giovedì 30 ottobre 2014

Speciale ISIS

LA PAROLA ALL’ESPERTO

La rubrica mensile di IMESI che riporta la voce degli esperti sulle maggiori tematiche di politica internazionale

Speciale ISIS
a cura di
Fabio MarcelliGiurista internazionale e ricercatore dell’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR


ISIS e Occidente, il nemico/alleato perfetto
Fenomeno inatteso e scarsamente conosciuto, per nulla previsto, la rapida e apparentemente irresistibile ascesa dell’ISIS costituisce una nuova conferma della sostanziale inettitudine dei servizi d’informazione delle principali Potenze. In pochi giorni i suoi combattenti, apparentemente ben addestrati e meglio armati, hanno conquistato estesi territori in Iraq e Siria, facendosi poi conoscere con una dirompente strategia mediatica basata sulle decapitazioni in diretta degli ostaggi inermi ed innocenti ed instaurando nei territori occupati un regime basato sull’applicazione delle leggi islamiche nella versione più estrema, la schiavizzazione delle donne, la confisca dei beni di coloro che non accettano convertirsi.
I proclami lanciati dall’ISIS terrorizzano l’Occidente. Eppure lo stesso ISIS è in buona misura il prodotto di politiche e scelte occidentali che hanno gettato le basi del fenomeno e fertilizzato il terreno da cui è scaturito.
Venirne a capo implica pertanto il rovesciamento di queste politiche. Cosa che non risulterà per nulla facile dato che esse sono strettamente implicate con gli interessi di fondo delle classi dominanti occidentali. La cosa principale da intendere è tuttavia come tali politiche e la crescita del fondamentalismo, anche nelle forme assunte dall'ISIS siano strettamente connesse. Simul stabunt et simul cadunt.
Si tratta di un’esigenza alquanto urgente. Le orde fondamentaliste infatti si riversano su tutta l’area medio-orientale. La loro capacità di attrazione è direttamente proporzionale al vuoto di prospettive di futuro che la società occidentale presenta di fronte ai giovani, specie alle seconde generazioni provenienti da Paesi islamici. Sintomatico peraltro il fatto che perfino in Giappone la polizia ha intercettato un tredicenne che avrebbe voluto unirsi all’ISIS. E non si trattava neanche, a quanto pare, di una persona di fede islamica.
Come in tutti  i momenti di grave crisi, non solo economica, ma sociale, politica, culturale, ideale, quello attuale si rivela particolarmente propizio all’emergere di forze estremiste, che sotto la copertura di un’ideologia pseudoreligiosa di stampo fondamentalista praticano il terrorismo e la violazione su larga scala dei diritti umani. Non è pensabile un loro contrasto sul terreno prettamente militare e dell’intelligence se non accompagnato dalla promozione di modelli alternativi. Occorrono quindi un’approfondita conoscenza del nemico e dei fattori che ne hanno consentito la nascita e la crescita e una controffensiva sul terreno politico e del modello di società.
La minaccia è concreta e vicina. Infatti, i recenti successi delle forze fondamentaliste in Siria ed Iraq rappresentano sempre più una minaccia diretta nei confronti dell’area mediterranea. Esse si proiettano verso il Libano e in prospettiva verso l’Europa, dove si attende il ritorno delle centinaia di combattenti che stanno svolgendo il loro tirocinio militare in Iraq e Siria approfittando delle contraddizioni delle politiche occidentali.
Anche se, come dimostrato dai ripetuti successi delle forze kurde di autodifesa, specie a Kobané,  non si tratta per nulla di guerrieri invincibili, non va per nulla sottovalutata la potenzialità esplosiva della miscela tra fanatismo religioso ed interessi geopolitici ed economici di varia natura rappresentata dal gruppo, frutto del resto a sua volta della metamorfosi, scissione e riunificazione di forze preesistenti. Come ogni gruppo fascista che si rispetti, anche l’ISIS del resto trae il suo potere e la sua legittimazione in primo luogo, se non esclusivamente, dall’uso sfrenato della violenza armata, preferibilmente ai danni di popolazioni inermi. Sarebbe interessante in questo senso approfondire il significato del rientro in forze del gruppo sulla scena dopo che, alcuni fa, i suoi eccessi e le reazioni destate in vari settori del mondo sunnita irakeno lo avevano fortemente indebolito.
Scenari e fattori: il tragico minuetto tra Occidente e fondamentalismo
Va quindi detto per cominciare che la nascita di questo movimento ha trovato un terreno particolarmente fertile nella situazione di caos programmato che le principali Potenze, Stati Uniti in testa, hanno voluto imporre alla regione, a partire dall’invasione dell’Iraq nel 2003. A tale invasione, che ha costituito una gravissima violazione del diritto internazionale rimasta priva di ogni sanzione e condanna significativa, si sono accompagnate massicce violazioni dei diritti umani, come le uccisioni extragiudiziali, le torture e le sparizioni. Di tali episodi si sono resi protagonisti in un primo tempo direttamente i militari statunitensi che hanno poi delegato le relative attività al governo fantoccio presieduto da Maliki. Si è trattato evidentemente di un gravissimo errore, dato che la politica settaria, corrotta e repressiva attuata da quest’ultimo ha aggravato la divisione esistente fra sunniti e sciiti.  I primi, emarginati da ogni livello di governo e sottoposti a brutale repressione, hanno infine trovato nell’ISIS un proprio paladino.
Parallelamente, negli ultimi anni, e a partire dalle rivoluzioni arabe del 2011, le Potenze occidentali hanno fomentato la guerra civile in Siria, approfittando della delegittimazione del regime di Assad, che scatenava una feroce repressione contro le proteste democratiche. L’azione di destabilizzazione si è appoggiata anche qui sulla divisione fra sunniti e sciiti. E’ infatti alawita, e quindi facente parte dell’islamismo sciita, la minoranza di cui fa parte la famiglia Assad, che è al potere da tempo. L’azione di destabilizzazione esterna ha teso a fomentare il ricorso alla lotta armata contro il regime, che ha visto il prevalere, di fronte alle fragili milizie del cosiddetto Esercito siriano libero, le componenti fondamentaliste organizzate in un primo tempo in Al Nusra, una frazione locale di Al Qaeda, e poi nell’ISIS.
Un ruolo di fondamentale importanza nel sostegno a queste forze fondamentaliste è stato svolto dai regimi reazionari dell’area, soprattutto Arabia Saudita e Qatar, ma in misura minore anche la Turchia. Oltre a riprendere un ruolo di fiancheggiamento dell’imperialismo occidentale svolto a partire dall’intervento sovietico in Afghanistan, tali Stati mirano in tal modo a conseguire propri obiettivi di interesse strategico, quali l’attuazione di una controrivoluzione preventiva volta ad impedire che l’afflato liberatorio delle Rivoluzioni arabe li coinvolga e il contenimento della potenza iraniana, molto attiva nel sostegno sia ad Assad che a Maliki. Nel caso della Turchia, vi è anche l’interesse a combattere la rivoluzione kurda, che si è consolidata nella Siria nordorientale con l’instaurazione della regione autonoma della Rojava e si sta consolidando in tutta la Turchia, in stretto rapporto con le forze democratiche che si oppongono al regime di Erdogan.
Non si deve d’altronde sottovalutare l’importanza acquisita, sullo scenario internazionale, da regimi come quello saudita e quello qatariota, i quali grazie all’accumulazione finanziaria conseguente al boom petrolifero degli anni Settanta, si sono convertite non sono in alleate (lo erano già prima) ma anche in finanziatrici degli Stati Uniti. Con i settori più reazionari dell’amministrazione statunitense, che sono coloro che, Obama o non Obama, controllano, dirigono e decidono la politica estera di Washington, tali regimi intrattengono d’altronde strettissimi rapporti, sottolineati proprio nel contesto successivo all’attentato dell’11 settembre, che presenta d’altronde come noto aspetti per nulla chiari, al punto che taluno si è spinto ad ipotizzare una certa accondiscendenza nei confronti degli attentatori da parte dell’apparato di sicurezza statunitense. Una sorta di incendio del Reichstag in chiave islamico-bushista.
Non va peraltro nascosto che in alcuni casi sono stati gli Stati Uniti in prima persona a decidere di finanziare ed armare l’ISIS, nella stolida convinzione che la sua espansione potesse in qualche modo servire i loro interessi, dopo che era fallito il piano di attacco ad Assad e si sentiva la necessità di bilanciare in qualche modo l’evidente influenza dell’Iran sul governo irakeno. Thierry Meissan ha reso noto in questo senso che una sessione segreta del Congresso avrebbe deliberato il sostegno all’ISIS nel gennaio 2014. Notizia interessante e indubbiamente da verificare.
Come evidenziato da Meissan, ciascuna delle potenze facenti parte dell’evanescente coalizione anti-ISIS (che fino a poco tempo fa appariva molto di più come coalizione pro-ISIS) appare ispirata da suoi obiettivi: il controllo delle enormi fonti petrolifere della zona per gli Stati Uniti, la salvaguardia delle proprie frontiere e lo svolgimento indisturbato del proprio progetto di colonizzazione e tendenziale annientamento dei Palestinesi per Israele, la penetrazione nel proprio ex impero coloniale per la Francia, il ripristino di una sorta di Impero ottomano del Terzo Millennio per la Turchia.
In tutti questi casi l’ISIS e in genere il fondamentalismo islamico costituisce un asset strategico di tutto rispetto, anche per la forza di attrazione ideale che esercita sulla diaspora dei jihadisti. Esso infatti presenta un potenziale di destabilizzazione strategica enorme nei confronti delle principali Potenze antagoniste dell’Occidente, Russia e Cina, che contano ciascuna delle regioni popolate da islamici. Come pure dell’India, dove l’avvento al potere dell’integralista indù Modi appare destinata ad aggravare le tensioni interreligiose e quelle con il Pakistan.
L’ISIS tuttavia persegue un proprio obiettivo che può entrare in contraddizione diretta con i suoi mentori diretti e indiretti. La sua rapida avanzata, e il deliberato ricorso alle spettacolari e disumane esecuzione di cittadini britannici e statunitensi, ha spinto il governo degli Stati Uniti a ricercare un’alleanza regionale volta a contrastarla, ma che si rivela di non facile attuazione, come dimostrato dal rapido sgretolamento del potere del governo irakeno nella zona del cosiddetto triangolo sunnita e dalle “esitazioni” della Turchia che ha impedito ai Kurdi di portare soccorso alla città di Kobane, assediata oramai da varie settimane. Salvo concedere alla fine il passaggio di qualche centinaio di peshmerga provenienti dal governo regionale di Erbil, a condizione che fossero comunque salvaguardate le proprie esigenze di lotta ad Assad e al PKK kurdo che intrattiene fraterni rapporti con le milizie kurdo siriane del YPG e dell’YPJ.
Lo studioso Mohammed Hassan ha peraltro messo in luce le convergenze esistenti fra Occidente e forze fondamentaliste in varie situazioni. L’Occidente, e il governo statunitense in primo luogo, attua, nei confronti di tali forze, una politica che è poco definire schizofrenica, utilizzandole in taluni contesti, come da ultimo in Libia e Siria, salvo poi tentare di sganciarle quando si avvede che possono diventare un pericolo anche per i propri interessi. Quasi mai tuttavia lo “sganciamento” è possibile in termini rapidi e indolori.  La vicenda libica appare esemplare in questo senso, laddove si pensi che il console statunitense a Bengasi fu ucciso assieme ad altri funzionari dell’Intelligence statunitense, proprio dai fondamentalisti che aveva fino a poco tempo prima finanziato, armato e sostenuto in ogni modo.
Un elemento strategico di convergenza tra ISIS ed analoghe milizie fondamentaliste da una parte, e potenze occidentali dall’altra, risiede, pertanto, nella volontà di promuovere la guerra.  Per gli uni quest’ultima rappresenta l’estrema garanzia che i propri interessi non saranno scalfiti dall’avvento di situazioni nuove o dal mantenimento di vecchi equilibri che più non li soddisfano, per gli altri la guerra costituisce lo strumento principale per affermarsi.  Non è pertanto casuale che le potenze occidentali si siano adoperate, rispetto al conflitto libico, per scongiurare in ogni modo la possibilità di un negoziato e di una soluzione pacifica caldeggiata dall’Unione africana, che aveva raggiunto dei risultati con una missione in loco sostenuta soprattutto dal Sudafrica, abusando del mandato ottenuto dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, intervenendo apertamente a fianco degli insorti e arrivando fino all’estrema conseguenza del linciaggio di Gheddafi. Risultato: la Libia è tuttora in preda a un caos indescrivibile dal quale difficilmente potrà uscire. Mentre il governo italiano, interessato a una soluzione pacifica e, mediante ENI, allo sfruttamento delle risorse petrolifere libiche, assiste impotente e privo di idee.
Il caso della Libia peraltro è esemplare anche per la proiezione su scala internazionale del jihadismo cui esso ha dato luogo, dopo che parte degli islamisti insorti contro Gheddafi con l’aiuto della NATO si sono diretti in Mali dando luogo a nuovi focolai di insurrezione repressi dall’intervento francese. E’ lecito porsi la domanda se questa alimentazione reciproca fra intervento occidentale e jihadismo non sia voluta per creare instabilità politica e soddisfare le aspirazioni dei mercanti di armi e di mafie varie. Il fondamentalismo islamico armato, quindi, risulta pienamente funzionale all’instaurazione dello stato d’eccezione che consente di tenere sotto controllo ampie (sempre più ampie) aree del pianeta che rischierebbero altrimenti di sfuggire all’emprise di multinazionali e neocolonialisti.
L’ISIS costituisce anche da questo punto di vista un case in point, dato che la conquista degli stabilimenti petroliferi da parte dell’organizzazione in una delle aree più ricche di combustibile del pianeta, ha allontanato la minaccia della penetrazione di imprese appartenenti ai BRICS, cinesi e russe in particolare, che si stavano avvalendo della mediazione iraniana per accedere a queste risorse.
Non bisogna del resto scartare l’ipotesi che la carta dell’ISIS sia stata giocata consapevolmente dopo il fallimento, data la ferma opposizione di Russia e Cina, di attuare anche in Siria il giochino libico.
La complementarietà tra ISIS e classi dominanti occidentali è stata affermata di recente da Nazaran Arminian, che ha enunciato ben 23 “verità scomode” a proposito dell’ISIS. In primo luogo il costante utilizzo di forze fondamentaliste armate e terroristiche per destabilizzare varie situazioni: dall’Afghanistan ai tempi dell’intervento sovietico, al Kosovo (va sottolineato che Abdelmajid Bouchar, coinvolto nell’attentato dell’11 marzo a Madrid, fu arrestato a Belgrado nel 2005), ad Ansar al-Sharia in Libia, ai gruppi fondamentalisti operanti contro Assad in Siria.
Il ruolo del governo qatariota come “bancomat” dell’ISIS è stato affermato dal ministro dello sviluppo tedesco, Gerd Mueller,  mentre è stata in qualche occasione Hillary Clinton, a sottolineare quello dell’Arabia Saudita come finanziatore globale del terrorismo jihadista. Lo stesso regime saudita con il quale gli Stati Uniti hanno firmato un’accordo di vendita di armi per un importo pari a 640 milioni di dollari, armi utilizzate  per reprimere le proteste democratiche in Bahrein e Yemen, ma sicuramente finite in mano agli ottimamente equipaggiati fondamentalisti, in particolare ISIS. D’altra parte gli Stati Uniti chiudono entrambi gli occhi sul contrabbando di petrolio effettuato da quest’ultimo e che ne costituisce a oggi la principale fonte di finanziamento. Né hanno avuto alcuna reazione dopo che ISIS si era impadronito di un magazzino militare iracheno contenente 2.500 missili caricati a gas Sarin e 40 kg di uranio sottratti nel momento dell’attacco all’Università di Mosul.
Perché gli Stati Uniti impiegano oggi solo una piccola parte del proprio enorme potenziale militare nei confronti di ISIS, dopo aver annientato in poco tempo le ben più temibili armate di Saddam Hussein? Perché tollerano il persistente appoggio di Arabia Saudita, Qatar e Turchia ad ISIS? Anche nel caso di Kobané i pur essenziali bombardamenti degli assedianti sono venuti solo dopo la mobilitazione dell’opinione pubblica statunitense e mondiale e tuttora con una certa reticenza. E’ evidente la volontà degli strateghi statunitensi di continuare a contare su questa organizzazione o su organizzazioni analoghe per portare avanti i propri interessi. Determinante risulta come accennato il ruolo di controrivoluzione preventiva affidato a gruppi di questo tipo che agitano la bandiera dell’anti-imperialismo in modo puramente strumentale e che portano avanti una battaglia anticolonialista solo per restaurare un regime, in gran parte frutto di puro vaneggiamento  ideologico-religioso, ancora peggiore quanto a rispetto dei diritti dei singoli e della collettività. Non sarà quindi da Washington e dai suoi alleati che verrà la sconfitta di ISIS, strumento che viceversa essi continuano ad utilizzare con notevole spregiudicatezza al fine di accentuare la destabilizzazione dell’area e contenere la penetrazione di soggetti considerati ostili nel contesto di una generale contrapposizione fra Occidente e potenze emergenti, ma anche della necessità che le forze reazionarie avvertono sempre più fortemente di impedire lo sviluppo nell’area di esperienze autenticamente democratiche e rivoluzionarie.
Identità: interpretazione reazionaria della religione come alternativa al modernismo in tutte le sue salse
L’identità dell’ISIS è fortemente legata all’interpretazione più estrema della Sunna. Tale ideologia prevede nel modo più estremo l’impossibilità di separare la religione dalla politica. La politica quindi va subordinata alla regione e a un modello gerarchico e teocratico, che vede l’interpretazione del messaggio e della volontà di Allah come prerogativa assoluta di una ristretta élite di guerrieri che si autolegittimano con l’esercizio della violenza. Una via di mezzo fra la Chiesa preconciliare e la mafia degli ultimi decenni. Da questo nasce l’obiettivo del Califfato, inteso come progetto religioso e politico al tempo stesso, che intende dare una risposta alle frustrazioni più o meno recenti vissute dai musulmani sunniti, incontrando appunto il favore degli Stati reazionari dove sono al potere delle élites sunnite.
Fra tali frustrazioni vale la pena di ricordare quella, vissuta in un passato relativamente recente, con il tradimento da parte delle Potenze occidentali della promessa di restaurazione del Califfato fatta agli arabi per fomentarne la rivolta contro l’Impero ottomano, che culminò nella spartizione coloniale dei territori arabi con la cosiddetta linea Sykes-Picot e con la Dichiarazione Balfour, relativa alla formazione di un “focolaio ebraico” in Palestina. Va anche ricordato ai regimi coloniali, in Paesi come l’Iraq e la Siria, ma anche per molti versi in Egitto, Libia ed altrove, successero regimi militari dediti a reprimere la propria popolazione e a soffocare ogni tentativo democratico.  Questi stessi regimi si scontrarono, e continuano a scontrarsi, con le forze islamiche, come la Fratellanza musulmana in Egitto le quali vennero quindi a interpretare per certi aspetti le istanze popolari.
Ciò spiega oggi la loro popolarità in alcune situazioni. Ciò non toglie che, come spiega Mohamed Hassan, forze come “Ennahada” in Tunisia o i Fratelli musulmani in Egitto sono da un lato a favore del capitalismo come sistema economico e dall’altro presentano un’ideologia fortemente anticomunista e reazionaria. Hassan spiega come, a partire dalla guerra contro i sovietici in Afghanistan, si sia formata e alimentata una massa d’urto formata da giovani islamici provenienti da vari Paesi, che hanno fatto della guerra la propria professione e nutrono l’ideale di uno Stato islamico governato in tutto e per tutto dalla shari’a. La relativa ideologia si nutre delle frustrazioni personali e sociali di uno strato di maschi in genere appartenenti alle classi medie che di fronte alla crisi e alla persistente politica di dominazione imperialista dei loro territori, e in assenza di alternative popolari, si rivolgono al fondamentalismo.
Tale ideologia presenta parecchi punti in comune con il nazismo e in genere l’estrema destra occidentale. Se il primo è nato e si è sviluppato individuando gli ebrei come capro espiatorio, se la seconda tenta oggi di prosperare additando i migranti come causa del disagio delle popolazioni indigene europee, i fondamentalisti islamici aspirano al ripristino dell’epoca d’oro del Califfato e vaneggiano l’instaurazione di una società dove agli eletti siano riservati i privilegi mentre il resto della popolazione è condannata alla schiavitù e all’assoluta mancanza di diritti.
Un ruolo chiave in tale contesto è rappresentato dalla subordinazione della donna, relegata nei ruoli tradizionali di moglie/madre/oggetto sessuale. A tale fine, come ad altri, si attinge alle parti più discutibili del testo sacro, il Corano che d’altronde costituisce, come del resto altri testi del genere, quali la Bibbia, un magazzino di citazioni e di norme con le quali si può praticamente affermare tutto e il suo contrario.
E’ stato peraltro ravvisata una sostanziale convergenza tra le correnti più “solidariste” dell’islamismo politico, quali soprattutto i Fratelli musulmani, da un lato, e quelle più radicali e belligeranti, come l’ISIS, ravvisando una comune radice ideologica in Sayid Qutb, che operò negli anni Trenta e Quaranta dello scorso secolo. Quest’ultimo presenta, nell’analisi svolta da Hassan, significative analogie con il pensiero della destra cattolica che assunse “la difesa del capitalismo, del colonialismo e anche del nazismo” di fronte alla minaccia rappresentata dai bolscevichi. Cardine di tale ideologia è la difesa di un ordine di tipo feudale, che si accredita come “naturale” a fronte di qualsiasi velleità di cambiamento e di aspirazione a un ordine sociale più giusto. Anche se occorre ravvisare una certa ambiguità per quanto attiene al rapporto con l’imperialismo e con il colonialismo, che per certi versi vengono rigettati dalle tendenze islamiste in quanto negano la loro autonomia e il loro sogno di reviviscenza del Califfato.
Sayyid Qutb radicalizzò molto il suo approccio nel corso del suo viaggio negli Stati Uniti dal 1948 al 1950, durante il quale rimase scioccato dalla “degenerazione spirituale e morale” ed ebbe a constatare che “nessuno è lontano dalla spiritualità e dalla pietà quanto gli Americani”.   Il rifiuto della civiltà occidentale in quanto materialista e corrotta, si estendeva anche ad aspetti quali democrazia e nazionalismo.
La negazione della democrazia, sia nella sua versione capitalista che, a maggior ragione, in quella socialista, costituisce quindi un aspetto di tale ideologia, aspetto che peraltro essa condivide con i regimi reazionari della regione, specie Arabia Saudita e Qatar, che escludono da ogni diritto buona parte delle rispettive popolazioni, in particolare donne e immigrati. La democrazia, di qualsiasi genere, non costituisce del resto affatto un ingrediente immancabile del sistema capitalistico, che da esse prescinde volentieri ogniqualvolta siano messi in pericolo i propri fondamentali interessi.
E' bene tuttavia sottolineare con forza, come, contrariamente a quanto affermano analisti frettolosi e in qualche caso tendenziosi, lo scontro fra fondamentalismo islamico e Occidente non costituisce affatto la traduzione in pratica dello scontro fra civiltà vaticinato da Huntington come alternativa praticabile all'eclissi del nemico che si era determinata a seguito del venire meno dei blocchi contrapposti.
Proprio l'analisi della situazione appena descritta mostra infatti come esistano, in seno all'Islam, molteplici visioni e approcci differenziati che vanno ben al di  là della spaccatura fondamentale tra sunniti e sciiti. Anche in seno ai sunniti, infatti, esistono scuole di pensiero fra loro molto differenti, anche se va registrata per effetto parallelo della diffusione dei jihadisti e del denaro saudita, una forte crescita di quella wahabita, ispirata dalla lettura più rigorista e reazionaria possibile degli insegnamenti del Corano.
A conferma dell'assunto generale secondo il quale la religione, come ogni ideologia, serve più che altro a coprire e giustificare interessi concreti, giova rilevare come questo fondamentalismo esasperato costituisca la scelta compiuta da giovani, provenienti anche dall'Europa, che scelgono la jihad come una sorta di avventura esistenziale basata su di una carriera militare alternativa alle frustrazioni della crisi, della disoccupazione e dell'emarginazione giovanile, tanto più grave nelle periferie di Parigi, Londra e altre città europee, come pure in quelle delle metropoli senza speranza del Maghreb. Un’interessante analisi dell’ideologia e della base sociale dell’ISIS è quella compiuta dalla giornalista Claire Talon, in un articolo riportato su Internazionale: “Il fenomeno dello Stato islamico può essere visto come la copertura di un’avventura coloniale che trova nelle periferie di Londra, Strasburgo e Stoccolma le reclute più adatte. Le motivazioni di questi combattenti spesso non hanno molto a che vedere con l’Islam”.
Del resto il carattere estremo dei metodi di combattimento adottati e la natura estremista dell’ideologia nutrita da ISIS hanno condotto alla sua scomunica da parte di quasi tutte le autorità religiose sunnite. Ad ulteriore smentita dello schemino interpretativo semplicista e strumentale adottato, sulla scia di Huntington, da parte di taluni commentatori occidentali superficiali, disinformati o in aperta malafede.

Prospettive della lotta al fondamentalismo
Per certi versi l'ISIS, con il suo sogno di restaurazione del Califfato, sia pure, almeno per il momento, su di un'area territorialmente delimitata (a differenza di Al Qaeda, che da tempo si sta peraltro articolando in una serie di organizzazioni a base territoriale più definita), costituisce una risposta in chiave reazionaria alla globalizzazione e alla crisi dello Stato-nazione. Come scriveva vent’anni fa Jean-Marie Guéhenno (La fine della democrazia)  “non vi è dunque incompatibilità tra la globalizzazione astratta dell’età imperiale e l’arcaicità della frammentazione religiosa”. Tale arcaica frammentazione viene oggi riproposta da ISIS in chiave innovativa e fortemente moderna.
Il successo della lotta contro l’ISIS e forze fondamentaliste analoghe è quindi legato alla possibilità di rilanciare risposte differenti agli stessi fenomeni, che siano basate  sulla democrazia di base nell’area, come soluzione alternativa alla dominazione imperialista e alla divisione settaria che quest’ultima ha sempre promosso come proprio instrumentum regni in questa ed altre regioni.
Ciò spiega il particolare accanimento con il quale l’ISIS tenta di liquidare ad ogni costo esperimenti di autogoverno democratico e multietnico come quello attuato nella Rojavà. Per tale motivo la difesa di Kobané assume portata strategica e simbolica fondamentale.
E’ illusorio d’altronde pensare che l’ISIS potrà essere soffocato solo con il ricorso alle armi, tanto più che, per una serie di motivi, le potenze occidentale appaiono comprensibilmente restie ad intervenire sul terreno impiegando truppe di terra.
L’unica arma finale contro l’ISIS è la promozione della democrazia, che implica il superamento delle divisioni settarie. Beninteso deve trattarsi di una democrazia in grado di autodifendersi anche sul terreno militare. Un progetto di lungo periodo ma che già vive nella resistenza armata di Kobané ed altre situazioni.
Situazioni nelle quali il ruolo della donna, anche nella lotta armata, appare fondamentale per smontare dalle fondamenta l’ideologia maschilista e patriarcale su cui l’ISIS si fonda, promettendo anche facili soddisfazioni sessuali ai maschi mediamente frustrati che ne costituiscono la truppa d’assalto.
Come ha affermato la ricercatrice curda Dilar Dirik al Convegno svoltosi presso la Casa internazionale delle donne nello scorso ottobre: “Is è solo la forma attualmente più estrema non solo di oppressione fisica delle donne; ma cerca anche di distruggere ideologicamente tutto ciò che la liberazione delle donne rappresenta. La lotta delle donne curde non è solo una lotta militare contro Is per l’esistenza, ma una posizione politica contro l’ordine sociale e la mentalità patriarcale alla base dell’ordine sociale e della mentalità patriarcale. Sfidare le strutture sociali attraverso la mobilitazione politica e l’emancipazione sociale, insieme all’autodifesa armata, è un contro potere sostenibile a lungo termine per sconfiggere la mentalità di Is. Le donne del Kurdistan si percepiscono come le garanti di una società libera. È facile usare adesso le combattenti curde per dare un’immagine simpatetica di un nemico di Is, senza riconoscere i principi che stanno dietro alla loro lotta. L’apprezzamento per queste donne non dovrebbe essere correlato soltanto alla loro lotta militare contro Is, ma anche al riconoscimento della loro politica, delle loro ragioni e visioni. Se ci sarà una vittoria contro Is, avverrà per mano delle donne curde”. E, si potrebbe aggiungere, delle donne arabe, turche, assire e appartenenti alle altre etnie del Medio Oriente.
La resistenza di Kobané assume un valore di esempio anche nei confronti di tutte quelle forze tendenzialmente maggioritarie, ad impronta non fondamentalista e in alcuni casi decisamente laica, che pur avendo appoggiato in talune occasioni l’ascesa del Califfato, ne soffrono oggi il dominio disumano e le assurde imposizioni. Ciò vale per i settori che facevano riferimento al partito Baath in Iraq, come per numerose realtà tribali sunnite sia in Iraq che in Siria. Tali realtà subiscono infatti oggi la feroce repressione di ISIS, che procede alla decapitazione sia fisica che politica delle loro leadership.
La possibilità di mobilitare queste forze contro il fondamentalismo richiede peraltro la progettazione di un ordine di tipo nuovo ed effettivamente democratico per l’intera area. Di forte interesse appare a tale riguardo l’elaborazione compiuta, nella solitaria prigionia di Imrali,  dal leader kurdo Abdullah Ocalan. Il popolo kurdo, data la marginalità del fondamentalismo islamico al suo interno, la sua esistenza transnazionale in alcuni dei principali Paesi dell’area (Turchia, Iran, Iraq, Siria) e l’esperienza di oppressione subita da molto tempo dai vari regimi, appare nelle condizioni migliori ad assumere un ruolo di leadership verso tale nuovo ordine. A condizione beninteso di non chiudersi in uno sterile ed escludente nazionalismo, ma di far proprie le istanze democratiche a lungo soffocate da tali regimi in stretta cooperazione con l’imperialismo occidentale ed oggi violentemente aggredite dall’ISIS ed altre forze fondamentaliste.
Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno rappresentato una reazione a regimi corrotti e repressivi che avevano acquisito (o credevano di aver acquisito), lo status di mandatari delle potenze dominanti a livello politico ed economico, pur mantenendo in taluni casi (Gheddafi, Assad) dei margini di autonomia che li rendevano ben più invisi a tali potenze.
E' interessante segnalare come, secondo le interpretazioni più convincenti, il primo atto o addirittura il preludio di tali rivoluzioni sia stato costituito dalla rivolta della popolazione saharoui di Al Ayoun, nel territorio occupato dal Marocco da oramai più di quaranta anni, che si verificava nel settembre 2010. Dopo l'esplosione della Tunisia e dell'Egitto contro due regimi direttamente dipendenti dalle potenze occidentali, i primi fermenti di ribellione in Libia e Siria venivano prontamente dirottati in direzione della guerra civile dall'intervento di queste stesse potenze, ansiose di trovare nuovi capisaldi nella zona, dopo il rovesciamento dei fedelissimi Ben Ali e Mubarak. Nel frattempo, nella zona più direttamente prossima all'Arabia Saudita, avveniva la spietata repressione del movimento popolare del Bahrein e la guerra civile investiva anche lo Yemen.
A quasi ormai quattro anni di distanza da quei fatti, l'impatto liberatorio delle rivoluzioni arabe si è in buona parte dissolto per effetto anche del pesante intervento politico delle forze fondamentaliste, variamente articolate. E' tuttavia possibile che un nuovo impulso al fenomeno sia dato dalla resistenza kurda che al tempo stesso affronta l'ISIS, il regime turco e quello siriano.
Da un estremo all'alto del Mediterraneo continuano quindi a prodursi fenomeni di protagonismo popolare, ispirato a ideologie politiche non religiose, cui occorre guardare con attenzione. E’ importante quindi che la resistenza al fondamentalismo si nutra, come nei casi evidenziati del Sahara occidentale e del Kurdistan, di istanze nazionali e sociali, ma assunte in una prospettiva di convivenza interetnica e interreligiosa che sia autenticamente democratica.
Parlando di Mediterraneo, pare evidente come tutta questa vicenda ci riguardi molto da vicino. Non solo perché moltissimi membri dell'ISIS che provengono dalle sue sponde (più da quella Sud ovviamente), oltre che dall'Europa e da altre parti del mondo.
Ma anche e soprattutto perché la realizzazione, su entrambe le sponde del Mediterraneo, di una società effettivamente multiculturale basata sul rispetto reciproco fra le etnie, le culture e le religioni, come pure su di una democrazia effettiva (che comporta anche il superamento della condizione di inferiorità degli immigrati cui si continua a negare la cittadinanza), costituisce il migliore antidoto all'affermazione dei fondamentalismi come pure alla perpetuazione dei poteri, di varia natura, dispotici e incontrollati che ne hanno favorito in vario modo lo scatenamento.
In ultima analisi quindi la sconfitta del fondamentalismo richiede quella del modello dominante capitalistico-patriarcale basato sull’assoggettamento imperialistico delle risorse e delle popolazioni dei territori già soggetti allo sfruttamento coloniale, nonché la piena attuazione del principio di autodeterminazione, basato sulla democrazia territoriale multietnica, la partecipazione popolare, l’uguaglianza sociale e la parità di genere. Su di un piano più generale ciò dimostra l’importanza di dar vita a una cultura universale dei diritti umani che sia effettivamente plurale e non basata sull’assiomatizzazione del punto di vista di un Occidente che, in questa come altre materie, ha ben poco da insegnare e anzi molte colpe da espiare.
















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