pesanti dichiarazioni dell’irriducibile Bibi:una
vigilia elettorale in polemica,vista la radicale chiusura alla soluzione a due
stati (che getterebbe le basi per la pacificazione della Palestina);affermazioni
che non hanno mancato di suscitare malumori,specie al di là dell’Atlantico,ove
lo sguardo sullo storico alleato mediorientale sembra essere divenuto, invero
già da tempo,piuttosto appannato. A nulla è valso il cambio di registro post
elettorale: la Casa Bianca ha preso in
parola il Primo Ministro rieletto,come risulta dalle risposte che il presidente
Barack Obama ha fornito all’ Huffington Post in un’intervista di sabato 21
marzo:al di là delle apparenze,dunque, congratulazioni solo protocollari da
parte del Segretario di Stato John Kerry. Da Washinghton a New York la strada è breve. È al
Palazzo di Vetro infatti che la diplomazia americana guarda per ricomporre in
chiave palestinese la trama delle “relazioni pericolose”con il Vicino Oriente, auspicando
di ridisegnare i confini israelo-palestinesi ai valori pre 1967. Non manca
certo l’audacia al Consiglio di Sicurezza,il cui interlocutore ebraico, ora
impegnato nella formazione del nuovo governo,negli ultimi due anni non ha
mostrato grande propensione alla pacificazione diplomatica dell’area,mantenendo
la linea dura con Hamas,a elevatissimo costo di vite umane tra i civili della
Striscia di Gaza; a questo proposito l’Autorità Palestinese minaccia da tempo
di denunciare Israele alla Corte Penale Internazionale per gross
violations dei diritti umani; un cammino virtuoso verso la soluzione a due
stati, purché suffragato da risultati concreti, consentirebbe agli Stati Uniti
e alle altre potenze di dissuadere i palestinesi dall’intraprendere una simile
azione. Ma Netanyahu è incontenibile: ancora un nota di sconforto,questa volta
sotto forma di appello al voto per scongiurare l’affluenza “in massa “ degli
elettori Arabo-israeliani ( appello seguito,il lunedì successivo,da scuse per
aver ferito la comunità musulmana). Sarà anche per questo che la Joint List ha
totalizzato il 10,54% di voti risultando,unita,la terza forza politica del
paese? O il neo (ri)eletto Bibi soffre lo scongelamento
delle relazioni USA- Iran sul programma nucleare della Repubblica Islamica,
scongelamento che coinvolge più in generale i famosi 5+1 ( i membri permanenti
del Consiglio di Sicurezza più la Germania) al lavoro con la diplomazia
iraniana per un’intesa sullo sviluppo del nucleare civile? Non deve stupire,
però, l’orientamento
nazionalista-conservatore del Likud e del suo leader, che da sempre ha
incardinato l’amministrazione del paese ( e la campagna elettorale) sulla
sicurezza e sulla protezione della maggioranza ebraica,trovando oltreoceano appoggio
pressoché incondizionato. Tutto perfettamente in linea con lo Jewish State
Bill. Peccato, però, che alcuni,dentro e fuori la Knesset, temano, per un
verso, lo svilimento della tradizione democratica che una simile riforma
potrebbe implicare e, per un altro, ripercussioni sulle minoranze. Picchi elevati
di dissenso sembrano non avere potere corrosivo nei confronti del sostegno
militare che storicamente caratterizza le relazioni tra Gerusalemme e
Washinghton. L’alleato “ antipatico” farà pur venire i bruciori di stomaco
all’inquilino della Casa Bianca,ma piace molto ai suoi rivali repubblicani,che
ai primi di marzo hanno avuto modo di applaudire il loro amico in visita negli
Stati Uniti,e che in occasione del suo discorso al Congresso gli hanno
riservato quello che il comico statunitense Jon Stewart ha efficacemente
definito “ the longest blowjob a Jewish man has ever received” ( !)
Massimo Parisi
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